Nick Kyrgios e il tennis ai tempi dei social network

Montreal, 13 agosto 2015. «Mi spiace dirti che Kokkinakis si è s*****o la tua fidanzata». Mai frase tanto stupida ha generato un simile putiferio. E dire che basta guardarlo, non solo nei filmati registrati mentre biascica quella battuta da pellicola di infima fascia in un misto di divertito compiacimento seguito da un’occhiata che sembra dire: «embè? Avete sentito oppure no, cosa ho detto?»; no basta guardarlo quando è “normale” ossia con la sua crestina tricolore, l’andatura esageratamente dinoccolata che lo rende teneramente goffo, l’atteggiamento da “bad boy” che eppure lo si direbbe maggiormente a proprio agio al Boom Boom Room che non a mangiare hamburger per le strade del Bronx. Tra l’altro,  il ventenne di Canberra di “allarme rosso” ne aveva lanciati parecchi: battibecchi con arbitri, raccattapalle appellati in malo modo,  dichiarazioni un po’ sopra le righe, tipo le sue convinzioni sul “sesso pre-match”, burlonate lanciate qua e la, come quando si è arrampicato su un muretto dell’All England Club per guardare un match di doppio di Hewitt e (l’immancabile) Kokkinakis, o ancora peggio quel «non voglio essere qui», gettato in pasto ai media durante il recente match di Coppa Davis contro Nedovyesov. Certo, a Montreal l’aussie ha esagerato perché nel suo teatrino ha assegnato le parti di attori protagonisti a due assenti, tirando di rimando in ballo il proprio avversario, quel Stan Wawrinka che si dice piuttosto preso dalla ninfa croata, la quale prima dei due litiganti aveva conquistato pure Borna Coric. Vergognoso. Inaccettabile. Sì, nessuno lo nega. Soprattutto però, stupido,  molto stupido, oltre che figlio di questi tempi.

Quando nel 1998 l’organo sessuale del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton invase la vita di ogni individuo dell’universo mondo a causa di una stagista indisciplinata e come d’incanto la parola “p*****o” divenne di uso comune, Nick Kyrgios aveva tre anni. L’era digitale era nel pieno della sua esplosione e, tempo poche primavere, i social network avrebbero preso piede sempre più, fino a catalizzare la vita di tanti, se non di tutti che, conquistati dalla tecnologia ed ispirati da un film diretto da Peter Weir guarda caso nel 1998, avrebbero deciso di fare della propria esistenza, tramite una bacheca, un The Truman Show intasandola di frammenti di vita, dalle fotografie del cibo in procinto di essere mangiato al pargoletto appena nato, avvalorandola di citazioni di Gandhi o Jim Morrison e non di rado scambiandole, stringendosi in un cordone di demagogia al cospetto del “defunto di turno”, facendo gli strilloni per qualche partito, oppure, molto spesso, offendendo indiscriminatamente tutto ciò che non rientra nelle proprie preferenze o credenze, oppure ciò che ci disturba, ciò ci urta, ciò che va contro ai nostri piani. E si fa a gara a chi la spara più grossa.

Nel momento in cui Nick Kyrgios ha pronunciato la “frase dello scandalo” non ha contato fino a dieci. Non lo fa mai. Così come, restando in ambito tennis, non lo fanno gli utenti che si cimentano in qualche “burlonata” sui social network, da quelli che accusano questo o quel tennista di doping, da quelli che sbeffeggiano questa o quella tennista definendola «un uomo», per arrivare ad alcune pagine “satiriche” che altro non sono che volgari surrogati di Porkys. Qualcuno potrebbe protestare avvalendosi dell’indubbia differenza dallo sparare un’idiozia sul centrale di Montreal con telecamere e microfoni a bordo campo, al cimentarsi in discorsi da bar su facebbok. Sì, c’é eccome, e lungi da me dall’intraprendere una campagna in difesa di Kyrgios che è dal mio punto di vista indifendibile, non tanto per Nick in se’, quanto perché, è figlio di questi indifendibili tempi. Tra le tante dichiarazioni futili o di circostanza si differenzia l’intervento di Marc Rosset il quale sostiene come il trash-talking sia un fenomeno piuttosto comune nel basket; così come spesso nel calcio i difensori utilizzino “mezzi sporchi” per innervosire gli attaccanti. Ed il punto è proprio questo: il tennis si sta avvicinando a quegli sport dove simili folclori sono una componente se non parte integrante dello spettacolo. Quando il popolo che prende vita dietro una tastiera è pronto a riversare parole di odio contro un giocatore che per lui non rappresenta altro che un avversario del proprio beniamino, perché un ventenne cresciuto nell’era digitale, per cui quell’avversario è un ostacolo reale contro ranking, montepremi, gloria e onori, non dovrebbe ricorrere a qualsiasi mezzo, per disturbarlo, per mandarlo fuori di senno, per batterlo? Basta forse il concetto di sportività a dissuaderlo dall’assumere comportamenti impropri? In una disciplina in cui le richieste di Medical Time Out sono all’ordine del giorno e il più delle volte sono prettamente tattici e non conseguenza di un reale infortunio dove inizia e dove finiscono i valori sportivi? È così abissale come si vuol credere da alcuni giorni la differenza di condotta tra Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis? O Andrey Rublev? O Borna Coric? O piuttosto Nick Kyrgios altro non è che l’apice di una cricca di nuove leve che non sanno comportarsi in campo perché il loro prima ancora che l’essere un problema caratteriale è una mancanza di educazione?

Per decenni John McEnroe e Jimmy Connors hanno tirato fuori il peggio del loro carattere e sono stati puniti a suon di multe, warning, penalty point, penalty game, in un caso pure l’espulsione dal campo. A Dallas nel 1989 Ivan Lendl si beccò un penalty game per aver appellato una giudice di linea come «stupid lady». Nel 1996 ad Indianapolis Andre Agassi venne cacciato dal campo per aver imprecato contro l’arbitro, tale Dana Laconte. Pare che Boris Becker fosse solito ammiccare a Brooke Shields per surriscaldare l’animo di Agassi. Il ben più modesto Jeff Tarango accusò l’arbitro di essere un venduto. Goran Ivanisevic era un’altro con la lingua lunga e tagliente. Cosa è cambiato da allora? Apparentemente poco, si è portati a dire. Ed invece non è così. La differenza è abissale perché a quei tempi la maleducazione era la conseguenza di un fatto, della tensione, di una trance agonistica. Di questi tempi la mancanza di educazione è in alcuni soggetti una costante che li accompagna nei frangenti in cui fila tutto liscio manifestandosi tramite atteggiamenti boriosi, e che è pronta toccare punte di cattivo gusto e volgarità inesprimibili quando si imbattono in momenti di difficoltà. A fare le spese di questa attitudine deplorevole non è solo l’arbitro, come un tempo, spesso ne pagano le conseguenze i raccattapalle, il pubblico, gli avversari. Se un tempo multe, warning o penalizzazioni varie erano vissute come un’ingiustizia dai giocatori stessi, ora sembrano assumere un valore mediatico in quanto l’eco che esse generano è teso solo ad amplificare l’episodio avvenuto in campo senza però mai interrogarsi sul perché si è arrivati a questo punto e soprattutto cosa è necessario fare affinché le nuove leve non diventino delle sorti di Stewie da famiglia Griffin. L’aspetto negativo è che non sembra esserci la volontà di trovare un rimedio logico così come è paradossale l’inchiesta aperta dall’ATP ai danni del giovane australiano. L’aspetto positivo è che, forse, per raddrizzare il bulletto di turno più del can-can mediatico sarebbe sufficiente una consistente revisione dei contratti di sponsorizzazione di cui sono beneficiari.