La grave leggerezza dell’essere umani

È nell’estemporaneità di un’impalpabile brezza filosofica che si compie e si consuma tutta l’insostenibile leggerezza dell’essere che attanaglia gli esseri umani. Il principio si basa sulla visione di Parmenide del Cosmo – che non ritiene composto da entità soggette a trasformazione, bensì costituito dall’essere, ossia una sostanza unica, immobile, ingenerata, e continua – nel cui calderone può compiersi la teoria dell’eterno ritorno di Friedrich Nietzsche, il quale concepisce il tempo come ciclico, per cui l’universo rinasce e rimuore ripetendo eternamente un determinato corso e rimanendo sempre sé stesso.

Nel prologo, una voce narrante che appartiene inevitabilmente a Milan Kundera spiega poi come Parmenide dividesse l’Universo in coppie di opposizioni:  luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere, pesantezza-leggerezza, attribuendo a uno dei due poli un significato positivo: luce, sottile, caldo, essere, leggerezza, mentre ricoprendo l’altro un alone negativo. Una teoria che combacia con il pensiero di Nietzsche, in quanto ha definito l’eterno ritorno «il fardello più pesante» facendo sì che, su un tale sfondo, la vita degli esseri umani rimbalzasse in tutta la loro meravigliosa leggerezza.

L’autore ci conduce però verso una riflessione che contraddice entrambi i filosofi: «Pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito, afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre è priva di peso, è morta già in precedenza, e che sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla»; in quanto «Se il fardello ci opprime, ci schiaccia al suolo, tanto più esso è pesante tanto più la vita dell’essere umano è vicina alla terra, reale, autentica. Al contrario l’assoluta assenza del fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, si allontani dal suo essere terreno, facendo sì che le sua azioni siano tanto libere quanto prive di spessore».

A trascinare il lettore in una Boemia implacabilmente destinata a essere invasa dall’Unione Sovietica è Tomáš: uno stimato chirurgo reduce da un matrimonio fallito a causa dei continui tradimenti e ormai immedesimato in una routine fatta di lavoro e amanti che definisce «amicizie erotiche» e con cui non dorme mai insieme. Sarà il caso a farlo imbattere in Tereza, una barista che lavora in un paesino e che potrebbe essere una delle tante storielle leggere, tant’è che dopo il sesso Tomáš non esita a dirsi pronto a riaccompagnarla a casa, ma qualcosa di pesante accade: i sintomi di un’influenza avvertiti da Tereza e i conseguenti scrupoli morali lo inducono a tenersela in casa, a Praga, quel tot di giorni sufficienti a far nascere un qualcosa di importante, rafforzato dall’arrivo di un cagna, battezzata Karenin, in omaggio all’eroina del celebre romanzo di Tolstoj.

Tomáš e Tereza si amano, ma se lei gli è fedele tanto spiritualmente quanto fisicamente, lui non riesce a non svolazzare da una relazione all’altra. Ed è proprio una di esse, Sabine, che Tomáš fa accomodare nel romanzo: una pittrice emancipata a sua volta amante di Franz, un professore universitario, sposato, che al pari di Tereza vorrebbe avere il suo vero amore solo per sé, ed esasperato dalla leggerezza che (non) lo lega a Sabine decide di confessare la sua relazione extraconiugale alla moglie Marie-Claude, la quale reagisce con freddezza, mentre l’artista avverte la pesantezza insostenibile dei sentimenti e lo lascia.

Più volte nel romanzo viene ripetuto: Einmal ist Keinmal; un proverbio tedesco che sottolinea come le scelte che una persona compie durante la propria vita appaiono del tutto irrilevanti se confrontate con la vita stessa. Fatto è che le scelte di Tomáš, Tereza, Franz e Sabine, li condurranno ognuno verso la propria fine: Sabine volerà negli Stati Uniti dove farà perdere le proprie tracce, Franz cercherà di cicatrizzare le proprie ferite in Cambogia ma sarà ucciso da delinquenti locali, mentre Tomáš  e Tereza si difenderanno dalla minaccia di altre donne esiliandosi in campagna e, fedeli alla linea retta che pare essere la vita singola di un uomo, attenderanno il loro epilogo: la morte di Karenin di tumore, la loro stessa morte a causa di un banale incidente d’auto.

L’impotenza con cui accogliamo la sentenza dei personaggi altro non è che la sentenza a cui tutti siamo destinati. Sentenza che ci fa apparire insostenibile la leggerezza con cui spesso ci addentriamo nei meandri dell’esistenza, inconsapevolmente in attesa di quel vortice destinato a trascinare ogni vita nel dimenticatoio, dove saremo denudati della nostra identità, dei nostri ricordi, della nostra unicità, in un aldilà senza volti, costretti a rivivere la nostra vita ancora una volta, e ancora, senza mai apportare niente di nuovo, ogni dolore, ogni piacere, ogni pensiero, ogni sospiro, ogni indicibilmente piccola e grande cosa della nostra vita dovrà ripresentarsi. Perché il mito dell’eterno ritorno vuole che l’eterna clessidra dell’esistenza sia capovolta, di volta in volta, e noi, come ogni granello di polvere, con essa.

A governare le nostre vite sarà sempre l’amore, nelle forme più svariate, in tutta la sua complessità, con tutti i suoi limiti. L’amore, l’unico motore in grado di renderci muti portavoce delle stesse gioie, degli stessi dolori, degli stessi rancori, delle stesse aspettative, degli stessi rimorsi, di un qualcosa di irrealizzato e irrealizzabile che è eternamente destinato ad attraversare la vita degli esseri umani.