Antonio Machado, la catarsi del dolore

Una solitudine profonda, alleggerita dal gravoso peso che custodiscono i ricordi, grave al pari del drammatico cammino che, tramite i versi, sembravano indicargli la via per accarezzare una elaborata catarsi, quel sofisticato processo di purificazione reso possibile da una intimista quanto penetrante introspezione in grado di lenire il dolore, eppure incapace di guarirlo. La poesia di Antonio Machado racchiude in sé stessa la più alta espressione avanguardista senza però appartenere a nessun movimento in quanto incastrata, intrappolata alla concretezza della terra ma al tempo stesso aleatoria, dolorosamente espressionista. I colori delle sue liriche sono intensi, accesi, riflettono quell’inquietudine, quelle domande senza risposta riguardo al tempo, l’amore, Dio e la morte, che hanno esteso le radici nella sua anima, provocando un tormento lacerante, impossibile da scalfire. Una sofferenza quella di Machado urlata a pieni polmoni ma da una tale distanza da giungere al lettore flebile come un sospiro, disturbate come potrebbe esserlo l’eco indistinguibile che produce la voce di un profugo.

Antonio Machado nasce a Siviglia il 26 luglio del 1875, nel palazzo di Las Dueñas situato nella via omonima. Antonio ha otto anni quando segue la famiglia a Madrid dove studia alla Institución Libre de Enseñanza una scuola laica, avamposto della pedagogia liberale. Nel 1893 la morte del padre, uno studioso del folklore, anticipa di poco il collasso delle economie familiari. Ciò non impedisce ad Antonio di vivere come un moderato bohémien e di compiere due viaggi a Parigi dove conosce Oscar Wilde.

L’esordio poetico avviene nel 1903 e il titolo del libro altro non poteva essere che “Soledades”, solitudini. Machado si lascia ispirare dalla potenza del paesaggio castigliano, un groviglio di visioni, intuizioni, percezioni talmente acuti da mettere in discussione ciò che è reale e ciò che non lo è. Territori, quelli descritti, da lui scoperti a Soria, nella quale si reca per insegnare francese in una scuola secondaria. È un insegnante anti convenzionale, avverso a qualsiasi esame e, soprattutto, alle bocciature. Ed è a Soria che conosce Leonor Izquierdo, la figlia dei gestori della pensione in cui alloggia. Ha i capelli neri, è esile di corporatura, ha quindici anni ed è malata di tisi. Ma Antonio, che di anni ne ha diciannove di più, se ne innamora alla follia e la sposa.

Nel 1912 l’anno in cui esce la sua raccolta più famosa, “Campos de Castilla”, Leonor muore. Pur di scomparire insieme a lei, ha cercato di infettarsi con la tbc. Invano. Pensa pure al suicidio. È la poesia a salvarlo, o forse è lui a volersi immolare alla vita. Quei luoghi però, diventano un inferno di ricordi. Si fa trasferire 540 chilometri più a sud, a Baeza, città avvolta nella canicola in estate, nella nebbia in autunno, e nella neve in inverno.

Machado però non ha pace. Dirotta la sua vita a Segovia, conosce la poetessa Pilar Valderrama, sposata e cresciuta in seno a una famiglia conservatrice. Antonio pare rivedere la luce, ma la guerra civile pone fine alla loro relazione. A differenza del fratello Manuel che si schiera con i nazionalisti, Antonio prende posizione a favore del governo repubblicano e appoggia le azioni dei numerosi intellettuali. Insieme alla vecchia madre si sposta prima a Madrid, poi Valencia, da lì a Barcellona.

A fine gennaio 1939 le avanguardie franchiste dilagano. Machado, la madre, il fratello José e la moglie di questi s’incamminano verso la frontiera francese, che attraversarono tra il 28 e il 29 gennaio. Durante l’esodo, il poeta si vede costretto ad abbandonare una valigia contenente versi, appunti e lettere. Alloggiano in una pensione appena dopo la frontiera a Collioure. Antonio ha 64 anni, ma ne dimostra una ventina in più. È stanco, malato, amareggiato. Passa lunghe ore all’aperto a guardare il mare grigio. I suoi ultimi versi però, sono dedicati alla limpida Siviglia che gli è rimasta stampata negli occhi e nel cuore.

Il 22 febbraio del 1939, muore. In una tasca del cappotto il fratello trova un pezzo di carta con l’ultimo verso: “Quei giorni azzurri e quel sole dell’infanzia“. La bara di Antonio Machado viene tumulata nel cimitero della piccola cittadina francese. Tre giorni dopo anche sua madre Ana lo raggiunge nel sueño. La scomparsa dell’ultima delle tre donne che tanto aveva amato in vita, è il definitivo epitaffio di un uomo impossibilitato di vedere, di sentire come un comune mortale, contrario a qualsiasi meccanismo di difesa e di auto-conservazione e, di conseguenza, irrimediabilmente consumato dalla vita e dalla sua poesia.

 

NUDA È LA TERRA

Nuda è la terra, ulula

l’anima sull’orizzonte pallido

come lupa famelica.

Che cerchi, poeta, nel tramonto?

Amaro camminare, perché pesa

nel cuore il cammino.

Il vento gelido e la notte che arriva,

e l’amarezza della distanza..

Sul bianco cammino,

si stagliano neri alberi stecchiti,

lungo i monti solitari c’è oro e sangue..

Il sole è morto…

Che cerchi, poeta, nel tramonto?

2 comments

  1. Machado: la catarsi del dolore – Acèdia

    […] Articolo originariamente pubblicato sul blog di Samantha Casella. […]

  2. Machado, la catarsi del dolore - Acèdia

    […] Articolo originariamente pubblicato sul blog di Samantha Casella. […]

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