I cent’anni di solitudine di Wayne Odesnik

Sul tramonto della stagione 2009 Wayne Odesnik è il n.105 del ranking quando nel suo bagagliaio gli vengono rinvenute otto fiale di somatotropina, nota in ambito medico anche come ormone della crescita. Il giocatore statunitense si dichiara colpevole e a fine marzo 2010 la WADA lo condanna a pagare una multa di 7.280$ più altri 1.040$ di spese processuali. Al che, decide di auto-sospendersi dall’attività agonistica e il 19 maggio seguente viene squalificato dall’ITF per due anni a partire dal 29 dicembre 2009, data del ritrovamento delle fiale. In più, gli vengono sottratti i punti ATP conquistati e gli viene imposto di restituire i premi in denaro vinti nel 2010, pari a 90.188$, frutto dei quarti di finale raggiunti a Brisbane, il secondo turno all’Australian Open e a Delray Beach, una serie di primi turni ed una semifinale persa ad Houston contro il connazionale Sam Querrey con il punteggio di 7-6 1-6 7-5. Il 15 novembre 2010 Odesnik scompare dalle classifiche.

Ridottagli ad un anno la sospensione in cambio di “assistenza sostanziale al programma antidoping”, la quale consistenza nell’aver dato informazioni sul poi radiato Daniel Kollerer il 13 gennaio 2011 torna a giocare nel future di Plantation. Nell’arco della stagione vince quattro titoli nel circuito minore, i quali si sommano ai nove conquistati in precedenza ed a cui se ne aggiungeranno altri due tra il 2012 ed il 2014 per un totale di sette Futures e otto Challenger. Anni spesi ad arrancare nel pantano delle bidonville del tennis che conta, giungla impietosa in cui Wayne Odesnik si ritrova attorcigliato, incapace di uscirne perché la classifica non decolla anzi, dopo aver intravisto la top 100 nel giugno 2013 nuovamente precipita giù, sempre più giù, fino a toccare il 267esimo gradino nel marzo 2015. E dire che Wayne si sentiva destinato a ben altri traguardi. Lui, che dopo tanta gavetta, a ventidue anni si era meritato una wild card al Roland Garros e l’aveva pure onorata piuttosto bene, battendo lo svedese Jonas Bjorkman e il cinese di Taipei Lee, prima di arrendersi a Novak Djokovic. E che dire della finale raggiunti ad Houston nell’aprile 2009 dopo aver sconfitto Kevin Anderson, Jurgen Melzer, John Isner e Bjorn Phau, prima di arrendersi all’ultimo atto a Lleyton Hewitt. Un risultato che gli aveva garantito il suo best ranking, come n.77 del mondo. E invece, quello che già aveva compromesso quella prima squalifica, lo ha definitivamente deteriorato un controllo antidoping effettuato il 14 dicembre 2014 dall’USADA, ossia l’agenzia antidoping americana. Identici gli esiti di due controlli effettuati dall’ITF il 17 dicembre 2014 ed il 12 gennaio 2015 e fatti analizzare dalla WADA presso il Salt Lake City di Montreal. Le sostanze proibite rilevate sono il methenolone, ossia una anabolizzante, dei metaboliti i quali sono presenti nella lista di “sostanze ormonali e modulatori metabolici2 e il GHRP-6, ossia “ormoni peptidici, tesi a favorire fattori di crescita”. La sentenza emessa tuona: quindici anni di squalifica. Finita così. Seppure il penultimo atto della fine è stato forse persino più umiliante: un super tie-break di un match di doppio al challenger di Maui, disputato in coppia con Michael Shabaz e vergognosamente non giocato, consegnando la vittoria a Dimitar Kutrovsky e Dennis Novikov, tra l’altro spingendo l’arbitro a non stringergli la mano.

Bye bye Wayne”; lo ha canzonato Andy Murray su twitter. Non fu più gentile Sam Querrey cinque anni or sono a Houston quando su una palla contestata gli fece capire che il suo parere non era gradito. Isolato da tutti. Una vecchia storia perché Wayne non è forse mai appartenuto a nessun luogo. Nato a Johannesburg il 21 novembre del 1985 è cresciuto nel mito della nonna Sylvya una celebre pattinatrice su ghiaccio. Anche la madre Janice aveva a che fare con lo sport, era infatti una ginnasta di buon livello. In un’intervista rilasciata poco più che ventenne Wayne aveva spiegato di essere rimasto affascinato dalla poesia che emanavano le discipline in cui erano diventate brave le donne di famiglia. Il padre Harold invece era un gioielliere che aveva fatto la sua fortuna grazie al commercio di diamanti ed è proprio per via del suo lavoro che, ad appena sette anni, Wayne era stato costretto lasciare il Sud Africa per migrare in Florida. Una passione l’ha invece sempre accompagnato: la lettura e la scrittura. Chissà se il primo tarlo non risieda proprio lì, in quello strappo culturale, in quella atavica contraddizione tra poesia e denaro. Non ha fatto in tempo Wayne ad imparare il significato della filosofia ubuntu, linfa della sua terra natale la quale ha rappresentato un piccolo tassello affinché neri e bianchi si avvicinassero grazie alla presa di coscienza reciproca di diritti e doveri. Non ha fatto in tempo a portare in campo quella poesia che da bambino tanto l’aveva ispirato. O forse, chissà, quando si è reso conto che mai sarebbe riuscito a farlo in quanto non baciato dagli dei del tennis ha cercato un’altra via. Una strada sterrata, tortuosa, mesta, oscura. Fino a perdersi. Fino a leggere la sua stessa storia e sentenza all’interno di una metaforica trasposizione del capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, coscio ormai di essere condannato a cent’anni di solitudine.