La bellezza salverà il tennis?

«La bellezza salverà il mondo». L’insoluto disaccordo che da oltre cent’anni divide i saggisti nell’interpretare questo passo proveniente dal capolavoro di Fedor Dostoevskij, “L’idiota”, ha ingigantito l’ambiguità in esso celata. Questa misteriosa frase, che appare nel testo originale sotto forma di domanda e non di affermazione, scritta nella lingua del romanziere russo, lo slavo ecclesiastico, ne accresce la doppiezza in quanto il termine “Mir” in russo può significare sia mondo che pace intingendo la parola “krasotà”, bellezza, di un valore che la lega imprescindibilmente al bene, alla bontà.

Il Roland Garros ha incornato per la decima volta Rafael Nadal, il Re Sole, un eroe poliedrico spinto da una commuovente abnegazione, forgiato da un mix di talenti talmente contrastanti da creare intorno alla sua figura una serie di enigmi di cui nemmeno la Sfinge detiene le risposte. Lo spagnolo è il rinato che a Parigi ha oscurato il precedente record di Bjorn Borg per arrivare a battere persino sé stesso, per poi ribattersi ancora, è il guerriero che ha saputo risollevarsi svariate volte da morte certa con l’umiltà che caratterizza i cavalieri valorosi e per questo appare inestimabilmente bello.

In una stagione dove Rafael Nadal si è riappropriato di un regno che oltre tre anni prima pareva irrimediabilmente perduto e ha voracemente divorato la Big Apple  per la terza volta assoluta portando a 16 la lista slam – in quanto il suo biglietto da visita presenta pure di due titoli a Wimbledon e uno a Melbourne – a scrivere alcune tra le pagine più belle e toccanti di sempre è stato il suo storico rivale, il tennista che più di ogni altro è stato eletto – con toni spesso semplicistici quanto sofisticati – simbolo di bellezza estetica; il semidio elvetico Roger Federer. Ha privato il circuito della sua presenza per sei mesi, il divino, per ragionare sul suo futuro, per lavorare, per sudare, per reinventarsi. La sua proverbiale classe è stata così ingigantita dalla malinconia, dal terrore di averlo perso, dalla consapevolezza che comunque sia presto –  e sarà sempre troppo presto – lo perderemo, e come per incanto i trionfi sul cemento (modellato per l’occasione a sua immagine e somiglianza) di Melbourne e sull’erba dei Championships, senza dimenticare la maestosa doppietta Indian Wells-Miami, si sono stagliati in tutta la loro sgargiante bellezza.

Rafael Nadal e Roger Federer. Due antitesi che hanno unito, diviso, scandito, ormai non si contano più quante annate di tennis. Roger e Rafa, i Fabolous 2, talmente unici, osannati e splendenti da rendere necessario l’incursione di altri due compagni di viaggio, non fosse altro per il sadico desiderio di paragonarli, per denigrarli i nuovi due, per sminuire ogni loro impresa, grande o piccola che fosse. Perché a Novak Djokovic e Andy Murray sono stati fatti vestire i panni degli intrusi, degli usurpatori indegni. Emissari di un tennis attendista, seppur solo all’apparenza, dove la bellezza è semmai scandita dalle geometrie – di conseguenza invisibile ai più – il serbo e lo scozzese sono stati accusati di tutto, ma in primo luogo dal pubblico FeDal di ammazzare i match esprimendo un tennis all’insegna della più sconsiderata miseria visiva. Di aver reso tutto più brutto, mentre quando vincono loro, Federer e Nadal, tutto diventa bello.

Questa insana, a tratti dozzinale, ossessione per una certa forma di bellezza accompagna il tennis da sempre, da quando i gesti erano bianchi quanto gli abiti indossati dai giurassici protagonisti dei tempi che furono. Per i palati fini questa vera o presunta involuzione tennistica avrebbe avuto inizio con Bjorn Borg per poi sfociare in una sorta di Medioevo con l’avvento di Ivan Lendl seppure prima che il ceco diventasse terribile, nel 1982 un altro svedese, Mats Wilander, aveva intinto di buio l’albo d’oro dei French Open.

Il seme, la radice del male sarebbe quindi germogliata nella fredda Svezia che, dopo l’ardito Sven Davidson capace di vincere il Roland Garros cercando la rete, ha deciso di farsi pragmatica e vincente. Il buon tennis non è quindi andato a dormire sereno per poi risvegliarsi nel bel mezzo di un incubo, no, il processo è stato graduale e, proprio per questo, potrebbe aver gettato delle basi più profonde, robuste, cancerogene.

Ancora adesso c’è chi non si da pace: come ha potuto Bjorn Borg mettere tutti in riga a Wimbledon per cinque anni consecutivi?  È stata la noia del suo spartito a far addormentare Vitas Gerulaitis? A far crollare la forza bruta di Roscoe Tanner? Ad ammansire Jimmy Connors? Come hanno potuto le sue falcate spezzare le braccia d’oro di Ilie Nastase e John McEnroe? Sarà forse che il suo tennis non era così privo di bellezza? Che esso, semmai, era troppo sofisticato per essere compreso? Nei suoi detrattori, il mistero permane rafforzato dalla certezza che Mats Wilander sia stata una fastidiosa appendice dell’orso svedese. E così Mats, capace nel biennio 1983-84 di impugnare due titoli all’Australian Open quando ancora si giocavano a fine stagione sull’erba del Kooyong Stadium, è il secondo colpevole contro cui puntare il dito, un “batterio” persino peggiore della sbiadita fotocopia di Borg, l’argentino Guillermo Vilas.

Come se non bastasse, nel 1984 ci si è messo pure Ivan Lendl: l’ex perdente che non rideva mai e che ha avuto la sconsideratezza di impossessarsi del regno di John McEnroe, il ceco che non custodiva nell’animo né sogni personali né tanto meno ideali di bellezza, ma piuttosto ragionava per obiettivi. Il tennista che non si è limitato a sacrificare la fantasia a beneficio della concretezza, no, ci ha aggiunto la forza, la dedizione, anzi peggio; ha capito che l’uomo poteva perfezionare il suo stato di carne ed ossa, poteva diventare qualcosa di più evoluto, poteva trasformarsi in macchina. Non è solo l’allenamento personalizzato che Ivan Lendl ha imposto al tennis, è stata la medicina. Lendl ha indicato la strada del professionismo moderno, in cui ogni singolo aspetto è parte di un ingranaggio che contribuisce a forgiare il sistema operativo teso a creare un atleta a 360 gradi, dotato forse di una bellezza più fredda, più calcolata, forse meno seducente, meno emozionale, ma ugualmente, per quanto diversamente, aliena.

«Dio è nei dettagli»; sosteneva il celebre architetto Ludwig Mies van der Rohe. Nel tennis il dettaglio corrisponde alla ripetizione; la quale è il contrario dell’istinto, dell’estro. Ivan Lendl e i suoi seguaci – fino ad arrivare a Djokovic a Murray, senza dimenticare però che prima di loro ha scalato la montagna un certo Lleyton Hewitt – i dettagli li intravedono nel metodo, nel calcolo delle percentuali, nel superamento dei propri limiti. Come non riconoscere che tutto ciò è straordinariamente bello?

«Provo sempre un senso di pena e di inquietudine, quando contemplo per la prima volta un luogo simile: ne sento la bellezza ma mi riempie di angoscia»; ammette Myskin, il principe idiota. L’insostenibile peso della bellezza ha forse allontanato il tennis dal proprio peccato originale? Per quanto risulti difficile credere che lassù, dove tirano i grandi venti degli eletti, si possano affacciare tennisti privi di talento, indubbiamente nel grande calderone globale, nella mischia, gli umili sono stati messi nelle condizioni di sgomitare e di farsi largo a discapito dei raffinati spadaccini in calzamaglia. Il progresso ha reso le racchette più elastiche e non è stato il braccio degli artisti a beneficiarne, bensì quello degli operai. Non meno determinante è stata la decisione di rallentare le superfici; rendendole un mare ideale per i vogatori da fondo campo.

Dal picchiatore a metà Jim Courier al devoto Michael Chang, dal selvaggio Thomas Muster al capostipite dell’Invincibile Armada, Sergi Bruguera, un’occhiata distratta potrebbe suggerire che il panorama è stato devastato, saccheggiato, appiattito da una schiera di maratoneti che hanno consolidato la regola che nel tennis vince chi sbaglia meno e corre di più. Questa politica non ha certo demoralizzato né le Accademie statunitensi né tanto meno le decine di “satelliti made in Spagna” dall’insana tentazione di sfornare una serie di cloni piantati sulla riga di fondo a tirar mine, o a pedalare tre metri dietro a essa.

Atleti instancabili, automi capaci di restare otto ore in campo senza avvertire la stanchezza su cui, inevitabilmente, grava lo spettro del doping, colpevole secondo alcuni, di aver sostenuto le imprese sportive di campioni. Argomento scomodo e dalle infinite sfumature, tirato in ballo di frequente e sistematicamente in modo inopportuno, alimentando sospetti e una caccia alle streghe ipocrita, per non dire miserevole quando vengono additati i grandi nomi, perché il doping – dobbiamo ficcarcelo in testa – non aiuta il campione bensì il brocco; contribuendo a schiaffeggiare la bellezza forse su vasta scala, ma mai nel dettaglio, mai quando si parla di numeri uno.

«Bellezza e verità sono una cosa sola»; scrisse John Keats. Non è però scontato che una verità sia interamente bella così come una cosa bella sia spudoratamente vera, incontaminata. A ben guardare, se pure gli anni ’80 fossero stati contaminanti dalle bellezze ambigue di Ivan Lendl e Mats Wilander, a figurare tra gli attori principali spicca il soave John McEnroe, il versatile Jimmy Connors, gli spettacolari Stefan Edberg e Boris Becker, il felino Miloslav Mecir, gli imprevedibili Pat Cash, Yannick Noah, Henry Leconte e Guy Forget. Così come i decenni successivi, nonostante i conquistadores iberici, avrebbero poi consacrato il bello quanto inespressivo Pete Sampras, il conturbante flipper Andre Agassi, il coraggioso Patrick Rafter, il raffinato Tim Henman, l’indefinibile Marcelo Rios, l’ardimentoso David Nalbandian, il problematico Marat Safin  e via, via fino ai giorni nostri dove, oltre ai soliti due, o meglio quattro noti, Stan Wawrinka ha spinto il livello a picchi impensabili, così come comprimari quali Richard Gasquet, Tommy Haas e Gael Monfils varranno sempre il prezzo del biglietto.

Il passaggio tra vecchia e nuova era è stato alquanto più traumatico nel circuito WTA. La classe signorile di Chris Evert, la genetica ricerca della rete di Martina Navrativola – debitrice a sua volta di Billie Jean King, Evonne Goolagong  e Margaret Court – e il genio fuori quota di Hana Mandlikova, erano riuscite a respingere la minaccia Tracy Austin; ma se gli amanti del nobile gioco si erano dimostrati disposti ad accettare come compromesso Steffi Graf e Gabriela Sabatini, si sono sentiti pugnalare alle spalle da un fenomeno quale Monica Seles, a loro vedere battistrada “privo di coscienza” di altrettanti fenomeni che rispondono al nome di Jennifer Capriati, Lindsay Davenport, Venus e Serena Williams, Kim Clijsters e Maria Sharapova. Cambiamenti radicali, ritorsioni, scompigli tali da far sì che quando si parla di tennis femminile il termine bellezza debba per forza di cose filtrare all’estetica delle giocatrici, improvvisamente più curate, più studiate, più mercificate, rispetto alle loro “nobili antenate”.

Qualche spiraglio di bellezza tennistica ha comunque continuato a riversarsi sul rettangolo di gioco. Si è trattato di una bellezza contorta, sofferente. La bellezza di Martina Hingis, Justine Henin e Svetlana Kuznetsova ha pagato un pegno carissimo, devastante, l’esistenza di un oscuro demone che paradossalmente non possedeva le sembianze delle sistematiche, costanti e concretissime avversarie, ma era piuttosto un riflesso della loro fragile e intangibile bellezza.

Da dove proviene lo sdegno di alcuni esteti al cospetto delle cinque n.1 del mondo distribuitesi nell’arco del 2017? Ritenere una giocatrice immeritevole di essere riconosciuta dal computer come n.1 del ranking rappresenta un comprensibile rigetto nei confronti del brutto, nel disperato tentativo di aspirare a qualcosa di bello per il futuro? Una leggenda come Serena Williams, una lottatrice come Angelique Kerber, una strepitosa colpitrice come Karolina Pliskova, una giocatrice misurata come Garbine Muguruza e  una tennista costante come Simona Halep devono essere tassativamente considerate esenti da una qualsiasi forma di bellezza? Sorvolando l’aspetto scontato per quanto trascurato che si sta parlando di professioniste, spesso viene dimenticato che ad ogni modo si tratta di giocatrici a modo loro uniche, capaci di esprimere un tennis tutt’altro che fotocopiato, come invece avviene quando si parla di giocatrici che navigano oltre la trentesima posizione. Certo, il livello al vertice può essere composto da meno pezzi da 90 rispetto a una decina di anni or sono, ma non dimentichiamo che non bisogna andare troppo indietro negli anni per ricordare commenti di alcuni consumati intenditori che, oltre a non apprezzare Williams &.co, ritenevano Jelena Jankovic monotona, Ana Ivanovic in possesso solo del diritto, Dinara Safina macchinosa, Petra Kvitova inguardabile. Alla fine della fiera la domanda sorge spontanea: è sinonimo di buon senso dar retta a prescindere a questi catastrofisti?

«Voi siete straordinariamente bella, lo siete talmente che si ha paura a guardarvi». La frase che il principe Myskin confessa alla sua irraggiungibile amata potrebbe suggerire che la bellezza è un qualcosa di talmente assoluto che impone allo sguardo di non fissarsi troppo a lungo su di essa, quasi sentisse la necessità di posarsi su qualcosa di più normale e rassicurante. Un bisogno che potrebbe valere pure per il tennis dove il termine bellezza evoca di riflesso condizioni quali talento, estro e genio. Ed è inquietante come queste doti evochino altre condizioni, eccelse ma allo stesso tempo subdole come l’istinto, la leggerezza, l’imprevedibilità, l’incertezza emotiva.

Mats Wilander ha recentemente spiegato come, a suo vedere «è geniale quel che si riesce a produrre quando si vuole farlo». Lo svedese quindi associa genialità a volontà. Il “metodo Lendl” custodiva forse in sé la genialità, la bellezza figlia degli anni 80’? Chi critica l’atletismo di Nadal è forse una sorta di nostalgico retrogrado che oserebbe insinuare che il lume di candela è preferibile all’elettricità, la carrozza a un auto dotata di ogni confort, carta e penna ad un iPad? Nell’inverno del 1919 Ted Tilden si trasferì nel Rhode Island per rimodellare il suo rovescio inefficace. L’estate dell’anno dopo si ripresentò con una nuova presa e un rovescio potente: per il resto del decennio dominò il tennis mondiale. Alcuni suoi contemporanei meno prestanti fossero nati alla fine degli anni 80’ si sarebbero forse rinchiusi in una palestra? Wilander minimizza l’imprevedibilità, sostiene che «tutti i grandi campioni erano e sono prevedibili» e porta ad esempio il serve & volley di Stefan Edberg, il ritmo forsennato imposto da Andre Agassi, la pressione che esercita Nadal con il diritto, l’ottima percentuale di prime di servizio per poi poter sfondare con il diritto per Sampras e Federer; l’equilibrio psico-fisico per Novak Djokovic. Campioni differenti che si basano su necessità differenti.

La bellezza è forse un’illusione? Essa si palesa solo sotto forma di verità? O in essa si nasconde un substrato di menzogne? Così come i modelli femminili, ciò che era bellezza negli anni 70’ non lo sarebbe più di questi tempi? E viceversa? L’armonia nei gesti insita in Roger Federer, Pete Sampras, Martina Hingis e Justine Henin. L’inesauribile ferocia agonistica di Jimmy Connors, Lleyton Hewitt e Monica Seles. L’ispirazione poetica di John McEnroe e Hana Mandlikova. Il pragmatismo di Bjorn Borg, Mats Wilander e Arantxa Sanchez. La disciplina di Ivan Lendl e Novak Djokovic. La versatilità di Rafael Nadal e Svetlana Kuznetsova. Le dimostrazioni di forza delle sorelle Williams. E via, via, fino ad arrivare ad apprezzare il lavoro che c’è per permettere a un uomo alto 2 metri e 8 cm come John Isner di non essere solo servizio.

Forse andrebbe semplicemente accettato che i tempi cambiano, evolvono, e inevitabilmente canoni e principi sono destinati a tramutare, ad alterarsi. Non è da escludere che nel tempo il tennis conoscerà periodi tutt’altro che luminosi dai quali tenterà di risollevarsi un po’ aggrappandosi al nuovo campione di turno, un po’ tentando di abbozzare nuove regole nel tentativo di rendere il format più spettacolare o appetibile per i palinsesti, per quindi sbattere incontro a speranze disingannate, a norme da rimaneggiare più e più volte. Può essere persino che per andare oltre sarà necessario riavvolgere diversi nastri. O forse no. La cosa certa è che la bellezza non ha il potere di salvare il tennis, così come il tennis non può garantire vita eterna alla bellezza in quanto essa altro non è che un enigma riposto negli occhi di chi riesce a vederla, a riconoscerla nelle sue molteplici forme.

Roger Federer of Switzerland goes down on one knee as he celebrates his victory over Rafael Nadal of Spain in the men’s singles final on day 14 of the Australian Open tennis tournament in Melbourne on January 29, 2017. / AFP PHOTO / SAEED KHAN / IMAGE RESTRICTED TO EDITORIAL USE – STRICTLY NO COMMERCIAL USESAEED KHAN/AFP/Getty Images

5 comments

  1. Dave67

    Ciao, come fai, così giovane, a scrivere di Tennis in questo modo ? Avrebbe potuto scriverlo Clerici un articolo così….. ti sei studiata il passato, ti sei andata a guardare le immagini delle antiche epiche sfide ?
    Da un certo momento in avanti le ricordo anche io, ma credo di staccarti di una 20ina d’anni….
    Complimenti.
    Se posso, aggiungerei nel comparto “bellezza pura, talento e gesti Bianchi”…. anche il Nero per eccellenza : Mr Arthur Ashe.
    D.

    1. samanthacasella

      Ciao, per prima cosa grazie, ovviamente so che il paragone è palesemente esagerato, però grazie ugualmente! Diciamo che la mia fortuna è stata avere due genitori che sin da bambina mi hanno avvicinata allo sport, soprattutto tennis e F1, basta pensare che a 4 anni i miei mi portarono a vedere il GP di Hockenheimring! Per il tennis è valsa la stessa cosa anche se ovviamente quando si è tanto piccoli non è possibile entrare in alcuni meccanismi, non so se mi spiego.. Comunque sì, ho passato alcuni anni della mia vita pure a giocare a tennis, a guardare registrazioni in VHS, mentre ora come ora ne vedo parecchio dal vivo.
      PS. Hai ragione, ho dimenticato Arthur Ashe!

  2. Dave67

    No, non è palesemente esagerato e non è casuale perchè basta “leggere di tennis” sui 3 maggiori siti web che ne danno le notizie (siti che non citiamo) per capire come siamo messi…. Ti elevi e non di poco.
    Per tacere del livello medio dei commenti sui Social abbinati.
    Devo dire che avevo già letto altri tuoi interessanti (e profondamente ben scritti) articoli su “TCircus”… ma per mille motivi non mi ci sono soffermato, questa volta mi sono imposto di “capire e vedere” e sono giunto dunque qui direttamente nel tuo sito che seguirò….
    Ti rinnovo i complimenti e rilancio con una richiesta/provocazione :
    – cosa ne pensi dei Belli e Dannati ?
    Ultimamente abbiamo avuto esempli più o meno eclatanti di “gesti e comportamenti” da Follia Pura.
    Pur esecrando, giustamente, la cafonaggine, l’arroganza e la maleducazione (che poco hanno di bello e sensato), non trovi che personaggi come Fabio e Nick siano, sotto alcuni di questi aspetti negativi, pur affascinanti ? Come solo un certo tipo di “Brutto” e/o di “Male” riescono a trasmettere ?
    Ciao
    D.

    1. samanthacasella

      Dei Belli e Dannati del circuito penso che al di là dei giudizi a caldo siano, come nel caso dei “non dannati” tutti casi differenti… Personalmente per me l’educazione nella vita è un fattore determinante per ammirare una persona. Non sto dicendo che apprezzo le belle statuine, pure una persona grezza nei modi può essere educata. Il problema principale di Fabio Fognini ad esempio secondo me non è essere una testa calda, è proprio la mancanza di educazione.
      Lo stesso secondo me vale per Adrian Mannarino: quando un giocatore di proposito colpisce con una spallata una ragazzina raccattapalle e per giustificarsi sostiene che in campo ci sono delle precedenze… beh, per me l’ignoranza del gesto è letteralmente legata alla maleducazione.
      Fabio Fognini secondo me ha toccato picchi di maleducazione e squallore che avrebbero meritato mesi di squalifica e ti assicuro che non penso questo in quanto donna che difende ideali femministi, figurati che io nell’attuale caso Weinstein ritengo che tutte le signore attrici che dopo anni e anni si sono scagliate contro il produttore siano al limite del ridicolo nelle loro accuse.
      Per Nick Kyrgios secondo me il discorso cambia in quanto è semplicemente un figlio di questi tempi o peggio, dei social network. Alla base semplicemente un ragazzo viziato, un po’ svogliato, che andrebbe semplicemente preso per quello che è: un incognita dal buon potenziale. Kyrgios può far vedere belle cose e tra i giovani è quello che mi diverte di più. Ci marcia tanto, tutto qui…
      Poi ci mancherebbe a me i giovanotti sembrano un po’ tutti “bulletti”, in un certo senso pure Shapovalov è “gonfio”, non parliamo di Zverev… Sopra le righe è pure Rublev, ma ad esempio secondo me Andrej spesso fa brutte figure per colpa del nervosismo, non certo per maleducazione o perché tronfio… Magari questo mio pensiero è deformato in quanto russo e sono molto vicina al tennis russo, ma per me le racchette spaccate di Rublev o le stupidate di Kyrgios sono di tutt’altra pasta rispetto a tanti episodi negativi che si vedono in giro… Ad esempio, magari mi disprezzerai per questo mio pensiero, ma io mal digerisco le sceneggiate di Del Potro e considero l’operazione santità che lo circonda qualcosa di becero…
      Tu che ne pensi?

  3. davinn67

    No figurati, totalmente d’accordo con te ed il tuo collega Nicola C. , Delpo , da buon sudamericano, è un’altra vittima del bagaglio socio-culturale da finta “indulgenza cristiana” che si porta dietro : quando è osannato, si sente il Cristo portatore di stigmate e ci parla con enfasi del suo Calvario sul campo…. quando invece i tifosi sono per il Re, diventa facile perdere la santità per divenire l’ombra dell’uomo sconfitto. Ma tanto, sa che il perdono è di “default”…. Dio non lo giudica, figurati che glie ne viene che lo giudichino gli uomini.
    Concordo anche sul resto e non senza un lieve ironico sorriso quando penso che dodici anni fa il “bulletto” era Rafa, per le sue orribili t-shirt smanicate, le bandane, per i suoi “vamos” e i gesti esasperati di auto incitamento. Ma quasi mai un neo nel comportamento basilare e nel rispetto per il pubbico, i giudici e gli avversari.
    Gli si è copiata la parte più farsesca. Peggiorando il resto.
    Non so se la Bellezza salverà mai il Tennis, ma quello che più mi preoccupa è che dal mio punto di vista era ed è sempre stato il Tennis a “salvaguardare” e perchè no a rappresentare la Bellezza. Speriamo allora che i “gesti bianchi” possano continuare ad alimentare questo Ouroboros di Tennis-Bellezza/Bellezza-Tennis di cui tanto abbiamo bisogno noi tutti (anche e sopratutto quelli che non lo sanno…).

    p.s.
    E speriamo che Grigor si decida, perché “quelli” invecchiano e noi pure….

Comments are closed.