Jim Clark, l’uomo che sconfisse il tempo

«Guidare bene e il più veloce possibile. Il mio obiettivo si riduce a questo, niente di più e niente di meno». Istinto, talento, velocità, classe, una precisione ed una versatilità alla guida che gli permetteva di spingere fino al limite auto differenti tra loro, spesso ostiche per via delle innovazioni che le contraddistingueva ma, dentro al cui abitacolo, egli pareva modellarsi a loro immagine e somiglianza, plasmandosi al punto da cancellare qualsiasi ostilità per ottenere il meglio a cui, divenuti una cosa sola, pilota e vettura potessero ambire. Jim Clark era questo e forse qualcosa di più ancora. Jim Clark era la Lotus, era la creatura prediletta di Colin Chapman, era il simbolo di un’epoca in cui le auto arrivarono ad essere definite bare volanti e di cui ne divenne martire ed eroe privo di tattica, dove la riflessione, il calcolo non risiedeva nella mente bensì nel piede costantemente premuto sull’acceleratore, affinché il margine di vantaggio sugli inseguitori divenisse sempre più abissale; per poter respirare la solitudine dei numeri primi, nella disperata impresa di battere tutto e tutti, persino il tempo.

JamesJimClark è nato il 4 marzo del 1936 a Kilmany, un piccolo villaggio della campagna scozzese che si affaccia sul mare e alle cui spalle si distendono docili colline coltivate a orzo. Molti di questi ettari di terreno appartenevamo alla famiglia di James, dei ricchi agricoltori che avevano possedimenti pure nei Scottish Borders e desideravano per il loro unico figlio maschio un futuro alla guida dell’attività che aveva fatto la loro fortuna. I loro piani però si sgretolarono un venerdì pomeriggio quando, di ritorno dalle scuole superiori che frequentava ad Edimburgo, Jim si ritrovò nel cortile di casa una Porsche di proprietà di un amico del padre il quale lo invitò a provarla. Fu amore a prima vista.

Tenendo all’oscuro i genitori, tra il 1956 e il 1957 Jim partecipa ad alcune corse organizzate in Gran Bretagna, prima al volante di una Sunbeam, poi di una DKW e in seguito di una Porsche 1600. La passione che Jim Clark nutre per le auto unita al talento cristallino dimostrato sin dagli esordi rendono inevitabile un destino già scritto. A nulla vale l’opposizione della famiglia, nel 1958 Clark prende parte a una serie di eventi nazionali a bordo di una Jaguar D-Type e in uno di essi si ritrova a sfidare in pista persino l’uomo che lo consegnerà alla storia: Colin Chapman. Impressionato dalla velocità e dallo spirito indomito di Jim, il costruttore inglese gli offre la possibilità di provare una sua monoposto ma, nonostante l’ebrezza del momento, Clark rimane turbato da un incidente che avrebbe avuto da lì a poco Graham Hill proprio sulla stessa vettura. Dopo un’attenta riflessione ritiene di non sentirsi pronto per la Formula 1 così nel 1959 decide di ripiegare sulle vetture sport dove, alternandosi alla guida di una Lister Jaguar e di una Lotus Elite, su 106 gare ne vince 49.

L’appuntamento con la Formula 1 si rivelerà semplicemente  rimandato di un solo anno. Il 6 giugno del 1960 in occasione della quarta prova del mondiale al Gran Premio d’Olanda, il binomio tra il 24enne Jim Clark e la storica scuderia Lotus di Colin Chapman da vita a quello che si rivelerà essere uno dei legami più profondi e vincenti della storia della Formula 1. Nell’arco della stagione non solo Jim Clark riuscirà a raccogliere due quinti posti e un podio come terzo classificato al Gran Premio del Portogallo a Oporto, parallelamente disputerà, vincendo due campionati britannici di Formula Junior.

L’anno dopo il regolamento della F1 ridusse la cilindrata dei motori delle monoposto da 2.500 a 1.500 cc. e il Team Lotus ebbe serie difficoltà di adattamento. Ad ogni modo, Clark rafforzò la propria fama di pilota velocissimo raggranellando due terzi e un quarto posto; ma un incidente che lo vide coinvolto al primo giro del Gran Premio di Monza, quando la sua Lotus ebbe una collisione con la Ferrari di Wolfgang von Trips la quale uscì di pista causando la morte del tedesco e di 15 spettatori, gli appiccicò addosso il cartellino di “pilota spericolato”.

In realtà Jim tutto era tranne che imprudente. Lo scozzese, era semmai un pilota straordinariamente istintivo e, come spesso avrebbe sottolineato Chapman, ambiva costantemente ad avvicinarsi al limite rappresentato dal rapporto rischio-prestazione. Non a caso l’aspetto che più lasciava allibiti nel suo stile di guida era la scioltezza, la precisione.

Nel campionato del 1962 Clark battezza la nuova Lotus 25, prima vettura di F1 con telaio monoscocca talmente essenziale da sembrare “cucita attorno a lui” al punto che a fine campionato verrà soprannominata Jim 25. La prima vittoria di Jim Clark si registra al Gran Premio del Belgio sul circuito di Spa-Francorchamps dove, dopo aver studiato il circuito nei primi cinque giri supera quattro avversari in un solo giro per andare a vincere indisturbato. Dopo di che si impose ad Aintree, in Gran Bretagna, e mise tutti in riga sa Watkins Glen, negli Stati Uniti. Per conquistare il titolo iridato, Clark avrebbe dovuto vincere anche l’ultimo Gran Premio della stagione ma, dopo aver dominato per 60 giri, una perdita d’olio lo costrinse al ritiro. E così, mentre Graham Hill poté incamerare il suo primo mondiale, un Chapman furioso accusò la Coventry Climax di non aver serrato con cura un bullone.

In verità, il mondiale sfumato fu con ogni probabilità la conseguenza di quattro ritiri attribuibili alle carenze di Clark come collaudatore. Lo scozzese possedeva infatti una innata capacità di adattarsi pure alle vetture meno guidabili da impedirgli di rilevare eventuali difetti. Allo stesso tempo la scuderia lamentò lacune nell’offrire un aiuto concreto nella messa a punto: affidare a Clark un’auto imperfetta significava solo fare sì che spontaneamente egli ne compensasse i difetti per poi iniziare a macinare tempi sempre migliori, vanificando i test, e soprattutto presentandosi alle competizioni con auto se non insicure, instabili. Furono questi doni, queste contraddizioni, questa assoluta e commuovente unicità a conquistare Colin Chapman il quale divenne un interprete con i meccanici delle sensazioni che percepiva la sua creatura in pista.

Questo micidiale binomio sbaragliò tutto e tutti nel 1963. Dopo il primo Gran Premio andato a vuoto, delle restanti 9 gare Jim Clark ne vinse 7 e nel mezzo afferrò un secondo e un terzo posto. La superiorità fu tale che segnò il massimo di punti ottenibile in base alle regole vigenti, che contavano solo i migliori sei piazzamenti stagionali e non gli venne contata una delle sette vittorie ai fini del punteggio. Tali risultati dettero alla Lotus il primo successo nel Campionato del Mondo piloti e nella Coppa Costruttori.

La stagione successiva non fu altrettanto soddisfacente per Jim che, pur vincendo tre Gran Premi, incorse in altrettanti ritiri a causa di costanti problemi meccanici e dovette accontentarsi di chiudere il mondiale al terzo posto assoluto. Eppure, fu con il numero 1 sul musetto che la leggenda di Clark esplose contagiando il mondo intero. A Monaco, mentre era in testa, la sua Lotus subì la rottura della barra stabilizzatrice posteriore provocandogli un fastidioso sovrasterzo in entrata di curva e un leggero sottosterzo in uscita, al che Clark pose rimedio al problema accelerando violentemente a metà delle curve. In queste condizioni, al 27esimo giro, segnò il miglior tempo fino a quel momento, ma al 36esimo gli venne imposto di fermarsi ai box in quanto la barra aveva assunto una posizione pericolosa. Rimossa la barra, Jim, si mise a caccia di chiunque lo precedeva ma a tre tornate dalla fine a cedere fu il motore troppo stressato nel tentativo di rimonta. Venne classificato al quarto posto ma da quel giorno, chiunque fosse a vincere una gara, chiunque fosse a mettere le mani sul mondiale, il migliore per tutti divenne categoricamente lui.

Non era questo il suo fine. Jim Clark non inseguiva la fama, anzi, la sua timidezza, la sua riservatezza, lo resero un “oggetto misterioso”. Certo, era ambizioso, ma questo aspetto del suo carattere era strettamente associato all’auto che doveva guidare fino al traguardo. Perciò, in qualsiasi posizione si trovasse, lo scozzese non era un inseguitore, bensì un fuggitivo solitario il cui unico avversario riconosciuto dalla sua indole era il tempo.

Chiuso il 1964 con una vittoria al British Turing Car Championship con una Ford Cortina Lotus e un pauroso incidente a Indianapolis per la rottura di un mozzo; di tutt’altro spessore fu il Campionato del Mondo del 1965, che lo vide iridato con tre Gran Premi d’anticipo grazie a 6 vittorie complessive e consecutive quanto a partecipazioni dato che saltò il Gran Premio di Monaco per volare negli Stati Uniti dove scrive un’altra pagina di storia. Il 31 maggio del 1965, ovviamente guidando una Lotus, Jim Clark si impone sugli yankee Rufus Parnelli Jones e Mario Andretti e diventa il primo pilota al volante di una vettura a motore posteriore, nonché primo trionfatore europeo e unico uomo capace di vincere il mondiale di F1 e la 500 Miglia di Indianapolis nello stesso anno – tra l’altro dominando 190 dei 200 giri -. Nessuno avrebbe mai creduto o anche solo immaginato che quella stagione spettacolare – con tanto di copertina riservatagli il 9 luglio dal “Time” – avrebbe rappresentato l’apice della sua carriera.

Quanto mai in salita si rivelò infatti l’annata ’66 dove riuscì ad imporsi solo nel Gran Premio degli Stati Uniti. L’innalzamento della cilindrata da 1.500 a 3.000 centimetri cubici trovò infatti la sua Lotus fortemente impreparata. Nonostante 5 ritiri, nel 1967 Clark mise invece tutti in fila in 4 Gran Premi; i quali gli avrebbero garantito il terzo posto nella classifica generale di fine stagione, ma soprattutto lo resero ineguagliabile quanto a classe, carisma e popolarità. Storica rimane la vittoria nell’Autodromo Hermanos Rodríguez, in Messico, dove tagliò primo il traguardo su tre ruote avendone persa una all’ultimo giro; nonché la rimonta forse più fenomenale della storia della Formula 1 compiuta a Monza quando; costretto a inizio gara a una sosta ai box per cambiare una gomma forata, tornò in pista da doppiato, per quindi abbassare ripetutamente i record sul giro, sdoppiarsi, portarsi in testa finché, a nemmeno un giro dalla bandiera a scacchi, restare senza benzina, e nonostante ciò riuscire a trascinare la propria Lotus fino al terzo posto.

Onorato dall’onorificenza dell’Ordine dell’Impero Britannico; il 1968 dello scozzese vede la luce con la vittoria al Gran Premio del Sud Africa. Jim ancora non lo sa, non può saperlo, ma quel giorno avrebbe scritto la parola fine alla sua fulminante carriera in Formula 1; contrassegnata da 72 Gran Premi disputati, 25 dei quali vinti, oltre a 33 pole position e il record di 8 Grand Chelem, ovvero i Gran Premi in cui si ottiene la vittoria stando sempre al comando oltre ad aver segnato la pole e il giro più veloce in gara.

Considerando l’assuefazione che Jim Clark nutriva per le corse al punto da spingerlo, nei mesi invernali, fino in Oceania per partecipare alla Tasman Series – che vinse tre volte – non c’è da stupirsi se decise di ovviare ai quattro mesi di pausa previsti dal campionato di Formula 1 partecipando ad altri eventi. Non fosse stato per un aspro contenzioso legale avviato dal fisco inglese, avrebbe preso parte alla 500 miglia di Brands Hatch; quell’intralcio però lo dissuase a volare in Germania, ad Hockenheim dove, per la prima volta, lamentò un abitacolo troppo stretto e scomodo. D’altronde le prove furono disastrose. Un meccanico avrebbe raccontato che, quando gli disse qualcosa riguardo alla pioggia caduta tutta la notte, lo scozzese non rispose, forse addirittura non sentì. D’altronde, Jim Clark non era mai ripiegato sul passato, non era solito pensare nemmeno al futuro, la sua dimensione era il presente.

È il 7 aprile 1968. L’ottavo tempo nelle qualifiche per Jim Clark equivale a un’onta a cui porre rimedio al più presto possibile, il più veloce possibile. Quanto alla pioggia, stava ricominciando a cadere, leggerissima. La tragedia si abbatte al quinto giro quando, al termine del rettilineo del traguardo Clark perde il controllo della sua Lotus mentre sta impostando la prima curva a destra. A nulla valgono una serie di disperati tentativi di domarla: ormai fuori controllo la Lotus s’invola a oltre 200 Km/h verso l’esterno della curva, in direzione di alcuni alberi. La scena che si presenta sotto agli occhi dei primi soccorritori è orribile: i detriti disseminati nel raggio di venti metri, la parte posteriore dell’auto staccata da quella anteriore e ripiegata su se stessa mentre a un’altezza di 5 metri da terra su un albero, un’ammaccatura inconfondibile, il punto in cui il casco di Clark era andato a sbattere durante il volo. All’arrivo dei medici il suo cuore batte ancora, ma clinicamente ormai Jim Clark non c’é più.

Seppure ufficialmente si parlò di una foratura della gomma posteriore destra, le cause dell’incidente non furono mai accertate e, se si escludono due teorie a volte citate, ossia un inverosimile colpo di vento laterale o un improbabile bambino scappato ai genitori intento ad attraversando la pista, l’ipotesi più verosimile rimane quella del cedimento meccanico. Stando alle parole di Fred Gamble, all’epoca direttore del settore sportivo della Goodyear, casa rivale della Firestone: «Jim Clark perse la vita a causa della rottura della sospensione posteriore destra. Alla Lotus era un fatto ricorrente e per lo stesso problema, sei anni prima, era morto Ricardo Rodriguez. La Firestone accettò di prendere la colpa per fare un favore a Colin Chapman».

Quando a Los Angeles giunse la notizia della sua scomparsa era pieno giorno e un noto disc-jockey di una radio interruppe la musica per dare la notizia e aggiungendo: «Se come me siete addolorati per la morte di Jim Clark, allora accendete i fari delle vostre auto». Leggenda vuole che mai come quel mattino, la città degli angeli sia stata invasa da tanta luce.

A dimostrazione di come Clark abbia fatto propria qualsiasi sfida a cui ha partecipato, persino quella con la morte; la triste mietitrice pure essa incapace di sminuirne la magica parabola o tanto meno di eclissarne la stella, di estinguerne un ricordo destinato a perdurare e a tormentare Colin Chapman per il resto della vita, perché il suo pupillo si era ormai trasfigurato in qualcosa di oltre al suo stato terreno, era divenuto un simbolo; incarnava il sogno che sfiora qualsiasi essere umano, quello di sfidare il tempo e di provare, fosse solo per un istante, l’illusione di averlo battuto.