Lleyton Hewitt, l’indomabile furore di un eletto

«Tutti avevamo capito che aveva qualcosa di speciale». Quando Tony Roche pronuncia queste parole è l’11 gennaio del 1998 e si sta riferendo a un ragazzino biondo che da lì a un mesetto compirà diciassette anni. A osservarlo fuori dal campo da tennis può essere scambiato per uno di quegli adolescenti che, pur praticando un qualche sport di squadra, proprio non riesce a irrobustirsi. Supposizione che però va a scontrarsi con l’atteggiamento, perché negli occhi di quel ragazzo è possibile scorgere una scintilla, un’audacia che solo una disciplina individualista può innescare. 

A vederlo in campo il quadro si fa chiaro: quel biondino è mosso da un’indomita determinazione, da un ardore che lo sospinge oltre a qualsiasi limite fisico, apparente tra l’altro, perché a livello atletico appare instancabile, ed il suo tennis, per quanto acerbo, attinge linfa proprio da quel qualcosa di speciale”, che gli ha consente nonostante i non ancora 17 anni, di presentarsi al torneo di Adelaide partendo come numero 550 del mondo, di giustiziare Andre Agassi in semifinale, e di imporsi all’ultimo atto sul connazionale Jason Stolteberg; al termine di una battaglia sopita solo dal tie-break decisivo, giusto per offrire un assaggio di cosa doveva aspettarsi il circuito quando di mezzo c’era lui, un terreno in cui il furore avrebbe sempre avuto la meglio sui codici infiocchettati e l’orgoglio avrebbe sempre preceduto una qualsivoglia forma di saggezza; lui, interamente Rusty, privo di un qualsiasi aspetto multiforme, fedele a sé stesso ed alla predestinazione che l’avrebbe accompagnato al di là dei cancelli dell’olimpo nel settembre del 2001, quando rese ancora più caotica New York, e da lì proseguire in una corsa a perdifiato che lo ha eletto il n.1 del mondo più giovane della storia del tennis, verso un secondo slam nel luglio del 2002, in quella che, quanto ad atmosfera, per antonomasia può essere considerato l’antitesi dell’U.S Open, ossia Wimbledon, rendendo magiche due stagioni sigillate con in testa la corona d’alloro di Maestro.

Ma riavvolgiamo il nastro. «Guardali, dimmi se vedi qualche somiglianza». È questa la domanda che Lleyton Hewitt rivolge all’arbitro facendo riferimento al colore della pelle del suo avversario, James Blake, e del giudice di linea; reo di avergli chiamato un fallo di piede in un frangente cruciale nel secondo turno degli US Open 2001. Quando nell’agosto di quella stagione il ventenne australiano sbarca all’aeroporto JFK di New York sono parecchie le domande che circolano sul suo conto al punto da potersi riassumere in una sola: «Dove può arrivare quel selvaggio che cerca in tutti i modi di mettere i match sulla lotta, compensando con la cattiveria agonistica e le gambe i limiti tecnici che si ritrova?». Lleyton  Hewitt risponde a tutti gli interrogativi sul cemento di Flushing Meadows. Con in bacheca già nove titoli ATP, partito come quarta testa di serie, nel match d’esordio ha la meglio sullo svedese Magnus Gustafsson per poi infliggere un impietoso 6-0 al quinto a James Blake. Respinto in tre comodi set lo spagnolo Albert Portas, agli ottavi recupera un set di svantaggio a Tommy Haas e nel turno successivo si impone sul nuovo gioiello yankee, Andy Roddick, al termine di una maratona scandita da un 6-7 6-3 6-4 3-6 6-4 che ha fa accomodare l’aussie in semifinale. Qui, opposto a Evgeny Kafelnikov, gli concede appena cinque game. Avversario in finale è il leggendario Pete Sampras. Il giovane aussie però non si fa intimidire e, a suon di passanti, riesce a rimanere in scia al sette volte campione di Wimbledon per tutto il primo set; aggrappandosi ad un tie-break durante il quale dimostra di possedere dei nervi straordinariamente saldi, tanto da aggiudicarsi la frazione per 7 punti a 4. Da quel momento, in campo rimane solo Lleyton e la sua insaziabile voglia di vincere.

«Gioca ogni punto come se fosse la Seconda Guerra Mondiale». La frase di Roy Emerson sintetizza l’anima guerriera e impavida che il 19 novembre del 2001, in seguito alla vittoria al Master, permettono a Lleyton Hewitt di diventare il più giovane tennista capace di salire sul primo gradino del ranking. Una leadership che conserverà per 75 settimane consecutive, per poi perderla per quindici giorni e riprendersela per altri trentacinque, per un totale di 80 settimane. Un periodo che avvolge il magico 2002 di Rusty; il quale domina Indian Wells ed imprime il terzo sigillo consecutivo al Queen’s; dove eguaglia John McEnroe e prende la rincorsa per uno storico trionfo sulla sacra erba del Centre Court. Wimbledon, un torneo che pare essere stampato nel dna degli australiani, dal primo Re aussie Norman Brookes, passando per Gerald Patterson, Jack Crawford, Frank Sedgman, Lew Hoad, Ashley Cooper, Neale Fraser, Rod Laver, Roy Emerson, Jhon Newcombe fino ad arrivare a Pat Cash; ma anche un tempio negato a tre grandi quali Ken Rosewall, Fred Stolle e Patrick Rafter. Lì, all’All England Tennis and Croquet Club, Rusty, il tignoso macina Bjorkman, Carraz, Knowle e Youzhny finché, ai quarti, battaglia, soffre e batte l’olandese Sjeng Schalken; ed eccolo in semifinale prolungare l’agonia dell’impettito pubblico britannico spezzando Tim Henman, per infine distruggere uno spaesato David Nalbandian per 6-1 6-3 6-2. Il capolavoro di Lleyton è seguito da un’altra grande opera, la conferma al Master, dove questa volta la vittima è Juan Carlos Ferrero; a coronamento di una stagione che lo vede vincere 6 tornei, per un totale di 61 match al cospetto di appena 15 sconfitte. 

«Ha dimostrato ancora di essere il primo, e non è facile, specialmente per il modo in cui gioca»; ammette Andre Agassi al termine della stagione 2002. Nell’interregno tra Pete Sampras e Roger Federer, insieme al Kid di Las Vegas, l’aussie è il solo a costruirsi una fortezza solida, inattaccabile persino dagli acerrimi detrattori. Dopo un avvio di 2003 che lo vede piegarsi al marocchino El Aynaoui agli ottavi degli Australian Open, Lleyton si riscatta a Indian Wells, dove schiaccia con un doppio 6-1 Gustavo Kuerten. Il declino del giovane sovrano ha inizio al primo round di Wimbledon, dove s’inchina al qualificato Ivo Karlovic. Per quanto la determinazione del leoncino di Adelaide appaia impossibile da scalfire, il modo in cui gioca deve essere supportato dal fisico e nel momento in cui muscoli e tendini iniziano a tradirlo, le prestazioni ne risentono al punto che, a fine anno, il computer lo castiga al 16esismo posto. Rusty però per non demorde. Nel 2004 diventa il primo giocatore nella storia a perdere in tutti gli Slam dal futuro vincitore: al quarto turno degli Australian Open da Roger Federer, ai quarti del Roland Garros da Gaston Gaudio, ai quarti di Wimbledon nuovamente dallo svizzero e in finale agli Us Open ancora una volta da Re Roger, che tra l’altro lo batte pure all’ultimo atto del Master. Nell’arco della stagione LLeyton afferra comunque i tornei di Sydney, Rotterdam, Washington e Long Island. Il ritorno ai vertici di Hewitt viene impreziosito da un avvio di 2005 stratosferico contraddistinto dalla conquista il suo quarto titolo a Sydney. Rusty continua a macinare km anche agli Australian Open ma, giunto in finale, il sogno di alzare le braccia al cielo nello Slam di casa dura un set; al che Marat Safin lo costringe ad un brusco risveglio. La speranza di tornare a dettar legge a Wimbledon s’infrange invece in semifinale, nuovamente battuto da Roger Federer, in quello che si rivelerà essere l’ultima apparizione dell’aussie in una fase conclusiva di una Grande Prova.

Seppure con già all’attivo così tanto quando era ancora in tenera età, le aspettative post 2002, forse, erano ben altre; ma altri slam non ne sarebbero mai più arrivati, e laddove tirano i grandi venti avrebbe messo tutti in riga solo a Indian Wells, e seppure innegabile deve essere stata la gioia nell’incidere il proprio nome per la quarta volta al Queen’s, questo nel 2006, e nel battere in due finali Roger Federer, ciò ad Halle 2010 e a Brisbane 2014, difficilmente tra le pieghe di quei 30 tornei tornei conquistati in totale non si avvertono ventate taglienti, così come insostenibilmente amare deve essersi rivelata la finale persa nella sua Melbourne contro il resuscitato Marat Safin, nel 2005.

Negli anni avremmo capito tutti che quel “qualcosa” era in verità “tanto di speciale”, che il suo tennis concreto, quei fondamentali che sembrano denudati dal talento cristallino di cui sono depositari i numeri uno, sono in realtà un compendio con la disperata voglia di vincere, con l’indole combattiva, tenace, virile che ha forgiato Lleyton Hewitt.

«Lleyton è uno degli agonisti più genuini che abbia conosciuto. Ha sempre avuto la capacità di vedere uno spiraglio di luce, non importa quanto complicata fosse la situazione. Vedeva la possibilità di uscirne, là dove la maggior parte dei giocatori non avrebbe visto nulla». Le parole di Jason Stoltenberg hanno il sapore agrodolce dell’epitaffio. Dal 2006 sono infatti poche le luci, tante le ombre e ancora di più gli infortuni che perseguitano il prode Lleyton. Un inferno dantesco il suo, alleviato dal quarto successo sull’erba del Queen’s nel 2006, dalla vittoria a Las Vegas nel 2007; poi nuovamente Rusty viene dato per disperso, vittima di un’Odissea da cui riemerge nell’aprile del 2009 quando svetta ad Houston. Il trionfo ad Halle, dove in finale sbatte la porta in faccia a Roger Federer, dopo sette anni di sconfitte negli head to head, viene di lì a pochi mesi, interpretato come il suo canto del cigno. Perché dopo quel successo ha inizio un vero e proprio Calvario. 

Crollato fino al 233esimo posto del ranking, da Lleyton Hewitt ci si aspetta solo l’annuncio del ritiro. Ma laddove chiunque avrebbe visto solo buio pesto e si sarebbe arreso, Rusty ha continuato a crederci, a lottar. Il 14 gennaio 2014, in quella terra, la sua terra, che lo aveva visto prepotentemente imporre la sua presenza al mondo del tennis, Lleyton Hewitt imprime il sigillo n.29 della sua straordinaria carriera battendo nella finale di Brisbane l’usurpatore del suo regno, un Roger Federer a sua volta scalzato dal trono; un’entità irraggiungibile la cui sola idea ha forse contribuito a usurare anzitempo qualcosa del gladiatore aussie.

«Tu esprimi tutto quello che l’Australia rappresenta”»; afferma John Newcombe quando gli consegna la Medaglia che porta il suo nome, e che consiste nel più alto riconoscimento per uno sportivo australiano, non può fare a meno di non rievocare i giorni in cui i “com’on” di quel biondino dalle gambe magrissime, con in testa un berrettino da ciclista portato all’indietro, squarciavano gli stadi di mezzo mondo. Quante cose, oltre alle sopra citate, sono accadute nel frattempo; e non solo sul campo da tennis, o meglio di battaglia. Alcune inaspettate: come il colpo di fulmine per Bec Cartwright; la donna che ha impedito le nozze tra Lleyton e la sua fidanzatina storica, Kim Clijsters, con già l’abito da sposa nell’armadio; l’attrice che ha rinunciato alla carriera per lui e lo ha reso padre di Ava, Cruz e Rebecca. 

Nonostante gli incessanti infortuni che hanno reso fragili e a corrente alternata oltre una decina di annate di un uomo che, va ripetuto, era un eletto, e nonostante questo ha dovuto scoprire sulla sua pelle come nello sport l’anima debba troppo spesso fare i conti con la carne, con un logorio che corrode anche la tempra più tenace, che indebolisce, che umanizza, anche lui così indomabile, spietato singolarista ma anche eroico trascinatore in Coppa Davis, quel Rusty che a ventidue anni aveva vinto più incontri in Coppa Davis di qualsiasi altro giocatore australiano, che ha trascinato la sua nazione in quattro finali, che ha alzato al cielo due insalatiere

È accaduto anche che cambiasse Lleyton; l’insostenibilmente spigoloso campione dai mille e più nemici, dagli avversari al pubblico, che per incanto ha smesso di vincere e anziché ottenebrarsi è diventato eroe, dimostrando una passione illimitata per uno sport al di là della gloria, per diventare l’uomo che capace di unire le platee, a cui è stato impossibile negargli la stima, il rispetto; che ha dimostrato una passione illimitata per uno sport al di là della gloria, vuoi perché era un guerriero, vuoi perché immortale lo era già.