La verità, vi prego, su Roger Federer

Alcuni dicono che fa girare il mondo

e altri che è solo un’assurdità…

Ditemi la verità, vi prego, sull’amore

Wystan Hugh Auden

Parafrasando il poeta britannico, viene da domandarselo. La verità, vi prego, su Roger Federer. Lo abbiamo definito in tutti i modi: il re, la leggenda, il divino. Incantati dalla sua classe, rapiti dalla disarmante facilità del gesto, stregati da quel complesso di inimitabile eleganza stilistica che abbiamo grossolanamente ridotto al termine talento, perché ogni suo impatto, così pieno, così corposo, è un colpo al cuore, perché la liricità di alcune soluzioni è un’alternanza sfuggente tra impeto e tenerezza, mentre ogni sua impresa è l’eco di un’iperbole senza fine.

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Hieronymus Bosh e il bestiario dei demoni

L’alone di mistero che avvolge le opere di Hieronymus Bosch si dispiega tra i simbolismi espressi attraverso i personaggi che popolano il suo universo surreale: figure a metà tra la bestia e l’umano immerse in contesti che suggeriscono un mondo conflittuale dove la morale e la religione inducono a visioni, allucinazioni, riconducibili a un universo interiore dove il peccato presuppone punizioni infernali, fino alla dannazione eterna. 

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La persistenza della memoria

«Il giorno in cui decisi di dipingere degli orologi, li dipinsi molli. Ciò avvenne in una sera in cui ero stanco. Avevo l’emicrania, il che mi accade raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e all’ultimo momento decisi di restare a casa. Gala uscì con loro, mentre io mi coricai presto. Avevamo concluso la nostra cena con un camembert eccezionale e, allorché fui solo, rimasi ancora per un momento seduto a tavola pensando ai problemi che mi poneva questo formaggio. Mi alzai e mi recai nel mio studio, per gettare un ultimo sguardo al mio lavoro, come era mia abitudine. Il quadro a cui stavo lavorando raffigurava un paesaggio nei dintorni di Port Lligat, le cui rocce sembravano illuminate dalla luce trasparente del crepuscolo. In primo piano avevo dipinto un ulivo, dei rami tagliati e senza foglie. Questo paesaggio doveva servire di sfondo ad una nuova idea, ma quale? Cercavo un’immagine sorprendente, ma non riuscivo a trovarla. Spensi la luce, e uscii dalla stanza e in quel preciso momento “vidi” letteralmente la soluzione: due orologi molli, uno dei quali pietosamente appeso a un ramo dell’ulivo. Malgrado l’emicrania, preparai la mia tavolozza e mi misi all’opera. Due ore dopo, allorché Gala tornò dal cinema, il quadro era finito…». È con queste parole che tra le pagine di “La mia vita segreta” Salvador Dalì racconta la genesi di una delle sue opere più celebri: “La persistenza della memoria”.

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La sottile linea rossa, tra incubo e poesia

Guadalcanal è il paradiso perduto, l’Eden stuprato dal veleno della guerra. È da questo punto fermo che prende vita La sottile linea rossa; poema filmico il cui scopo va oltre a fissare lo sguardo sull’orrore, bensì intraprende un percorso contrario, accarezza spiragli di indicibile bellezza per andare a scavare nell’abominio della natura umana, troppo cieca e impotente al cospetto della propria indole che pare condannare le creature a sterminarsi le une con le altre. Un’opera, quella orchestrata da Terrence Malick, che è contrapposizione perenne, una lezione di vita e di morte all’insegna di un cammino tortuoso, allucinato, privo di ragione eppure intriso di pensiero, specchio e riflesso dell’essere uomini, spesso mossi dalla violenza più esasperata e inconcepibile, ma capaci di slanci lirici soavi.

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L’isola dei morti e il viaggio verso l’ignoto

Un isolotto roccioso, simile a un imponente megalite, che racchiude una cupa macchia di cipressi. Un piccolo porticciolo si affaccia sulla piatta distesa di acqua solcata da una piccola barca a remi. Essa è condotta da un personaggio a poppa, mentre a prua vi è una figura eterea, visita interamente di bianco e una bara, anch’essa bianca, ornata di festoni. L’opera del pittore svizzero Arnold Böcklin, L’isola dei morti, suggerisce un’atmosfera grandiosa, definitiva: l’assenza del sole fa sì che al di là delle nuvole possa filtrare una luce tesa ad uniformare l’intero scenario e, tanto la presenza di portali sepolcrali nelle rocce quanto l’oscurità imposta dai cipressi, anticipano l’eterno silenzio che pare attendere le figure umane sulla barchetta. Nel dipinto di Böcklin non traspare paura, bensì un senso di rassegnazione e immobilità, come se la realtà fosse ormai pronta a cedere il passo a un mondo onirico al servizio di ciò che potrebbe essere semplicemente definito l’ultimo viaggio dell’anima. Continue reading “L’isola dei morti e il viaggio verso l’ignoto”

Eyes Wide Shut, la danza macabra di Stanley Kubrick

Una luce calda avvolge l’accogliente appartamento newyorkese di una coppia alto borghese che si sta preparando per un party prenatalizio. Non fosse per la marcata personalità dei due si tratterebbe di una scena ordinaria, en passant, ma l’algida bellezza di Alice (Nicole Kidman) – che di spalle si sfila un elegante abito nero mentre Bill (Tom Cruise) attraversa con passo sicuro alcune stanze per quindi raggiungere il bagno dove la splendida moglie è ora seduta sul water – riversa sulla pellicola una potenza visiva tale da rendere sufficienti un paio di minuti per consegnare ai posteri la tredicesima e ultima pellicola di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut

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A Monster Call, quando a chiamare è la vita

L’adattamento cinematografico del romanzo più noto di Patrick Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte, è un fantasy a tinte drammatiche destinato a toccare corde nascoste, sensibilissime, difficili da gestire, da accettare. Per Conor O’Malley, dodici anni, cresciuto dalla madre, è inaccettabile che la donna che gli ha dato la vita debba combattere un cancro che, per quanto lei tenti di posare un lume di speranza sul futuro, pare essere giunto alla fase terminale. Incapace di opporsi al bullismo di cui è vittima a scuola, intestardito nel suo evitare di relazionarsi con la nonna materna, amareggiato dalla superficialità del padre, Conor si ritrova costretto ad assumersi responsabilità, soprattutto emozionali, che si sublimano in rabbia repressa, desiderio di fuga, paura. Emozioni urlate attraverso la sua passione: il disegno. Ed ecco che, esattamente sette minuti dopo la mezzanotte, prende vita un regno segreto, pauroso, dove un tasso centenario, visibile in lontananza, dalla finestra della sua camera, al di là di una chiesa ed un cimitero abbandonati, è pronto a squarciare il mondo di Conor, per rivelarsi per quello che è: il mostro.

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Novak Djokovic, l’androide

Quando un bambino di quattro anni trascorre interi pomeriggi a osservare alcuni manovali intenti a costruire i campi da tennis per un circolo sito proprio di fronte alla pizzeria dei genitori, dovrà pur significare qualcosa. Non solo, una volta inaugurato il club, quel marmocchio, tutti i giorni entra di soppiatto, per posizionarsi davanti alla recinzione di quei rettangoli a osservare i suoi coetanei allenarsi. Di lui si accorge Jelena Gencic, la maestra del luogo: gli chiede se vuole provare a giocare. Il giorno dopo quel bambino magrissimo e silenzioso si presenta con la madre, Dijana, la quale, insieme al marito Srdan – un ex sciatore – gestisce la pizzeria più rinomata di Kopaonik, il paesino in cui si svolge la vicenda. Il punto è che Jelena Gencic non è un’insegnante qualunque, è la scopritrice di Monica Seles, e non ha dubbi sul fatto che quel Novak non sia un bambino qualunque, quell’allievo scovato così, per caso, è un prodigio. Per questo lo allena tutti i giorni. Non solo, gli mette in mano dei libri, per poi discuterli insieme lo porta al cinema, parla di obiettivi, del futuro. Forse sa che l’avvenire è suo, perché quel bambino effettivamente non è un semplice bambino, come non è neppure un ordinario Novak. Quel bambino, è Novak Djokovic.

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Gli amanti, il bacio della morte di Magritte

René François Ghislain Magritte nasce il 21 novembre del 1898 a a Lessines, una piccola città a Ovest di Bruxelles. Primo nato di tre fratelli, il padre Léopold era un sarto che commerciava in tessuti, mentre la madre, Régina Bertinchamps, era una cappellaia. È il 1912 quando la famiglia si trasferisce a Châtelet, un paese tranquillo attraversato dal fiume Sambre, ritenuto dal capofamiglia il luogo ideale affinché la moglie superi i disturbi mentali che da tempo la affliggevano sfociati in un forte depressione. Leggenda, a onor del vero mai verificata, vuole che nell’autunno dello stesso anno René Magritte fosse in sella alla sua bicicletta quando vide degli uomini intenti nelle operazioni di recupero di un corpo dalle acque melmose del Sambre. Si trattava di una donna, la cui testa era rimasta avvolta nella camicia da notte. Non solo: quel corpo apparteneva alla madre che, fuggita dalla camera in cui viveva ormai segregata, aveva cercato la morte. Una visione che avrebbe ossessionato il giovane Magritte al punto da influenzarlo in tre suoi capolavori: “Storia centrale”, “Le fantasticherie del passeggiatore solitario”, e soprattutto “Gli amanti”.

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Lo spietato mondo di Dogville

Se l’obiettivo originale di Dogma 95 era quello di purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali, dagli investimenti miliardari e dalla spettacolarizzazione tesa ad americanizzare qualsiasi prodotto, partendo da linee base piuttosto precise – fondate su un decalogo redatto dagli ideatori del progetto Thomas Vitenberg e Lars Von Trier – come il divieto di usare luci artificiali, scenografie, colonne sonore e tracce che non appartenessero a musica diegetica, nonché di rifiutare un qualsiasi espediente di ripresa al di fuori della telecamera a mano; ebbene, a otto anni di distanza dalla nascita del Manifesto, correva quindi l’anno 2003, l’uscita nelle sale cinematografiche di Dogville ha dimostrato che credere di poter incatenare un genio a una qualsiasi regola, fosse pure la più anti-convenzionale, fosse pure la più controcorrente, fosse pure essa stata scritta di suo pugno, risponde a un solo nome: utopia. Non è perciò da ritenersi un caso che, tempo due stagioni, i registi appartenenti a tal proposito abbiano sancito la fine di un patto mai interamente rispettato.

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