Vincent van Gogh, l’insostenibilità della vita

Paesaggi arcadici, idilliaci, rassicuranti, seppure spesso solo all’apparenza, perché quei campi, quelle vallate, sono a loro volta la sintesi di un’anima visionaria, accecata da un’angoscia inesprimibile a parole; una preghiera di pace che si innalza insieme a monumentali cipressi, un desiderio di bellezza eterna, di una speranza che fiorisce insieme a un ramo di mandorlo, perché sullo sfondo, laggiù dove l’immaginazione supera la vista sono pronte a insinuarsi le linee ondulate delle colline, il cielo attraversato da vortici, le stelle simili a sfere di fuoco. Girasoli mitizzati nelle fasi che accompagnano il bocciolo all’appassimento. Il ciclo eterno della vita e della morte. La sua camera, spartana, priva di ombre, le pareti e il pavimento inclinati, quasi fossero sul punto di crollare, la prospettiva volutamente sbagliata. Un campo  di grano sconquassato dal vento, schiacciato sotto il peso del cielo, color blu cobalto, offuscato dall’intenso colore nero delle nubi che, inesorabilmente, si calano ostili e minacciose insieme a uno stormo di corvi in un basso volo disordinato, quasi come se fossero avvoltoi su un cadavere. Autoritratti dove lui, Vincent Van Gogh, utilizza il pennello per scavare tra i meandri della propria identità, mettendone a fuoco gli impulsi più segreti e inaccettabili, esasperandone la crisi esistenziale; legando in modo indissolubile il tormento alle sue creazioni.

Risalgono alla metà del XVII secolo le prime notizie della famiglia van Gogh in quanto a l’Aia si trasmisero di padre in figlio il mestiere di orefice finché, ai primi del 1800, tale Vincent van Gogh non oppose resistenza al richiamo della fede divenendo un prete calvinista padre di undici figli tra cui Theodorus, a sua volta pastore e residente presso un villaggio di circa 6.000 abitanti del Brabante, poi sposatosi la figlia di un facoltoso rilegatore di libri della corte olandese residente a Zundert, tale Anna Cornelia Carbentus, con cui avrebbe generato Vincent Willem Maria che, tuttavia, il 30 marzo 1852 venne partorito morto.

Triste coincidenza ha voluto che, esattamente un anno dopo, il 30 marzo del 1853, a Zundert, la coppia avrebbe gioito del primo figlio, battezzato Vincent Willem in ricordo del defunto fratellino. Sarebbero seguiti altri cinque figli: Anna Cornelia, Théodorus Junior ben presto denominato semplicemente Théo, Elisabeth, Wilhelmina Jacoba e Cornelis.

Il primo approccio scolastico di Vincent avvenne alla scuola del paese per poi frequentare un collegio nella vicina Zevenbergen dove apprese il francese, l’inglese e il tedesco; mostrando inoltre un’ottima mano per il disegno. Nel 1866 si iscrisse all’Istituto Hannik di Tiburg, ma lo scarso rendimento e i momentanei problemi economici del padre, costrinsero Vincent a rincasare senza aver nulla in mano. La famiglia si mise nelle mani di “Cent”, uno zio paterno mercante d’arte, il quale raccomandò il giovane Vincent alla filiale dell’Aia della Goupil & Co, una notissima casa d’arte specializzata nella riproduzione di stampe e nella vendita di opere della scuola dell’Aia o dei pittori di Barbizon. L’entusiasmo con cui Vincent si avvicinò a questo impiego lo stimolò ad approfondire tematiche culturali e artistiche, così come a riprendere in mano quella matita che da bambino consisteva in uno dei suoi svaghi principali.

I “Girasoli” sono tra i soggetti preferiti da Vincent van Gogh. Questa versione è visibile presso la “National Gallery” di Londra.

Pur mantenendosi in contatto con i genitori, che nel frattempo si erano trasferiti a Helvoirt; è dal 1871 che ebbe inizio l’assidua corrispondenza letteraria con il fratello Théo che, a l’Aia, stava muovendo i primi passi per diventare mercante d’arte. Dirottato dalla Goupil & Co prima a Bruxelles, poi a a Londra, prima di imbarcarsi per la Gran Bretagna Vincent fa in tempo a compiere un breve viaggio a Parigi dove rimase affascinato dalla bellezza della città e dai fermenti culturali ed artistici al punto da disegnare alchili schizzi di cui ne sarebbe rimasto solamente uno, rovistassimo, e scoperto nel 1977 raffigurante la casa dove aveva soggiornato.

Partito con grandi aspettative, Londra si rivelò una parentesi infelice e resa ancora più difficile dalla prima delusione amorosa, verificatosi nel momento in cui Ursula, la figlia delle proprietaria della pensione dove l’olandese risiedeva e per cui provava un’ardente infatuazione, ne rifiutò le avance in quanto già fidanzata. La crisi depressiva di cui iniziò a soffrire non si alleggerì neanche quando chiese e ottenne di essere reintegrato nella sede di l’Aia, provocando un tale dissenso da parte di superiori e colleghi indispettiti per la sua costante aria assente e disinteressata da provocare l’intervento dello zio “Cent”, prontissimo nell’allocarlo nella succursale parigina. Svogliato nei processi di vendita, che era solito adempire tenendo una Bibbia in mano,  nell’aprile del 1876 i dirigenti della Goupil & Co. ne ebbero abbastanza ed, esausti, lo licenziarono.

Incapace di togliersi Londra, ma forse ancor più Ursula, dal cuore, il 16 aprile del 1976 Vincent partì per Ramsgate, un sobborgo industriale della capitale inglese, dove venne assunto come supplente presso la scuola del reverendo metodista William Port Stokes. Nonostante lo stipendio fosse limitato al solo vitto e alloggio, Vincent poté dare libero sfogo al quel misticismo religioso che di anno, in anno, si era diffuso in ogni fibra della sua essenza. In ottobre pronunciò il suo primo sermone ispirandosi al dipinto di BoughtonPellegrino sulla via di Canterbury al tempo di Chaucer” da cui estrapola l’essenza dei valori francescani rapportandolo alla storia di un immaginario viandante che, durante il cammino, incontra una donna e le chiede se la strada per raggiungere il monte che si staglia in lontananza è sempre in salita e se per raggiungerla impiegherà tutto il giorno; al che lei risponderà che non solo è in salita ma durerà giorno e notte. Non solo, van Gogh chiuderà l’omelia definendo il pellegrino «afflitto ma sempre lieto»;  frase desunta dalla seconda lettera dei Corinzi che compare spesso nelle lettere inviate a Théo in quel periodo.

Tornato in famiglia per Natale, i genitori rimasero allibiti dalle precarie condizioni psicofisiche del figlio maggiore e, preoccupati nel pensarlo ripartire per la Gran Bretagna, chiesero di nuovo aiuto a “Cent” che gli reperì un lavoro da commesso presso la libreria “Blussé & Van Braam” nella vicina Dordrecht. Vincent accettò di buon grado, ma anziché occuparsi delle mansioni che gli venivano attribuite, si chiuse nel retrobottega dove iniziò a tradurre la Bibbia in francese e in tedesco.

A suon di suppliche, Vincent convinse il padre a lasciargli tentare gli esami di ammissione alla facoltà di teologia di Amsterdam, dove andò a vivere nell’abitazione di uno zio paterno e conobbe anche un fratello della madre, disponibile ad impartirgli lezioni di latino e greco. Respinto agli esami di ammissione, il padre tirò probabilmente un sospiro di sollievo, ma l’atteso ritorno all’ovile di quel figliolo non proprio prodigo, venne rimandato dato che nel 1878 Vincent frequentò un corso trimestrale di evangelizzazione; al quale tuttavia fu ritenuto non idoneo al passaggio del seguente step che gli avrebbe permesso di svolgere l’attività di predicatore laico. Tra insistenze sollevate a suon di buoni propositi; Vincent ottenne però un incarico semestrale dalla Scuola Evangelista di Bruxelles che lo spedì a Wasmes, una regione carbonifera belga dove i lavoratori vivevano in condizioni di estrema miseria. Lì, van Gogh dormiva in una baracca decadente dove in un angolo aveva radunato un po’ di paglia da utilizzare come giaciglio, prendendosi cura dei malati e predicando la Bibbia ai minatori.

“La ronda dei carcerati” è un’opera che Vincent van Gogh ha creato a Saint-Rémy nel febbraio del 1890, a pochi mesi dalla morte. È esposta la Museo Puškin di Mosca.

Questo eccesso di devozione indispettì i suoi superiori perciò, scaduti i sei mesi di prova, non gli rinnovarono il contratto di catechista. Nessuno riuscì però a convincerlo a riavvicinarsi ad uno stile di vita più dignitoso perché anziché tornare in Olanda si fermò a Cuesmes, dove visse con un minatore del luogo, curando personalmente i feriti delle esplosioni e, ovviamente, sempre predicando. Preoccupato dalla piega che stava prendendo la vita del fratello, Théo lo sollecitò affinché coltivasse i propri talenti.

Ebbene, van Gogh non aveva mai propriamente né abbandonato, né approfondito con corsi o letture di manuali, la propria vocazione pittorica; per questo – forse anche perché felice in seguito ai calorosi incoraggiamenti dei genitori disposti a tutto pur di vederlo uscire da quelle deliranti crisi mistiche – si immerse in diversi studi da autodidatta in modo da familiarizzare con il disegno prospettico e anatomico.

Nel 1881 si ripresentò a casa dai genitori, in quel di Etten, dove la quiete andò in frantumi dal giorno in cui sopraggiunse una cugina Cornelia, detta “Kee” che, rimasta vedova da poco, catturò il cuore di Vincent. Il colpo di fulmine non fu però reciproco e Vincent, offeso dagli appunti che il padre gli muoveva in quanto riteneva patetici i suoi asfissianti corteggiamenti, si recò a l’Aia per concentrarsi sulla pittura e, forse ancor di più, sulla strategia da muovere riguardo alla proposta di matrimonio che nell’autunno del 1881 avrebbe fatto a “Kee”. Il rifiuto, per quanto logico, fu per Vincent inaspettato e il procurarsi un’ustione alla mano sulla fiamma di una lampada, più che una dimostrazione d’amore, venne interpretata dalla famiglia come un segno di forte squilibrio.

Seppur attraversato da pensieri suicidi van Gogh dipinse una “Natura morta con cavolo e zoccoli “e una “Natura morta con boccale di birra e frutta”. Alleggerito dall’aiuto economico elargitogli dal fratello, Vincent prese domicilio a l’Aia dove, da lì poco, avrebbe iniziato una relazione con Christine Clasina Maria Hoornik, detta “Sien”; una prostituta alcolizzata, butterata dal vaiolo, madre di una bambina e in attesa di un altro figlio. Seppure contrasse la gonorrea, Vincent volle vedere in quella convivenza una sorta di missione in quanto, per un certo periodo, riuscì addirittura a levare “Sien” dalla strada. La presenza di quattro bocche da sfamare senza alcuna entrata economica rese però la situazione insostenibile. La ricaduta della donna nella prostituzione convinse Vincent che era giunto il momento di cambiare aria e, spronato da un richiamo artistico quanto mai positivo, andò a vivere nella Drenthe, dove ritrasse i contadini della regione mentre sono intenti nel duro lavoro.

“I mangiatori di patate” è un olio su tela realizzato da Vincent van Gogh nell’aprile del 1885. È possibile ammirarlo visitando il “Van Gogh Museum” di Amsterdam.

I dubbi che l’artista avvertiva riguardo alla potenziale accoglienza che gli avrebbero riservato i genitori una volta tornato a casa; lì esplicò in una lettera a Théo e, per quanto sovente incapace di valutare con raziocinio svariati avvenimenti quotidiani, in quel caso la sua sensazione corrispondeva al vero. Le liti con il padre fecero in effetti parte della routine quotidiana ma, a Nuenen, Vincent riuscì a trovare stimoli visivi e interiori tali da spingerlo a realizzare quasi 200 quadri e numerosi acquerelli. Protagonisti di queste opere sono il villaggio e i suoi lavoratori, in primo luogo i contadini, ai quali dedicò “I mangiatori di patate”; che così descrisse: «Ho voluto far capire come questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute». Il solo dipinto difficile da contestualizzare è il lugubre “Teschio con sigaretta accesa”.

In un certo senso Vincent iniziò pure a vedersi riconosciuto il valore della propria arte il gioielliere Charles Hermans gli commissionò diversi soggetti decorativi legati al ciclo delle stagioni e il commerciante di colori Leurs arrivò persino ad esporre alcune sue opere nella vetrina del suo negozio a l’Aia. Questo, nonostante la gente del posto lo guardasse con estremo sospetto,  soprattutto dopo le insinuazioni del parroco di essere responsabile della gravidanza di una giovane contadina, Gordina De Groot. Come se non bastasse in quegli anni andò in fumo l’ennesimo fidanzamento, questa volta con  donna con una donna del villaggio, Margot Begemann, la quale tentò di avvelenarsi, mentre – dopo una caduta che le procurò la frattura di una gamba – la salute della madre ebbe un lento ma graduale peggioramento. Il colpo più grande, Vincent lo incassò il 26 marzo del 1885 quando, dopo un violento alterco, il padre morì, stroncato da un insulto apoplettico a soli 63 anni.

Vincent tentò di placare i propri tumulti interiori per via artistica dando vita alla “Natura morta con Bibbia” ma, il divieto lanciato ai parrocchiani del nuovo pastore di non posare per Vincent, lo convinse del fatto che la permanenza a Nuenen era ormai giunta al capolinea. Trasferitosi in una pensione ad Anversa; se un tempo rimase molto colpito dall’arte rinascimentale e da pittori quali Holbein e Rembrandt; altrettanto importante fu la ricezione delle stampe giapponesi che scoprì vagabondando nel quartiere portuale della città. Respinto dal mondo accademico che – in occasione di un concorso promosso per gli studenti del corso della Scuola di Belle Arti, da Vincent frequentato saltuariamente – fece passare i dipinti da lui presentati come l’operato di un imbrattatele; l’autostima di Vincent non migliorò quando venne informato dalla madre che un rigattiere del paese aveva acquistato una serie di dipinti rimasti nello studio al prezzo di 10 centesimi l’uno.

Ad ogni modo, Vincent van Gogh concepì il soggiorno ad Anversa come un intermezzo necessario per addolcire la transizione dalla realtà gretta di Nuenen all’atmosfera cosmopolita di Parigi. Ricongiuntosi a Théo, il miglioramento dei loro rapporti lo invitò a produrre dipinti più gioiosi, con gamme cromatiche più leggere e luminose. Desideroso di migliorarsi, si accostò all’atelier di Fernand-Anen Piestre, detto Cormon, – nel cui studio conobbe Emile Bernard e Toulouse-Lautrec – mentre grazie all’intercessione del fratello strinse amicizia con Monet, Renoir, Degas, Pissarro, Sisley, Seurat e Signac – insieme a cui andò a lavorare ad Asnières sulla riva della Senna rigorosamente en plein air – ma ancor più con Julien Tanguy, mercante che gli commissionò due ritratti. All’inverno 1886 risale invece l’incontro con Paul Gauguin e l’inizio della relazione con Agostina Segatori, proprietaria del l Café du Tamburin; in futuro immortalata in un ritratto.

Nel 1887, Théo gli organizzò una mostra presso il Restaurant du Châtelet ma, l’uso smodato di alcool e la reciproca irritabilità, incanalò la loro convivenza verso la scelta di Vincent di intraprendere un viaggio nel meridione francese. Giunto ad Arles prese immediatamente in affitto una camera nella pensione Carrel. Se l’inverno, particolarmente freddo e nevoso, lo limitò in produttività, quando giunse la primavera prese in affitto l’ala destra della Casa Gialla” – una delle abitazioni più famose della storia dell’arte – e dipinse in uno stato febbrile circa 200 dipinti e un centinaio di altre opere tra disegni e acquerelli.

Noto per i suoi paesaggi, Vincent van Gogh considerava ii ritratti «l’unica cosa in pittura che mi emoziona nel profondo e che mi fa sentire più infinito di ogni altra cosa». Quasi mai nelle condizioni di poter usufruire di soggetti per assenza di denaro, tra il 1886 e il 1889 van Gogh ripiegò alla mancanza eseguendo 37 autoritratti, tutti graffiati da una profonda penetrazione psicologica che permette all’osservatore di distinguere le inquietudini, le tenebre che ne opprimevano l’anima.

Datate “Arles, 1888” sono dunque “La sedia di Vincent”; La camera di Vincent ad Arles” – di cui avrebbe terminato tre versioni – “Il caffè della notte”, “Terrazza del caffè la sera”; “Place du Forum Arles”; il suggestivo “Notte stellata sul Rodano” e la seconda serie dei “Girasoli”; in questa circostanza non più con lo stelo reciso e i petali martoriati bensì capaci di trasmettere calore, luce, persino uno spiraglio di speranza.

Esistono tre versioni di “La camera di Vincent ad Arles” e sono rispettivamente esposte al “Van Gogh Museum” di Amsterdam, ak “Art Institute of Chicago” e al “Musée d’Orsay” di Parigi.

Alleggerito nello spirito, l’idealismo di van Gogh rivisse nella Casa Gialla” che la trasfigurò nella dimora perfetta dove far sorgere l’Atelier du Midi; una comunità solidale di artisti desiderosi di spogliarsi da qualsiasi schema per vivere in concordia e, in questo modo, lottare per una pittura e un mondo migliore. I primi colleghi che Vincent cercò di accattivarsi furono Bernard e, principalmente, Gauguin, il quale però era tutt’altro che attratto dalla metafora dell’artista-santo. Laddove non arrivarono le suppliche di van Gogh, lo fece il denaro di Théo che, con la promessa dell’affitto pagato e l’acquisto di 12 quadri all’anno alla cifra di 150 franchi, s’imbarco nell’avventura di Arles, se non altro consapevole di poter mettere da parte quanto gli era necessario per realizzare il suo desiderio di trasferirsi, di lì a un anno, in Martinica. Resta il fatto che, appena mise piede ad Arles, Gauguin ne rimase talmente deluso da definirla «il luogo più sporco del Mezzogiorno della Provenza» per quindi considerare «mortificante per la sua maturazione pittorica» la convivenza con un personaggio singolare come Vincent, di cui non approvava il disordine eccessivo e la totale inadeguatezza nell’amministrare il denaro.

Nei primi giorni di dicembre del 1888 Gauguin ritrasse van Gogh nell’atto di dipingere i girasoli ma, spiazzato dal risultato Vincent commentò: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Nelle sue memorie Gauguin riportò che quella sera stessa i due pittori bevvero molto e di punto in bianco Vincent scagliò il proprio bicchiere contro il viso di Gauguin che riuscì a evitarlo per un soffio. Dopo quell’episodio seguirono giorni di tensione, fino a quando, nel pomeriggio del 23 dicembre, dopo un acceso litigio van Gogh rincorse per strada Gauguin con un rasoio per poi rinunciare ad aggredirlo quando il francese voltò per affrontarlo. Tornato in albergo, Gauguin fece i bagagli in fretta e furia mentre van Gogh, in preda a spaventose allucinazioni, si tagliò il lobo dell’orecchio sinistro per poi avvolgerlo nella carta di giornale e consegnarlo come “regalo” a Rachele, una prostituta del bordello che i due pittori erano soliti frequentare. A testimonianza di questa pazzia Vincent realizza “Autoritratto con l’orecchio bendato

La mattina seguente, alla polizia non rimase altro da fare che farlo ricoverare in ospedale dove, grazie alle amorevoli cure del dottor Félix Rey, van Gogh superò i giorni più critici per quindi essere dimesso dalla struttura il 7 gennaio del 1887. Di ritorno alla “Casa Gialla”, l’artista ricevette il sostegno di Joseph Roulin, un uomo imponente e gioviale «con una grande barba, molto simile a Socrate», e di Théo, immediatamente giunto a Marsiglia. Pur sentendosi in forza e desideroso di tornare al lavoro, la ricaduta non si fece attendere e, il 9 febbraio, ebbe una crisi di panico durante cui sostenne che qualcuno di indefinito volesse avvelenarlo. Ricoverato giusto qualche giorno, non solo la “Casa Gialla” tornò ad essere il luogo su cui riversare il proprio disagio, Vincent van Gogh si aggirava inquieto anche per le strade di Arles e 30 cittadini si fecero avanti firmando una petizione dove si richiedeva l’internamento in manicomio del «rosso pazzo».

L’intervento di Signac riportò alla ragione la gente ma, allo stesso tempo, Vincent van Gogh comprese di essere malato sia fisicamente che spiritualmente e perciò, dopo l’ennesimo scompenso emotivo, l’8 maggio 1889 entrò volontariamente nella Maison de Santé, un vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico a Saint-Rémy-de-Provence dove, gli venne messa a disposizione una camera per dormire – la finestra sbarrata proponeva una vista sul giardino della clinica, al di là di esso i campi e, più lontano ancora, le montagne delle Alpilles – e un’altra stanza in cui poter lavorare. Alla base, le sole cure a cui era sottoposto consistevano in due bagni settimanali e, se accompagnato da un sorvegliante, poteva andare a dipingere anche fuori dal manicomio.

Dopo aver esaudito il desiderio di una sorella che gli chiese alcune versioni più piccole del “Campo di grano con cipressi” Vincent decise di riproporre lo stesso albero in diverse opere come “Cipressi con le Alpilles sullo sfondo” , “Cipressi”, “Cipressi con due figure “, “Strada con cipressi e stella“. In una lettera a Théo definì i cipressi «Belli come obelischi egizi»: Noto per svettare maestosamente nel cielo, dominando il paesaggio con la sua statuaria verticalità; ad ammaliare van Gogh fu probabilmente la luttuosa simbologia che gravita intorno al cipresso: «Il cipresso rappresenta la macchia nera in un paesaggio sotto il sole, ma è una delle note nere più interessanti, fra le più difficili tra quelle che posso immaginare».

Un violentissimo attacco allucinatorio, forse conseguenza del matrimonio tra Théo e Johanna Bonger; lo lasciò in uno stato di profonda malinconia a cui reagì dando vita a due tra i suoi più celebri capolavori: “Notte stellata” – oggi esposta al Museum of Modern Art di New York – e la “Notte stellata sul Rodano”. Del febbraio del 1890 è invece l’affascinante ”Ramo di mandorlo in fiore“; regalato al fratello Théo e alla sua moglie Johanna in occasione della nascita del loro figlio Vincent Villem; così chiamato proprio in onore dello zio e padrino.

Datato 1889 e considerato uno dei capolavori di Vincent van Gogh, “Notte stellata” è esposto presso il “Museum of Modern Art” di New York.

Forse Vincent non si rese mai conto che il suo contributo alla pittura avrebbe scritto pagine di storia dell’arte; di certo le esposizione avvenuta a Bruxelles presso l’associazione “Les XX”, seguita da una mostra di pittori indipendenti inaugurata a Parigi dal Presidente della Repubblica; gratificò il genio olandese che, rincuorato anche dall’imminente dimissione, alleggerì i temi delle sue tele proponendo rose e iris su un fondo uniforme. Eppure, ad ammaliare del suo stile sarebbero comunque stati i colori carichi, pastosi, spesso appiccicandoli uno sopra l’altro finché i pigmenti erano ancora umidi, distesi con pennellate ruvide, a piccoli tocchi ravvicinati, nervosi.

Lasciato definitivamente Saint-Rémy per raggiungere il fratello a Parigi, dopo appena cinque giorni, il 21 maggio 1890, si stabilì ad Auvers-sur-Oise un villaggio a una trentina di chilometri dalla capitale. Preso alloggio nel caffè-locanda gestito dai coniugi Ravoux, nella piazza del Municipio, Vincent van Gogh divenne amico di Paul-Ferdinand Gachet, un omeopata e darwinista con cui era solito confrontarsi in lunghe conversazioni e che finì per fissare in uno dei suoi ritratti più famosi.

Negli ultimi quattro mesi di vita Vincent creò il “Giardino di Daubigny“, la “Chiesa di Auvers”, un’insolito “Ronda dei carcerati” – conservato presso il Puskin Miseum di Mosca -; il “Paesaggio con cielo tempestoso”, e il “Campo di grano con volo di corvi” al cui proposito scrisse a Théo: «Anche se il pennello mi casca quasi di mano ho dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l’estrema solitudine».

La domenica sera del 27 luglio 1890, di ritorno da una passeggiata nelle campagne che circondavano il paese, Vincent van Gogh rientrò sofferente nella locanda e si nascose in camera. Ravoux, non vedendolo a pranzo, salì in camera dall’ospite trovandolo disteso e sanguinante sul letto: gli confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto in un campo vicino. Al dottor Gachet – che, non potendo estrarre il proiettile, si limitò ad applicare una fasciatura – rispose che aveva tentato con coscienza il suicidio e che, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto «riprovarci»; in quanto «volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca». Rifiutatosi di dare spiegazioni del gesto sia ai gendarmi che al fratello Théo – subito accorso –  Vincent van Gogh trascorse tutto il 28 luglio fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto affermando a intervalli regolari che «la tristezza non avrà mai fine». In tarda serata, dopo aver pronunciato le enigmatiche parole «ora vorrei ritornare», Vincent ebbe un accesso di soffocamento e, persa conoscenza, morì quella notte stessa, verso l’1:30 del 29 luglio.

In tasca gli trovarono una lettera non spedita a Théo, dove aveva scritto: «Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l’inutilità. Per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione». Essendo morto suicida, il parroco di Auvers si rifiutò di benedirne la salma, e il carro funebre fu fornito da un municipio vicino. La vicina cittadina di Méry, comunque, acconsentì alla sepoltura e il funerale si tenne il 30 luglio. Van Gogh venne adagiato in una bara rivestita da un drappo bianco e ricoperta da mazzi di fiori, dai girasoli che amava tanto, dalle dalie e da altri fiori gialli. Oltre a Théo e al dottor Gachet furono presenti pochi amici giunti da Parigi: Lucien Pissarro, figlio di  Camille, Emile Bernard e Tangy.

Frastornato dalla morte del fratello, pochi mesi dopo anche Théo van Gogh, venne ricoverato in una clinica parigina specializzata in malattie mentali. Successivamente un apparente miglioramento, Théo si trasferì a Utrecht dove, nuovamente perseguitato dai sensi di colpa, il 25 gennaio del 1891 si spense. Nel 1913, quando ormai la grandezza di Vincent van Gogh stava per essere riconosciuta a livello mondiale, pur temendo che il dramma nella vita dell’artista mettesse in ombra il suo lavoro, Johanna rese pubbliche il corpus delle lettere che i due fratelli si scambiarono tra il 1872 e il 1890: più di 600 da Vincent a Théo e 40 da Théo a Vincent. L’anno dopo, sempre per volontà della vedova, le spoglie del marito furono trasferite ad Auvers e tumulate accanto a quelle dell’amato fratello. La donna chiese che un ramoscello di edera del giardino del Dottor Gachet venisse piantato tra le due pietre tombali e ancora oggi le lapidi sono immerse in un groviglio di edera.

“Iris” è stato dipinto da Vincent van Gogh nel 1889 ed è conservato a Los Angeles, al “The J. Paul Getty Museum”.

Il tempo, come spesso accade, avrebbe pareggiato molti conti facendo piovere sulle sue opere quel denaro e quegli elogi che in vita gli furono negati. Uno spazio interamente dedicato – ovvero il Van Gogh Museum di Amsterdam”, i principali musei del mondo consapevoli del prestigio che comporta avere la possibilità di esporre i suoi dipinti, aste capaci di toccare cifre astronomiche, dai 57 milioni di dollari battuti per “Campo di grano con cipressi” ai 71,5 milioni di dollari sborsati per “Autoritratto senza barba”, per salire ai 90 milioni di dollari stimati per “Autoritratto con orecchio bendato” fino a un’asta che ha superato i 100 milioni per “Iris”. Dopo essere stato oggetto di monografie, biografie, saggi e studi di ogni tipo, la figura di Vincent van Gogh è stata sviscerata pure dal mondo della celluloide: del 1948 è il cortometraggio “Van Gogh” diretto da Alain Resnais; mente nel 1956 Vincente Minnelli avrebbe fatto vestire i panni di Vincent a Kirk Douglas e ad Anthony Quinn il compito di impersonare Gauguin in “Brama di vivere”; per arrivare a “Vincent & Théo”, con Tim Roth nel ruolo principale e Robert Altman dietro alla macchina da presa; passando per il sofisticato “Sogni” pellicola ad episodi del maestro Akira Kurosawa con un palese omaggio all’artista olandese, che per l’occasione ha il volto di Martin Sorsese.

Il tempo non avrebbe invece chiarito fino in fondo le circostanze della sua morte. Correva l’anno 2011 quando, nella biografia “Van Gogh: The Life“, gli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith, hanno ipotizzato che van Gogh anziché morire suicida, sarebbe stato colpito da un colpo di pistola sparato accidentalmente da due ragazzi che stavano giocando con un’arma nei campi in cui era solito dipingere e passeggiare. Fonti di queste interpretazioni sono alcune dicerie raccolte nel 1930, delle quali, nel libro, non si cita la fonte, e un’intervista del 1956, ugualmente priva di riferimenti, a Renè Secretan, indicato, assieme al fratello Gaston, come il responsabile.

Tra i molteplici punti interrogativi che avvolgono la sua indecifrabile personalità e che il tempo mai sarà in grado di sciogliere ne emerge prepotentemente uno inerente alla veridicità, alla reale natura della passione che ha indissolubilmente legato il nome di Vincent van Gogh all’arte. In una disciplina così imprescindibilmente legata alla componente emozionale, a partire dalla scelta dei soggetti per arrivare all’uso del colore, il malessere  che ha guidato l’artista olandese durante il suo percorso ha contribuito a ingigantire l’impatto empatico tra il triunvirato arte-van Gogh-osservatore. Definire la pittura, a cui l’artista si avvicinò quasi ventottenne, come la sua vocazione significherebbe infatti fornire un’interpretazione irrazionale, sviante. Con il senno di poi, l’occupazione di Théo e la, nemmeno troppo, inconscia volontà riconducibile ad entrambi i fratelli di avere in comune un’impegno che permettesse loro di essere vicini anche nella lontananza fu determinante affinché Vincent prendesse in mano un pennello. Di sicuro, se mai Vincent manifestò una vocazione fu quella di donare tutto sé stesso aiutando i poveri, coloro che si sporcavano le mani con la terra e il carbone, i reietti dalla società. Per un certo periodo tentò di intraprendere questo cammino, mise il proprio spirito a servizio del prossimo, annullandosi, assorbendone un dolore troppo esteso, impossibile da contenere. Ne rimase travolto. La pittura divenne la sua via di fuga, un passaggio in cui abbracciare ora il giorno, ora la notte, ora la vita, ora la morte; il solo modo per sublimare la pena di quell’umanità senza nome.

“Campo di grano con volo di corvi” è una delle ultime opere dipinte da Vincent van Gogh. Esso è conservato presso il “Van Gogh Museum” di Amsterdam.

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  1. Acèdia - Negare tutto, sentire ciò che resta

    […] Articolo pubblicato su Samanthacasella.com […]

  2. Vincent van Gogh, l'insostenibilità della vita

    […] Articolo pubblicato su Samanthacasella.com […]

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