Fino alla fine del mondo

Bernardo di Turingia fu il primo profeta ad aver fissato la fine del mondo all’anno 992. In molti credettero alla profezia, tanto da cercare rifugio nelle montagne più alte dei dintorni. Il mondo però non finì e quando nel 1665 un’epidemia di peste colpì l’Inghilterra provocando circa 100.000 vittime Solomon Eccles, quacchero, proclamò che l’ondata era il segno della fine dei tempi. A far cessare la peste e a scongiurare il peggio bastò un incendio che devastò Londra. È il 1932 quando l’egittologo George Riffert analizza le dimensioni della Piramide di Cheope e afferma che il mondo finirà il 6 settembre 1936. Accortosi che non era finito nulla, stabilisce una nuova data: il 20 agosto 1954. Niente da fare. È la volta del 1992: a dirlo è un sacerdote sud coreano, Lee Jang Lim; tutti spacciati, tranne chi fosse corso in banca, avesse prelevato i propri soldi per donarli alla Chiesa Missionaria di Tami. Rientrato il pericolo, ecco che si avvicina la Profezia di Michel de Notre-Dame, noto come Nostradamus che, in merito al 1999 aveva vaticinato: “mille e non più mille“. Un altro flop. A nuovo millennio in corso qualche irriducibile catastrofista è andato a rispolverare una credenza Maya la quale prevedeva un evento di natura imprecisata e di proporzioni immani, capace di trasformare drasticamente l’umanità in data 21 dicembre 2012. Ad ogni modo, per ora, il mondo è ancora qui. Ma se avessimo la certezza che in una “data x” il nostro pianeta si oscurasse per davvero? Se così fosse e, mettiamo, potessimo contare su un’immaginaria Arca di Noè a posti limitati, capace di ospitare alcuni campioni del tennis; chi faremmo salire a bordo? Chi metteremmo in salvo affinché le nuove forme di vita potessero accarezzare le memorie che avevano emozionato il precedentemente estinto genere umano?

Partiamo dalla notte dei tempi tennistica: i primi a salire sull’Arca sono l’8 volte re di Wimbledon William Renshaw; i fratelli Reginald e Lawrence Doherty, con Reggie 4 volte primo a Wimbledon e Laurie una volta in più stella ai Championships e 2 dello US Open, mentre in doppio implacabili 8 volte a Wimbledon, 2 allo US Open, alle Olimpiadi di Parigi del 1900, nonché trascinatori di 4 Coppa Davis; lo sfortunato Anthony Wilding, che dopo 2 Australian Open e 4 titoli consecutivi a Wimbledon, il 9 maggio 1915 cadde sul campo di battaglia di Neuve-Chapelle durante la prima guerra mondiale; il campione delle prime 7 edizioni degli US Championships e sempre imbattuto Richard Sears; il 7 volte re degli Open USA William Learned, debilitato al ritorno della guerra ispano-americana e morto suicida a 54 anni; il quasi centenario Max Décugis (1882-1978) re di Francia per 8 volte in singolare, 14 in doppio e 7 in doppio misto; la precocissima Lottie Dod, che appena quindicenne si impose a Wimbledon, la 7 volte regina sull’erba inglese Dorothea Douglass Chambers e la vincitrice di 6 su 13 finali nello slam londinese Blanche Bingley Hillyard. 

I quattro Moschettieri di Francia: Jacques Brugnon, Henri Cochet, René Lacoste e Jean Borotra

Come non riservare poi, quattro posti in prima classe ai Quattro Moschettieri di Francia: René Lacoste, Henri Cochet, Jean Borotra e Jacuqes Brugnon, capaci se sommati insieme di vincere 20 slam in singolare, 23 in doppio e dal 1927 al 1932 addirittura 6 edizioni di Davis. Anche una signora francese, o meglio una ‘divine’, come l’aveva definita la stampa transalpina, si è guadagnata un posto nell’Arca: si tratta di Suzanne Lenglen; sensuale, elegante al punto che pareva una danzatrice più che una tennista, ma anche vincente dato che è riuscita a far suoi 25 titoli slam tra singolari e doppi, tra cui 6 Wimbledon dove si è presa la briga di interrompere il dominio di Dorothea Douglass Chambers. Vera dominatrice della scena tra gli anni 20’ e 30’ è stata però Helen Willis Moody capace di mettersi in tasca 7 US Open, 8 Wimbledon, 4 Open di Francia e 2 ori Olimpici. Helen ha aiutato le tenniste a liberarsi delle gonne alla caviglia e dei corpetti e, sotto alla visiera bianca, esibiva un’espressività talmente rigida e impassibile da farle guadagnare il soprannome di Little Miss Poker Face, ossia “Signorina faccia da poker”. Posto garantito per entrambe ovviamente, così come per Bill Tilden, fenomenale in campo tanto da vincere per 7 volte lo U.S Open e trascinare gli USA alla conquista di 6 Coppe Davis, quanto nella capacità di cambiare l’immagine pubblica del tennis, da quella di uno sport da ‘signorine’ a sport di massa. 

È d’obbligo la standing ovation per John Donald “Don” Budge, il primo a realizzare il Grande Slam nel 1938. La sua altezza l’ha aiutato nel diventare uno dei più potenti servitori di tutti i tempi, mentre la sua grazia nei movimenti, il suo rovescio infallibile, lo resero il miglior giocatore dell’epoca. Finché nel 1942 si arruolò nell’esercito statunitense per combattere nella Seconda Guerra Mondiale e, nel 1943 durante una corsa a ostacoli si strappò un muscolo della spalla limitandone le sue abilità tennistiche per sempre. Indelebile è rimasta la finale di Coppa Davis del 1937, USA vs. Germania quando Don Budge affronta il barone Gottfried Von Cramm. Il tedesco conduceva 4-1 nell’ultimo set, ma Budge ha rimontato e vinto 8-6 l’incontro, considerato come la prima grande battaglia sui campi da tennis. Un match che venne preceduto da una telefonata di Adolf Hitler a Von Cramm e che si concluse con una toccante frase pronunciata dallo sconfitto: «È il più gran match della mia vita. Sono lieto d’averlo giocato con un uomo come te». Un uomo Von Cramm che, nonostante una celebre foto lo immortali leggermente inchinato nell’atto di stringere la mano al Führer, non si allineò mai con il regime, anzi dovette subire un processo e una condanna per crimini di omosessualità. Personaggi indimenticabili, così come lo è Jack Crawford; australiano con il vizio di bere whiskey quando le partite si facevano delicate e che per anni è stato ricordato per una notizia falsa: l’aver completato il Grande Slam. Nel 1933 Crawford vinse infatti in Australia, in Francia e in Inghilterra, ma durante la finale dello Us Open, mentre conduceva due set a uno contro Fred Perry, a causa di una crisi d’asma perse l’incontro per 3-6, 13-11, 6-4, 0-6, 1-6. Degno a rientrare nell’élite è Fred Perry. L’inglese ha vinto, almeno una volta tutti e quattro i tornei dello Slam ed è stato campione nel mondo pure in un altro sport, il tennistavolo. Amico del prima citato René Lacoste, anche Fred Perry ha creato una linea di abbigliamento che porta il suo nome. Simbolo del francese è un coccodrillo cucito sulla sinistra dei capi d’abbigliamento, quello dell’inglese è invece una corona d’alloro ricamata nel tessuto. Impossibile lasciare indietro l’americano Ellsworth Vines, grande picchiatore, anche se un po’ discontinuo. Nella sua biografia Jack Kramer scrisse che Donald Budge era il miglior tennista di sempre ma se, preso nella sua giornata migliore Vines era imbattibile. A proposito di Jack Kramer, a dispetto dei soli 3 slam vinti prima di passare professionista ed essere privato della possibilità di partecipare ai tornei tradizionali, è stato uno dei migliori tennisti di tutti i tempi. Con il  suo serve & volley sbaragliò la concorrenza durante a Wimbledon nel 1947 concedendo ai suoi avversari solo 37 games e grazie alla sua capacità di gestire le pubblic relation contribuì alla nascita di quella che sarebbe poi diventata l’ATP.

Il barone e il proletario, così venivano appellati Gottfried von Cramm e Donald Budge; entrambi però Signori si rivelarono in campo e nella vita

Ma torniamo alle signore. Per ristabilirsi da una noiosa un’infezione al ginocchio, il medico di famiglia consigliò a Doris Hart di praticare un po’ di tennis. Saggio consiglio visto che è riuscita a vincere almeno una volta tutti gli Slam in singolare e a formare, in coppia con la statunitense Shirley Fry, uno dei doppi più solidi di sempre. Shirley Fry che a sua volta ha vinto, seppure mai nello stesso anno, i quattro tornei dello slam sia in singolare che in doppio. Impensabile sarebbe non far accomodare sull’Arca, Althea Gibson, la prima tennista di colore salita in vetta al ranking e capace di aggiudicarsi due Wimbledon, 2 US Open e un Roland Garros. Reginetta assoluta è stata Maureen Connoly che nel 1951, a sedici anni, sconfisse la Fry e divenne la più giovane vincitrice dello US Open e solo due anni dopo, nel 1953, completò il Grande Slam. Maureen, che da bambina dovette ripiegare sul tennis perché la sua grande passione, l’equitazione, richiedeva delle spese che la madre non poteva permettersi; si vide costretta ad interrompere l’attività agonistica proprio a causa di una caduta da cavallo; e fu talmente sfortunata da morire a soli 34 anni per un tumore.

Altri superstiti? Di sicuro Tony Trabert che nel 1955 è riuscito a far suoi tutti gli slam tranne l’Australian Open, Lewis Hoad che non ha ripetuto l’impresa nel 1956, dove perse la finale allo US Open e John Cooper a cui è toccata la stessa sorte nel 1958, ma per lui stregato si rivelò Parigi. Altrettanto certo di un posto è Richard Pancho’ Gonzales. L’affascinante californiano, poi diventato marito di Rita Agassi, la sorella di Andre, fu un autodidatta dal talento innato, passato professionista a soli ventuno anni dopo appena sei tornei dello slam giocati. Il puma; così lo avevano soprannominato per via del suo micidiale servizio; una ‘mina’ scagliata da 1 metro e 88 centimetri di altezza, frutto di un movimento deciso e raffinato da sembrare la zampata di un felino. Il celebre commentatore televisivo Bud Collins ha sigillato la sua carriera in una frase: «se dovessi scegliere qualcuno che giochi per la mia vita, sceglierei Pancho Gonzalez». Impossibile negare un pass a Jaroslav Drobny, tennista e hockeista su ghiaccio cecoslovacco che ha viaggiato per una decina d’anni con il passaporto egiziano prima di acquisire la cittadinanza britannica; vincitore di 2 Roland Garros e un Wimbledon; ma anche di una medaglia d’argento alle Olimpiadi del 1948 con la squadra di hockey ceca. La Spagna di quell’epoca può vantare tre passeggeri di lusso: Manolo Santana il primo iberico a vincere Wimbledon, Andrés Gimeno, re di Parigi, nonché l’ex raccattapalle di Granada Manuel Oantes trionfatore allo US Open e a un Master. L’Italia invece sale a bordo insieme a Nicola Pietrangeli, vincitore di 2 Roland Garros consecutivi nonché capitano dello squadrone che nel 1976 ha conquistato la Coppa Davis schierando Corrado Barazzuti, Paolo Bertolucci ‘braccio d’oro’, Tonino Zugarelli e Adriano Panatta, Re pure lui di Parigi che vanta un best ranking al n.4. Non è solo per campanilismo che concediamo a tutti il biglietto, è per merito tennistico e caratteriale, come quando proprio in occasione della finale di Davis contro il Cile di Pinochet i politici italiani avevo sollevato l’ipotesi di boicottare l’incontro ma capitan Pietrangeli e i suoi cavalieri si batterono come leoni per andare a Santiago: «Lasciateci giocare a tennis, la politica la facciano i politici».

La leggendaria sfida avvenuta a Cannes in data 24 Febbraio 1926 tra Helen Wills e Suzanne Lenglen – Image by © Bettmann/CORBIS

Quanto alle signore, via libera alla passerella della nave con tanto di tappeto rosso per Maria Bueno, la brasiliana dallo stile inconfondibile che vinse a soli 19 anni il torneo di Wimbledon e lo US Open. Non è mai riuscita a prevalere né a Parigi né a Melbourne ma in compenso nel 1960 è stata la prima donna a vincere il Grande Slam nel doppio femminile. Un’epatite virale la costrinse al ritiro in un anno che si rivelò piuttosto paradossale, il 1969 perché Margareth Court Smith si vide soffiare da sotto al naso il Grande Slam. Già forte di 15 slam, l’australiana perse in semifinale a Wimbledon dalla futura campionessa, una certa Ann Jones che grazie a quel trionfo inaspettato è diventata la più anziana vincitrice di una prova dello Slam a 30 anni e 8 mesi. Si è comunque trattato di attendere un anno, è stato infatti nel 1970 che Margareth Court Smith ha trionfato in tutte e quattro le prove del Grande Slam; titoli che a fine carriera sono stati ben 24. La tennista più vincente della storia, il 13 marzo del 1973 perse però la sfida contro l’allora 53enne Bobby Riggs, che solo per aver ridimensionato la signora merita un posto nell’Arca ancor più che per i suoi 3 Slam. Successo che Bobby non riuscì a ripetere quattro mesi dopo nell’ancor più nota battaglia dei sessi contro Billie Jean King, capace di intascarsi 12 titoli slam tra cui 6 Wimbledon. Biglietto pure per Billie Jean e non in cuccetta con Margareth, promesso, dato che le due non è che si intendessero tanto. Come non garantire l’incolumità a John Newcombe, n.1 del mondo e vincitore di 7 Slam seppure, da canguro quale era, non è mai riuscito a destreggiarsi sulla terra rossa di Parigi; o al grande Arthur Ashe, che non solo merita di essere ricordato perché è tuttora l’unico uomo di colore ad aver vinto a Wimbledon, il Roland Garros e l’Australian Open, ma anche per il grande contributo per il volontariato. Doveroso salvare Jan Kodes, che si è aggiudicato 2 Open di Francia, un Wimbledon, ha persob 2 finali allo U.S Open e non è mai andato a cercar fortuna in Australia; e l’istrionico Ilie Nastase che, salito sul gradino più alto del ranking e vincitore di 4 Master un U.S Open e un Roland Garros, a Melbourne non è mai andato oltre al primo turno mentre a Wimbledon ha perso due finali, una delle quali contro Stan Smith, un altro quest’ultimo che merita il ‘nulla osta’ per l’ingresso nella nave.

Ma facciamo un passo indietro. Una cabina extra lusso se la sono meritata Ken Rosewall, Rod Laver e Roy Emerson. Difficile decidere anche solo da chi dei tre iniziare a decantarne le lodi. Roy Emerson, detto ‘Emmo’ ha fatto del serve-and-volley la sua arma migliore ma ha saputo adattarsi a tutte le superfici tanto che è l’unico tennista ad aver vinto tutti e quattro i tornei del Grande Slam sia nel singolare che nel doppio. Nell’Olimpo del tennis ci è invece entrato Rodney George Laver, all’epoca Rod Laver. Suo padre, un macellaio appassionato di tennis al punto da far costruire nel giardino di casa un campo rigorosamente dotato di illuminazione; non avrebbe mai immaginato che quel figlio rosso e mingherlino avrebbe potuto sfondare in un sport così duro ma quando un maestro aussie se lo trovò di fronte rimase scioccato; un talento simile non lo aveva mai visto. Impossibile dargli torto; sebbene fosse alto solo un metro e 72 centimetri, Rod era in grado di coprire magistralmente la rete e di sostenere senza affanno gli scambi da fondo. Atleticamente mobile e dotato di grande resistenza, tecnicamente perfetto, dal servizio mancino imprevedibile, fu il primo ad usare il polso. Un vero e proprio prodigio di perfezione tanto da renderlo l’unico giocatore nella storia del tennis, maschile e femminile, ad aver completato due Grande Slam in singolare, prima come dilettante, nel 1962, poi come professionista nel 1969. Ed eccoci a Kenneth Robert Rosewall il mancino naturale che sin dalla giovane età è stato impostato a giocare a tennis con la mano destra. Famoso per il rovescio da manuale, ha avuto una carriera eccezionalmente lunga confermandosi tra i top 10 dal 1952 al 1975. Ken ha vinto 4 Australian Open, 2 Roland Garros, 2 U.S Open mentre ha perso 4 finali di Wimbledon. Un posto nell’Arca se lo merita l’ennesimo australiano, Tony Roche. Vincitore di un solo Slam, a Parigi, finalista due volte allo US Open e una a Wimbledon; nel 1977 ha contribuito alla vittoria dell’Australia in Coppa Davis. Una serie di infortuni prima al ginocchio e poi al gomito posero fine alla sua carriera da giocatore per dare inizio a quella di allenatore. Ed è proprio nella veste di coach che Tony Roche ha dato il meglio forgiando campioni quali Ivan Lendl, Patrick Rafter, Roger Federer e Lleyton Hewitt.

Rod Laver, l’unico uomo capace di realizzare due volte il Grande Slam

La nostra missione di salvataggio prosegue consegnando un ticket di prima classe all’uomo che ha cambiato il tennis ma che, per poterlo fare, il primo a cambiare è stato lui: Bjorn Borg. Se da ragazzino era indisciplinato e spaccava le racchette; lo sciamanico diciottenne dai capelli lunghi, lisci e apparentemente incolti, che nel 1974 vinceva il Roland Garros contro Manuel Orantes, pareva già un uomo di poche parole e dal temperamento glaciale. Bjorn Borg ha vinto 6 Roland Garros e 5 Wimbledon; così come epica rimarrà la finale ai Championships del 1980, contro John McEnroe, risolta 8-6 alla frazione decisiva a favore dell’uomo di ghiaccio che quel giorno sentì di non essere più imbattibile. Ed infatti, quando l’anno dopo John McEnroe lo privò del sesto titolo sulla regale erba inglese per Borg rappresentò l’inizio della fine. L’ultima grande battaglia, Borg la disputò proprio nel 1981, alla quarta finale dello US Open, ma New York si riconfermò stregata. Dall’essere impossibile da addomesticare, l’orso svedese si ritrovò catturato e chiuso in gabbia dai mancini più irascibili della storia del tennis: John McEnroe e Jimmy Connors.

È risaputo che James Scott Connors detestava cordialmente un po’ tutti, eppure un posto in Arca è fuori discussione. Il fatto che sia cresciuto umanamente e tennisticamente sotto alla guida di due donne, la mamma e la nonna, non deve aver giovato al carattere del piccolo Jimmy. Oppure sì, perché Connors è stato il più grande combattente che sia mai entrato in un campo da tennis. «Un pugile mancato», come lo definì Rino Tommasi, con una risposta al servizio senza eguali, un fisico instancabile e un gioco d’anticipo destinato ad aprire nuove frontiere. Nel 1974 non vinse il Grande Slam per un pelo, anzi per una tessera, perché Jimbo faceva parte dell’Associazione Team Tennis, all’epoca in contrasto con l’ATP e quindi non poté giocarsi la chance di scrivere il suo nome sull’albo d’oro parigino. Nonostante 2 vittorie, Wimbledon è sempre stato un ambiente troppo controllato per uno come lui che invece riusciva a dare il meglio là dove l’atmosfera si fa bollente e, di conseguenza, trovò nel catino di Flushing Meadows cemento fertile. I 5 trionfi a New York, l’ultimo dei quali ottenuto con  un 6-0 al quarto set inflitto ad Ivan Lendl, possono rendere l’idea di che genere di leggenda vivente sia Connors. Se per Jimbo il tennis era fatto di battaglie, per John McEnroe, nato in una base militare statunitense nell’ex Germania Ovest il nobil gioco fu una guerra continua. Un genio ribelle, dotato di uno stile personalissimo e di un talento sovrumano che uniti alla sua indole polemica, hanno fatto di lui una specie di arma chimica pronta a sterminare avversari, arbitri, spettatori. Nel palmares di John McEnroe figurano 3 Wimbledon, due Master e 4 US Open. Questo però è solo il bagaglio a mano; in valigia l’americano custodisce una serie infinita di sceneggiate che hanno contribuito a farne un mito. Se la frase urlata all’arbitro, il malcapitato Fred Hoyles, durante l’edizione di Wimbledon 1981, «You cannot be serious!», è nota nell’ambiente sportivo quanto un aforisma di Oscar Wilde in un salotto di letterati; l’inopportuno sarcasmo con cui appellò Peter Bellanger, un distinto signore completamente calvo nonché giudice arbitro degli Australian Open, ossia «capellone»; finì con il guastare la pur sempre vacillante armonia che regnava tra McEnroe e lo slam aussie, tant’è che finì con l’essere cacciato dal campo mentre disputava gli ottavi ed era in vantaggio di due set a uno contro Michael Pernfors. In valigia c’è pure un giorno ben preciso: il 10 giugno del 1984. Quel giorno John McEnroe non potrà mai dimenticarlo e nemmeno noi, perché venne consacrato un nuovo campione: Ivan Lendl.

Ivan Lendl e John McEnroe si sono affrontati 36 volte: 21 volte si è imposto il ceco, 15 lo yankee

Nato ad Ostrava, Ivan Lendl fu iniziato al tennis da bambino e quando non giocava in campo era solito allenarsi contro un muro seppure, quando doveva ripiegare alla seconda opzione, non si divertiva perché «contro il muro nessuno può vincere». Per un ragazzo che non ha mai avuto sogni ma solo obiettivi vincere è stata una vera e propria ossessione, ragione in più che, fino al 10 giugno 1984 aveva perso quattro finali slam. Quel giorno però, in svantaggio di due set contro McEnroe, i numi del tennis si schierarono tutti dalla parte di quel cecoslovacco che non sorrideva mai. E sorse Ivan il terribile. Definito da Connors un ‘codardo’ per aver gestito con molta saggezza ma con poca eleganza un match durante il girone del Master 1980 in modo da evitare Borg in semifinale; deriso da McEnroe che riteneva di possedere più talento lui in un mignolo che Lendl in tutto il corpo; Ivan merita un posto d’onore nell’Arca non solo per i suoi 8 Slam, i 5 Master, i 96 titoli e 270 settimane da n.1 del mondo; ma anche per aver sopportato di tutto e di più, in primis il poco lungimirante pubblico degli Internazionali d’Italia che durante la finale del 1988 non solo gli preferì il modesto Perez Roldan, ma lo fischiò persino durante la premiazione. Il tennis per Ivan Lendl è stata una religione a cui si è dedicato fino a sfiorare il fanatismo e il ‘Nirvana’ per lui era rappresentato dai campi in erba di Wimbledon. Un’altra ossessione. In questo caso però gli Dei del tennis gli hanno negato il lieto fine.

I sacri campi dell’All England Lawn Tennis Club, sono invece diventati la dimora di un tedesco dal fisico statuario, rosso di capelli, la carnagione bianca e punteggiata di efelidi, capace di imporre la sua presenza facendo del suo impeto, del suo coraggio cieco, della sua impertinenza, della sua potenza, delle armi devastanti. L’impresa che Boris Becker ha compiuto il 7 luglio del 1985, basterebbe per garantirgli un posto in prima classe e salvarsi da qualsiasi nefasta profezia. Lui però era oltremodo ambizioso e, pur di arrampicarsi sul gradino più alto del ranking, ha vinto anche un U.S Open, 2 Australian Open e 3 Master. Curiosamente, le quattro finali Slam perse da Bum Bum si sono tutte disputate sul suo Centre Court e in ben due occasioni è stato Stefan Edberg a batterlo. Il gentleman svedese è stato un reuccio del serve & volley puro e, durante l’esecuzione dei colpi i suoi gesti erano di una raffinatezza tale da farlo apparire un tennista del passato teletrasportato in un presente composto da avversari fisicamente e tennisticamente più massicci e potenti. Ma l’apparenza inganna e Stefan Edberg dall’essere considerato un tacchino freddo ha finito con il trasformarsi in un aquila. Il rovescio da manuale, l’immediata uscita dal movimento di battuta con un balzo nel campo, la rapidità nello scendere a rete, l’eleganza delle volée, emanavano una magia tale da dare l’impressione che i suoi piedi non toccassero quasi il terreno. Edberg ha totalizzato sei slam, un Master, 42 titoli e, anche quando non è stato n.1 per il computer lo era per correttezza e signorilità. Se Stefan Edberg non è mai riuscito a conquistare il Roland Garros, il suo connazionale Mats Wilander è stato Re di Parigi per ben 3 edizioni: nel 1982, a soli diciassette anni, nel 1985 e nel 1988. Anno quest’ultimo in cui l’infaticabile svedese vinse tre prove dello slam grazie a una consistenza tattica fenomenale, basata su un gioco che all’apparenza non era potente ma che faceva delle angolazioni e dei cambi di ritmo un’arma letale. Durante quel magico 1988 non c’era parte del campo in cui Wilander non sapesse destreggiarsi, non c’era situazione che non fosse in grado di gestire, non c’è stato avversario che al suo cospetto non si sia sentito impotente. Un n.1 del mondo con 7 slam in bacheca, 4 finali perse, 33 titoli in totale, oltre a 3 Coppa Davis. Con Mats al timone l’Arca è inaffondabile.

Pete Sampras e Andre Agassi si sono dati battaglia 34 volte: Pistol Pete conduce per 20 vittorie a 14

Gli anni ’90 hanno avuto il loro padrone in Pete Sampras. Dal suo primo trionfo allo US Open registrato nel 1990 fino all’ultimo slam, conquistato sempre a New York e sempre contro lo stesso avversario, Andre Agassi; l’americano di origini greche ha totalizzato quattordici Slam, cinque Master, 64 titoli e 286 settimane da n.1 del mondo. Se il suo immane valore tennistico fosse stato affiancato anche dal carisma, probabilmente avremmo dovuto consentirgli di occupare un intero piano dell’Arca. Fortunatamente per gli altri ospiti della nave, Pistol Pete ha concentrato tutte le sue doti nel tennis giocato mentre le abilità istrioniche le ha lasciate ad Andre Agassi. Ed eccoci al Kid di Las Vegas, cresciuto in una villetta nel deserto del Nevada, scelta dal padre perché possedeva un giardino sufficientemente grande per potervi costruire un campo da tennis. Un uomo, papà Mike, che crede ciecamente nella sua macchina lanciapalle e nella matematica: se ogni giorno il piccolo Andre colpisce 2.500 palline, in anno ne colpirà quasi un milione e diventerà il migliore. Cresciuto ad hamburger, birra e tennis, Agassi prima di diventare un campione è stato un fenomeno di costume: abiti colorati, capelli lunghi, orecchini. Le vittorie sono arrivate più tardi: 4 Australian Open, 2 US Open, una vittoria a Wimbledon, a Parigi, al Master per un totale di 60 titoli e un oro Olimpico. L’ennesimo americano a cui concediamo l’ingresso in Arca è Jim Courier. Ingiustamente considerato un semplice picchiatore, Big Jim è stato un realtà un giocatore versatile; lo confermano le due vittorie ottenute sia all’Australian Open che al Roland Garros così come le finali raggiunte a Wimbledon e allo U.S Open.

Autorizziamo il passaggio ponte anche al primo russo che ha raggiunto il primo posto della classifica mondiale: Yevgeny Kafelnikov, detto ‘Kalashnikov’ per i suoi fondamentali potenti e precisi e all’impenetrabile freddezza. Due titoli dello slam una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sydney, Yevgeny ha trascinato la Russia nella conquista della sua prima Coppa Davis; ‘chapeau’. Vietare un biglietto a Michael Stich sarebbe un sacrilegio. Non è riuscito a spingersi oltre al n.2 del mondo, così come si è fermato in finale sia allo US Open che al Roland Garros mentre a Melbourne non è mai riuscito a spingersi oltre alle semifinali; ma il 7 luglio del 1991 sovvertì tutti i pronostici battendo Becker nella finale di Wimbledon. E soprattutto al cronista che, alla vigilia della finale, gli disse che il giorno dopo non avrebbe avuto nulla da perdere, Stich rispose: «Nulla da perdere? La finale di Wimbledon ti pare forse nulla?». 

Terzo di nove fratelli, cresciuto in un paese del Queensland, Mount Isa, una delle miniere più produttive del mondo; Patrick Rafter ha condotto l’Australia sul tetto del mondo venticinque anni dopo John Newcombe. Spettacolare oltre misura, Rafter ha vinto 2 US Open, e con un pizzico di fortuna in più avrebbe vinto almeno una della due finali sfumate sull’erba di Wimbledon. Averlo sull’Arca è un onore. Un posto lo concediamo pure a Thomas Muster non solo per lo slam vinto a Parigi nel 1995, non solo per i 44 titoli ATP e nemmeno per essere stato n.1 del mondo. L’austriaco ha dimostrato che con la tenacia è possibile diventare i migliori in quello che si è deciso di fare. Prima di diventare un campione un auto lo investì durante la retromarcia e gli frantumò il ginocchio sinistro. Nonostante i medici dicessero che non avrebbe più potuto giocare a tennis a livelli agonistici, Thomas incaricò un falegname di costruirgli una sedia che gli permettesse di giocare a tennis senza che la gamba toccasse terra, in modo da allenare il busto durante la riabilitazione. Lui tornò più forte di prima e con lui a bordo l’Arca può contare su un combattente capace di fronteggiare qualsiasi scoglio.

Martina Navratilova e Chris Evert hanno dato vita a 59 sfide: 37 volte ha vinto Martina, 22 Chris – Photo by THIERRY ORBAN/Sygma via Getty Images)

Occupiamoci ora delle signore. Vincitrice di 59 prove del Grande Slam, di cui 18 in singolare, 31 in doppio e 10 in doppio misto: stiamo ovviamente parlando di Martina Navratilova. Cecoslovacca di nascita, statunitense di adozione, negli anni ha trasformato il proprio fisico in una scultura di muscoli, ha reso ancora più incisivo il suo serve & volley mancino con dei solidi fondamentali ed è riuscita a inibire le fragilità caratteriale che agli inizi della carriera le impedirono di trionfare in uno Slam prima di compiere 22 anni. Storica la rivalità che ha unito Martina Navratilova a Chris Evert; un dualismo reso perfetto proprio dalle diversità che le delineavano. Aggressiva e istintiva Martina, regolarista e machiavellica Chris. Dopo vent’anni di sfide non sarà una sorpresa per nessuna delle due di ritrovarsi insieme nell’Arca. I numeri della glaciale Chris? 18 titoli del Grande Slam, nonché oltre il 90% delle gare disputate, 1304 su 1448 secondo le statistiche ufficiali della WTA. Altro record mai eguagliato è la sequenza di 125 vittorie consecutive sulla stessa superficie, la terra rossa, dove rimase imbattuta per sei anni, dal 1973 al 1979. La Evert ha affermato che è stata la forza mentale a portarla così in alto. Lungi da noi mettere in dubbio le parole di una Signora, ma siamo attraversati dal sospetto che non possa essere stata soltanto la mente ad averle permesso di vincere almeno una prova del Grande Slam per tredici anni consecutivi, dal 1974 al 1986; così come siamo persuasi che non è stato solamente il diritto a spianare la strada per realizzare il Grande Slam a Fräulein Forehand, per l’appunto Miss Diritto, alias Steffi Graf. Figlia di un venditore di assicurazioni con il pallino del tennis, papà Peter piazzò Stephanie su un campo in terra rossa quando aveva appena tre anni. Entro certi limiti quindi, non scelse lei di diventare una tennista così come fu un’iniziativa presa da madre natura quella di dotarla di un fisico eccezionale. Merito di Steffi è essere stata disposta a sgobbare sin da bambina in modo da diventare un’atleta completa: potente, veloce, instancabile. Il Grande Slam del 1988 non è stato un traguardo meno prestigioso dei 22 Slam complessivi o del fatto che sia stata la n°1 del mondo per anni interminabili, annoiati dal suo dominio. Quando nel 1989 la diciassettenne Arantxa Sanchez fece piangere la tedesca sorprendendola nella finale del Roland Garros, era forse ignara che quel trionfo arricchito da altri due sul suolo parigino ed uno a New York, le avrebbero garantito un biglietto per l’Arca; così come Steffi Graf non avrebbe mai immaginato che Monica Seles sarebbe diventata l’incubo della sua vita.

Monica Seles ha ridotto le sue avversarie all’impotenza. Il tennis stesso deve essersi sentito inerme al cospetto di quel pressing incessante, asfissiante, di quel fisico indistruttibile, di quella ferocia agonistica ineguagliabile. Monica Seles ha conquistato 9 tornei nel 1990, 10 nel 1991; ancora 10 nel 1992 dove, nuovamente dominò 3 prove del Grande Slam e si laureò Maestra. Tra il gennaio 1991 ed il febbraio 1993 la Seles può vantare uno score vittorie-sconfitte di 159–12 (92,9% di vittorie). Nel Grande Slam lo score è ancora più impressionante: 55–1. Finché, alle 18.50 del 30 aprile del 1993, Gunther Parche non ha semplicemente ucciso l’innocenza che ancora regnava nel nostro nobil gioco, è riuscito in quello che non è stata in grado di fare la Graf; ha impedito a Monica Seles di dimostrare che era lei la tennista più vincente, più ambiziosa, più determinata, più tutto, della storia di questo sport. Cabina extralusso per Monica. 

Monica Seles pareva essere destinata a diventare la tennista più vincente di tutti i tempi, se solo non fosse mai nato un uomo di nome Gunther Parche…

Veniamo a Martina Hingis. Un talento precoce, non quantificabile, affiancato da una mente straordinaria. Le geometrie generate da Martina sono state la degna evoluzione del gioco della Evert. Martina però vi ha aggiunto un impatto da far venire i brividi tanto era ‘pieno’, tanto era compiuto. Tra il 1997 ed il 1999 ha conquistato 5 prove del Grande Slam, 2 Master, 43 tornei ed il Grande Slam in doppio. Al palmares si aggiungono sette finali slam perse; due di esse particolarmente dolorose e sempre al Roland Garros; la prima contro la modesta Iva Majoli, la seconda contro l’ormai veterana Steffi Graf che si disciolse nel suo canto del cigno. Declino che invece ha colpito anzitempo Martina. I nervi della ventenne svizzera non hanno retto ad alcune sconfitte e ancora meno sono riusciti a distendersi dopo il ritiro, seguito da lì a poco da un ritorno fatto di delusioni troppo amare per una come lei. L’ennesimo ritorno in scena, seppure solo in doppio, ha gridato vendetta fino al 64esimo titolo assoluto nella pecialità.

Invitiamo a salire a bordo pure tre americane: Tracy Austin,  vincitrice di due U.S Open nel 1979 e nel 1981; Jennifer Capriati che ha trionfato in 3 Slam e ha vinto un oro alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 precedendo la connazionale Lidsay Davenport, che ha vinto la medaglia più prestigiosa alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 oltre che altri tre Slam. Ci siamo accorti che all’appello manca pure una tennista che, nel 1971 a soli diciannove anni vinse sia Wimbledon che il Roland Garros: Evoone Goolagong. Nata da una famiglia di origine aborigena, Evoone riconquistò lo slam inglese pure nel 1980; si dimostrò una solenne padrona di casa a Melbourne dove si aggiudicò quattro titoli; ma nonostante quattro finali a New York non riuscì mai ad alzare il trofeo al cielo. L’Arca non può privarsi di Hana Mandlikova. Veder giocare a tennis quell’esule cecoslovacca, sottile come un fuscello, che ha vinto tutto tranne Wimbledon, era uno sogno ad occhi aperti. La bellezza del gesto, la sensazione di onnipotenza che trasmetteva nelle sue giornate migliori, quando la schiena non la tradiva, fanno di Hana Mandlikova un artista semplicemente ineguagliabile. Quando il 7 settembre del 1985 Hana batté 7-6 al terzo Martina Navratilova nella finale dello US Open, Gianni Clerici e Rino Tommasi la definirono: «L’essere umano con più talento che abbia mai giocato a tennis» . I due sublimi dicitori non potevano sapere che in Svizzera stava crescendo un bambino di quattro anni di nome Roger e in Belgio una bambina di tre di nome Justine che da lì a una quindicina d’anni avrebbero messo in discussione la loro affermazione.

Alle soglie del 2000 gli alieni non hanno ancora invaso il pianeta terra ma un ragazzo svizzero che quando gioca a tennis potrebbe essere confuso per un extraterrestre si appresta a  conquistare il mondo del tennis. Stiamo ovviamente parlando di Roger Federer. È durante i quarti di finali del torneo di Wimbledon del 2001, quando Federer sconfigge Pete Sampras con il punteggio di 7-6 5-7 6-4 6-7 7-5, che tra l’elvetico e lo yankee avviene un simbolico passaggio di testimone. 310 settimane da n.1 del mondo, 98 titoli ATP di cui 6 Master, 20 titoli del Grande Slam composti da 8 Wimbledon, 6 Australian Open, 5 US Open e un Roland Garros; ma anche la moglie Mirka, quattro gemelli, una madre di origine sudafricana che quando era un ragazzino lo comandava a bacchetta, l’impegno umanitario con la sua Fondazione. Non esiste una platea che non parteggi per lui: Roger Federer, uno degli uomini più conosciuti, ammirati, osannati del mondo. In fondo, come ha sentenziato il suo collega e fan John Isner: «Se il tennis fosse una religione, Roger Federer sarebbe il suo Dio». Un mito vivente, per giunta ancora in attività. Considerando che il mondo per ora non è finito, quante altre sorprese potrà riservarci? Biglietto di prima classe anche per Rafa Nadal. Lo spagnolo più forte di tutti i tempi ha fatto suoi 17 tornei del Grande Slam ed ha trascinato la Spagna alla conquista di 4 Coppa Davis. Un destro trasformato in mancino che si è rifiutato di credere che per diventare un campione fosse necessario andare negli Stati Uniti. Da quando aveva otto anni e vinse il campionato delle Baleari, Rafa è un combattente che non ci sta a perdere. Quest’anno ha conquistato il suo undicesimo Roland Garros. Anche lui vale lo stesso discorso di Federer; Rafa ha tutto il tempo per stupirci ancora. Novak Djokovic completa il triunvirato tennistico degli anni 2000. Il ragazzo serbo scampato alla guerra dei Balcani; Arca o non Arca, scamperebbe certamente a qualsiasi Profezia. Un n.1 del mondo completo: dotato di un timing mostruoso, di una mobilità eccezionale, di una mente stratosferica; Nole non ha nove vite come i gatti, ne ha di più. Per ora i titoli ATP sono 68, di cui 13 slam e una fortemente voluta Coppa Davis. L’era dei “fab four” battezza come quarto incomodo Andy Murray. Figlio di Will Murray e Judy Erskine, insegnante di tennis; nel 1996 Andy e il fratello maggiore Jamie scamparono al massacro della scuola elementare di Dunblane quando un folle entrò armato nella struttura e uccise 16 bambini e un insegnante. Dopo essere stato per anni l’eterno secondo, c’è voluto lo spauracchio della fine del mondo perché, dopo una finale persa a Wimbledon, nel 2012 vincesse la medaglia d’oro alle Olimpiadi e il suo primo slam allo US Open. La stagione successiva Andy avrebbe addirittura messo le mani sul trofeo di Wimbledon, primo britannico dopo 77 anni di digiuno. Miracoli irripetibili? Niente affatto, sia Wimbledon che l’oro Olimpico sarebbero tornati il primo tra le mani e il secondo appeso al collo di Andy nel 2016; mentre dell’anno prima risale l’apoteosi in Coppa Davis, con lo scozzese che conclude la sua campagna forte di 11 vittorie su 11 incontri disputati tra singolari e doppi. A completare questo formidabile ciclo è Stan Wawrinka, incontenibile nelle migliori giornate tanto da battere Nadal in Australia e Djokovic prima a Parigi poi a New York; più che Stan The Man lo svizzero sembra più essere un supereroe incapace di gestire al meglio i suoi superpoteri. 

Due immensi campioni che hanno segnato un’epoca: Roger Federer e Rafael Nadal

Prima del dominio elvetico-serbo-spagnolo ci sono stati tre tennisti capaci di sedersi sulla poltrona di n.1 a cui permettiamo di salire sull’Arca. Sembra essere trascorso un secolo, ma il 20 novembre del 2000 il computer ha registrato al primo posto del ranking un russo: Marat Safin. Il romanzo di Safin vede il suo primo capitolo ambientato allo Spartak Tennis Club di Mosca, prosegue a Valencia, dove cresce tennisticamente; e conosce le sue pagine più avvincenti nel momento in cui parte alla conquista del Nuovo Mondo fino a vincere l’US Open nel 2000. In quell’occasione furono in molti a intravedere in lui, il futuro dominatore del circuito, ma l’auspicio fu sbagliato quanto le Profezie sulla fine del mondo. Al temperamento impulsivo di Safin si sono aggiunte la passione per le belle donne e un grave infortunio al ginocchio che, sommati insieme, ne hanno compromesso la continuità di rendimento. Per afferrare il suo secondo e ultimo slam; Safin deve attendere fino al 2005 quando allo Australian Open dopo aver sconfitto Roger Federer in semifinale, supera l’idolo di casa, Lleyton Hewitt. A proposito; l’australiano è un altro campione che invitiamo a bordo. Diventato uno dei più giovani vincitori di un torneo ATP quando nel 1998 si impose ad Adelaide; Lleyton ha scritto il suo nome nell’albo d’oro di 2 slam, lo US Open e Wimbledon e si è laureato due volte Maestro. Un grande combattente dotato di una risposta strepitosa e di una mobilità felina. L’altro n.1 degli anni 2000 a cui concediamo un biglietto è Andrew Stephen “AndyRoddick. Uno dei più grandi battitori di sempre, vincitore dello US Open nel 2003; ma anche uno dei tennisti più simpatici, ironici e spassosi della storia di questo sport.

Tra le signore facciamo accomodare per prime Venus e Serena Williams. Qualche effetto malsano questa ipotetica fine del mondo deve comunque averlo prodotto perché estendiamo l’invito pure a mamma Orancene e a papà Richard seppure, su consiglio di Gianni Clerici (che durante una telecronaca affermò che il signor Williams è un uomo delizioso a patto che sia tenuto a debita distanza dalla moglie) cabine separate per i genitori. Venus Williams è una ex n.1 del mondo capace di vincere 5 volte Wimbledon, due US Open, 2 Master, 49 titoli assoluti, 4 ori Olimpici; e di raggiungere la finale sia al Roland Garros che all’Australian Open dove, entrambe le volte, a sconfiggerla è stata sua sorella Serena. Entrata nel circuito professionistico nel 1997, Serena Williams ha scalato subito la classifica battendo al torneo di Chicago prima Mary Pearce poi Monica Seles. Risale addirittura al millennio precedente la sua prima vittoria in uno slam: allo US Open 1999; quando rischiò di uscire di scena al terzo turno quando una ragazzina di sedici anni, tale Kim Clijsters, andò a servire per il match. Da allora Serena Williams ha macinato una serie impressionante di trionfi: 23 prove slam, 72 titoli, 5 Master e 4 ori Olimpici. Invitiamo quindi a bordo Justine Henin la belga che sembra uscita da un film scritto a quattro mani da Pedro Almodovar e Ingmar Bergman: orfana di madre, un carattere introverso, scostante, cupo ma, allo stesso tempo, una tennista capace di giocare un tennis sublime, incantevole, imponderabile. È stata n.1 del mondo, ha vinto 7 prove dello Slam, tra le quali spiccano 4 trionfi al Roland Garros, due Master e un oro alle Olimpiadi e, dietro alla gravità che ha sempre emanato, pare esserci stata una promessa fatta alla madre che ha finito con l’ossessionarla. Non è bastato il suo ritiro, c’è voluto pure quello della grande amica e rivale Kim Clijsters per farle ammettere che: «più delle vittorie, più delle finali dello Slam, ricordo la magia dei viaggi, del tempo che abbiamo trascorso insieme» . Cabina doppia, posizionata sul lato opposto della nave rispetto a quella di Serena Williams, per Justine. Vi state chiedendo con chi la divide? Con Kim Clijsters, naturalmente. Figlia di un calciatore e di una ginnasta; Kim ha ereditato la forza muscolare del padre, l’agilità della madre, dagli dei del tennis ha avuto in dono il talento, mentre tutto il resto, quel qualcosa in più che occorre per riuscire a creare la pozione magica è farina del suo sacco, dei suoi sacrifici. Una tennista completa, che ha fatto dell’atletismo un tutt’uno con la pesantezza di palla, un gioco teso a mettere costantemente sotto pressione l’avversaria, uno stile aggressivo ma non monotono con tanti assi nella manica capaci di soccorrerla nel momento del bisogno; da un recupero di polso, a una volée di tocco. Una n.1  del mondo sia in singolare che in doppio capace di vincere 3 U.S Open, 3 Master, un Australian Open e 41 titoli.

Le sorelle più vincenti della storia del tennis: Venus e Serena Williams

Che nessuno si indigni se doniamo due biglietti ad altrettante azzurre. Cominciamo da Francesca Schiavone. La milanese ha il suo best ranking in uno strabiliante quarto posto della classifica mondiale, ha vinto il Roland Garros ed è riuscita a raggiungere almeno i quarti in tutti gli altri Slam. Facciamo accomodare pure Flavia Pennetta; ex n1. del mondo in doppio, top ten, regina di Indian Wells 2014 e soprattutto dell’US Open nel 2015. Via libera anche a Li Na, la leggenda della Cina spiccata al Roland Garros 2011 e all’Australian Open 2014, ad Ana Ivanovic, reginetta di Parigi nel 2008; ad Amelie Mauresmo, autrice di una stagione 2006 ricca di 2 slam e il primo gradino del podio WTA; ad Angelique Kerber, onesta e valorosa operaia della racchetta che contro ogni pronostico ha fatto sue 3 prove del Grande Slam per quindi arrivare a guardare tutte dall’alto del ranking; nonché a Caroline Wozniacki che otto anni dopo essere diventata la prima della classe ha vinto un tanto agognato slam in quel di Melbourne.

Un rullo di tamburo precede l’ingresso di Maria Sharapova. L’epopea della russa parte da lontano, addirittura da prima della sua stessa nascita, quando a causa del disastro di Cernobyl i suoi genitori decisero di emigrare in Siberia. Una cittadina del mondo, la piccola Maria, che ad appena sette anni si ritrova nell’Accademia di Nick Bollettieri. Della sua seconda patria, gli Stati Uniti Maria assorbe lo spirito, concretizza il sogno americano attraverso il duro lavoro, il coraggio e la determinazione. Maria Sharapova è la prima russa a trionfare a Wimbledon, ha vinto almeno una volta tutte e quattro le prove del Grande Slam ed è riuscita ad issarsi fino al primo posto del ranking in quattro diverse occasioni nell’arco di sette anni. Restando sul suolo della Madre Russia salvaguardiamo pure l’incolumità di Anastasia Myskina, la prima russa capace di incidere il proprio nome in una prova del Grande Slam, Elena Dementieva, che n.1 del mondo non è mai stata e di slam non ne ha mai vinti, ma si è appesa al collo un oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 ed è stata probabilmente la giocatrice più educata che abbia mai calcato un campo da tennis, e Svetlana Kuznetsova, 2 titoli slam che avrebbero potuto essere chissà quanti, determinante tanto nelle sue vittorie quanto nelle sue sconfitte.

E a questo punto, nel caso di bisogno, possiamo veramente salpare l’ancora.

La prima finale tutta russa della storia dell’US Open: è l’11 settembre del 2004 e la diciannovenne Svetlana Kuznetsova sconfigge Elena Dementieva