Wimbledon, il crepuscolo degli dei
Roger Federer trionfa a Wimbledon per l’ottava volta e issa l’asticella delle prove del Grande Slam a quota 19. Numeri immensi che possono, seppure solo entro certi limiti, rendere l’idea della portata di questo giocatore immenso, perché Roger Federer, il Re del tennis, il semidio elvetico, l’idolo delle folle, va oltre a qualsiasi numero. Nomini Roger Federer e si apre un mondo calibrato da numeri record che però non bastano per sorreggerlo quel mondo, l’universo Federer, un luogo dipinto dalla sua perfezione stilistica, delineato dalla bellezza del gesto, da un qualcosa di indefinibile che riesce persino a nascondere quella forza, quella pesantezza, quell’atletismo, persino quel pragmatismo, che ne costituiscono l’essenza, la polvere cosmica del talento incarnato, i pilastri della creazione.
Roger Federer. Il GOAT. Il divino. L’eterno. L’inattaccabile. Sempre meno uomo, sempre più personaggio mitologico, leggenda universale. Un essere innalzato a esempio, adulato ai limiti del buon senso. Quando perde non deve dimostrare niente a nessuno. Quando vince è il compiersi dell’ennesima profezia. L’ennesimo segno teso a rassicurare i comuni mortali. Lui, il Re, l’eletto, il semidio, è ancora qui, o forse lì. Sbagliare un avverbio di luogo può rivelarsi letale. Perché parlare di Roger Federer è diventato più scomodo che addentrarsi in temi religiosi. Roger Federer impone il silenzio.
Roger Federer. Talmente grandioso da negare persino quel minimo di compassione nei confronti dello sconfitto, quel gigante croato che aveva avuto l’insolenza di non fargli veder palla tre anni prima in semifinale all’US Open e che a Church Road è stato punito, ancor prima che dal semidio elvetico dal fato che lo ha voluto menomato per l’intera finale. Un infortunio scomodo persino da nominare. Vuoi mai che a qualcuno saltasse in mente di dire, scrivere o anche solo pensare, che un semplice, che Marin Cilic in condizioni normali, potesse impensierire il Re. Perché in fondo no, non lo poteva impensierire. Ma quel piede infortunato non nominiamolo nemmeno, di grazia. A Marin Cilic è spettato in dono il ruolo che già aveva recitato Tomas Berdych, e prima di lui Milos Raonic, e prima ancora Grigor Dimitrov e via a scorrere a ritroso fino al primo agnello sacrificale, Alexandr Dolgopolov, pure lui acciaccato, ma a differenza di Cilic, ritiratosi. Semplici sagome. Birilli da abbattere. Nomi senza un cuore, senza anima.
Spietato è il mondo dei devoti. Cieco. Ignaro. Perché la festa di Federer, l’ottavo titolo a Wimbledon, l’ennesimo record, è stata forse, più che qualsiasi altra vittoria o ancor più sconfitta, uno spettacolo di morte. Perché Federer l’ultimo immortale che accoglie la vittoria quale signore che è, quando realizza ciò che ha fatto, dopo aver fatto tutto ciò che già aveva fatto, si è forse reso conto per la prima volta che intorno a lui il pubblico è in delirio e nel Royal Box c’è il futuro re, che mai sarà re quanto lui, che lo applaude, e poi c’è la sua famiglia, genitori, moglie, gemelline e gemellini; e poco sotto c’é Rod Laver, colui che una quarantina di anni prima poteva essere considerato al pari suo imbattibile, divino e leggendario se solo il mondo di allora fosse stato stupido e social come quello di adesso. Federer vede tutte queste cose e si commuove. Piange, come prima aveva pianto Marin Cilic. Se le lacrime del croato erano però rivolte al presente, quelle di Federer chissà, da figura epica qual’é, forse sono proiettate al futuro, al giorno che in campo, seduto su quella sedia, ci sarà qualcun altro, mentre lui, ottantenne, assisterà alla resa dei conti dei Championships insieme alla propria famiglia laddove ora siede Laver. E sarà un altro mondo. Sarà un mondo con nuovi campioni, forse, ma probabilmente sarà un mondo senza eroi. Sarà un mondo senza lacrime. Sarà un mondo senza Roger Federer.
La finale di Wimbledon, il torneo in sé, è stato un metaforico spettacolo di morte per questo motivo. Perché siamo agli sgoccioli. Perché gli dei ormai hanno scalato la montagna. E noi con loro. Le loro gesta ci hanno allattato per quindi accompagnarci nell’età adulta, hanno affiancato le gioie e i dolori del quotidiano. Noi, comuni mortali che associamo, collochiamo, ricordiamo determinati eventi del nostro vissuto alle date, all’annata, di questo o quel trionfo. Le tavole della legge, ormai, le conosciamo a memoria e questi ripassi, queste rivisitazioni, sembrano già a custodire i sapori, gli odori, dei bei tempi che furono. E così una vittoria custodisce in sé una malinconia, uno struggimento, forse persino più lacerante di una sconfitta. Perché troppo belli e profondi sono certi istanti. Perché sappiamo che mai più ci appassioneremo così tanto. Perché sappiamo che mai più ameremo con tanto slancio. Perché sappiamo che tra non molto questo sogno finirà. E questo fa paura.
In un Wimbledon in cui spesso e volentieri sono piovute bestemmie in campo dai soliti noti, dove il giovane esecutore di un tre volte campione slam ha avuto la bassezza di lanciare monetine all’arbitro di sedia perché le sue decisioni non erano a lui congeniali, dove un ancor più giovane signorino ha apostrofato un altro arbitro ancora in malo modo a causa di un’altrettanta decisione da lui ritenuta ostile, dove un giocatore che mai lascerà un segno in questo sport assesta più o meno volontariamente una spallata a un ball boys, di sesso femminile, a un cambio campo e in conferenza stampa si permette persino di ironizzare su chi dovrebbe avere la precedenza in campo; in un mondo così esiste ancora una parvenza di credibilità solo perché in quel tabellone qualche eroe, qualche eletto, ancora lo leggiamo.
Pure l’ultimo atto delle finale femminile è stato illuminato dalla presenza di una dea ma, dopo nove games e due set point sfumati, la nube tossica che sovrasta il tennis in gonnella si è incarnato per la seconda volta in poco più di due anni in Gabrine Muguruza e addio lieto fine. A 17 anni dal primo dei cinque portentosi trionfi londinesi, Venus si è dimostrata per quella che è: una dea, senza dubbio, una Williams – che è qualcosa di più dall’essere Serena o Venus in quanto creature a se stanti – ma sempre più una consapevole, appagata, rassegnata, logora 37enne che, dopo aver rimandato a settembre la nuova stellina Jelena Ostapenko e aver ridimensionato la farisea Johanna Konta (uscita dal centrale da doppia-perdente dato che non ha aspettato come d’uso l’avversaria che l’aveva battuta), ha ceduto in finale a una che, poco poco riesca a presentarsi a un torneo in condizioni psico-fisiche decenti, è quella che più si avvicina ad essere una giocatrice di tennis, ma pur sempre una che, Wimbledon compreso, ha vinto la miseria di quattro tornei su sette finali compressive disputate; una che dalla vittoria al Roland Garros 2016, per oltre un anno ha oziato, per lo più perdendo, piagnucolando, sospinta ai box dalla fedelissima Alicia, che di mestiere dovrebbe fare la fisioterapista, ma che nelle fasi di gioco non riesce proprio a tenere la bocca chiusa un momento al punto da contagiare pure Conchita Martinez, la sostituta di quello che dovrebbe essere il coach ufficiale della spagnola, San Sam Sumyk.
Victoria Azarenka e Petra Kvitova si sono sciolte senza lasciare macchie di sangue significative da giustificare un commento da tramandare ai posteri ed hanno semmai offerto l’ennesima conferma che non saranno loro a salvare il tennis. Wimbledon ha comunque incoronato la 23esima regina della WTA. Dopo la robotica Angelique Kerber a prendere in mano lo scettro è stata Karolina Pliskova. Da sfidare un non patito di tennis a sapere chi sia, ma tra le fanciulle in gonnella il nuovo mondo è già arrivato da un pezzo, sono almeno sette anni che getta le radici ed ora ha assunto per intero le sembianze di quel che è: una giungla dove l’unica regola che vige è quella dell’assenza di regole.
Se la finale del doppio maschile ha visto esultare dopo 4 ore e 42 minuti gli specialisti Lukasz Kubot e Marcelo Melo ai danni di Oliver Marach e Mate Pavic; la manifestazione femminile si è conclusa all’insegna della vergogna più assoluta: un doppio 6-0 rifilato dalla coppia russa Elena Vesnina ed Ekaterina Makarova sulle modestissime Niculescu & Chan. Spiragli di luce si sono intravisti nel match di doppio misto che ha chiuso la 131ª edizione di Wimbledon e che ha visto un britannico per metà campo: da una parte Heather Watson, dall’altra Jamie Murray. La differenza l’ha fatta un nome: se di fianco alla miss si barcamenava un finlandese che si chiama Henri Kontinen, partner del sir era la divina Martina Hingis. Numeri alla mano, 20 anni dopo essere diventata la più giovane vincitrice di Wimbledon dell’era open, Martina Hingis ha stretto in pugno il 23esimo titolo slam tra singolare, doppio e doppio misto. E nuovamente, l’inquietante sensazione che qualcosa di imponderabile ed insostenibilmente bello sia in procinto di finire si è fatta largo.