Jacques Anquetil, il sultano

Indisponente, altezzoso, egoista, totalmente mancante di una qualsiasi forma di empatia, costantemente concentrato sui propri obiettivi. Quando saliva in sella a una bicicletta però, diventava perfetto, persino troppo. Mai un errore, mai una sbavatura, mai un cedimento, mai un’emozione. Jacques Anquetil era un uomo programmato per vincere. Il mito dell’imbattibilità che accompagnava le sue prove a cronometro, la grazia, l’eleganza, la compostezza che lo contraddistinguevano, quel suo procedere solitario, indifferente, mai un’oscillazione delle spalle, mai uno sbandamento, quasi non avvertisse lo sforzo, spinsero il mondo a credere che avrebbe potuto pedalare con una coppa piena di champagne posata sulla schiena senza che una sola goccia si versasse durante la corsa. Questo, come fosse la cosa più naturale, più ordinaria, più semplice e priva di un significato proprio. Questo perché Jacques Anquetil non dava spettacolo. Jacques Anquetil scriveva la storia.

Jacques Anquetil è nato l’8 gennaio del 1934 a Mont-Saint-Aignan, un paesino nei dintorni di Rouen in Normandia. La madre, Marie, era una casalinga, mentre il padre Ernest era un semplice agricoltore che aveva nella coltivazione delle fragole i guadagni principali. Da bambino, Jacques si inginocchiava spesso a raccoglierle, le fragole. Era magrissimo, pallido, taciturno. Aveva gli occhi azzurri, limpidissimi, sempre circondati da un alone violaceo. A quattro anni ebbe in dono una bicicletta, ma a undici per fare un giro doveva andare dal postino di Quincapoix ed elemosinare la sua. Lo prese in simpatia, per questo un giorno gli regalò una bici da corsa, una sorta di reperto antidiluviano. E Jacquot iniziò a correre, di paese in paese, fino al cimitero di Quincampoix e poi via, verso casa. Finché un amico, Maurice Dieulois gli propose di iscriversi a un Club gestito da un commerciante di cicli, André Boucher, che aveva un negozio nella Place du Trianon in cui capeggiava l’insegna “AC Sottevillais”. Jacques Anquetil seguì il consiglio, ma non poté sottrarsi alla volontà del padre che oltre a volerlo impegnato nella raccolta delle fragole gli aveva procurato un lavoro presso una fabbrica del paese. Si presentò per 26 giorni. Era il 1950 e il giorno dopo essersi licenziato vinse la prima di 16 corse dilettantesche. Quel giorno decise che non si sarebbe ma più inginocchiato; né per raccogliere fragole, né di fronte a chicchessia.

Leggenda vuole che anche da esordiente avesse l’aria distaccata, superiore, che non sorridesse mai, che fosse un calcolatore, che non si affezionasse a nessuno, che mancasse di umiltà, che quando posava gli occhi sugli altri li guardasse come se fossero trasparenti. Eppure a Boucher sarebbe stato riconoscente per sempre e ogni volta che vinse un Tour, dal primo all’ultimo, Jacques andò bussare alla sua porta e insieme uscivano, il suo primo mentore su un ciclomotore, il campione in bicicletta. Restavano fuori finché il sole non stava per tramontare e rincasati il vecchio Boucher, come se lo avesse potuto valutare gli diceva, anno dopo anno, sempre le stesse identiche parole: «sei proprio il mio Jacquot».

La sua prima grande vittoria da professionista è datata 27 settembre 1953; quando percorse i 140 km del Gran Prix des Nations – una sorta di campionato mondiale a cronometro – in 3 ore, 32 minuti e 25 secondi. Il secondo classificato, giunse al traguardo con un ritardo di quasi 7 minuti. Da lì a pochi giorni avrebbe fatto sua la cronometro anche del Gran Premio Vanini disputata a Lugano. L’anno prima aveva invece salutato in Giochi Olimpici di Helsinki con la medaglia di bronzo al collo. Nel 1954 concesse il bis sia al Gran Prix des Nations che al Gran Premio Vanini come nelle annate 1955-1956 oltre al classico appuntamento con il Gran Prix des Nations mise tutti in riga al Gran Premio Martini. A Milano, il 29 giugno del 1956 scrisse anche la parola fine al record dell’ora di Fausto Coppi che resisteva dal 1942. A partire dal 1957 però, il Gran Prix des Nations e il Gran Premio Martini non gli bastarono più. Neppure la Parigi- Nizza – nota anche come “Corsa del Sole” –  era in grado di sfamare le sue ambizioni.

Al debutto nel Tour de France del 1957 pretese che dalla Helyett venisse escluso il suo uomo-simbolo, quel Louison Bobet che dal ’53 al ’55 aveva vinto tre volte la prestigiosa corsa a tappe. Lo accontentarono e il 20 luglio del 1957 Jacques Anquetil trionfò per la prima volta al Tour con un quarto d’ora di vantaggio sul belga Marcel Janssens. Non era un passista, non era uno scalatore, non era implacabile in volata, ma possedeva una straordinaria potenza nel mulinare i lunghi rapporti e quando saliva su una bicicletta per correre una cronometro, semplicemente, non aveva nulla di umano. , Jacquot ha costruito il suo impero; sulla regolarità, sull’intelligenza, sulla tattica a discapito dello spettacolo.

In totale ne avrebbe conquistati 5 di Tour de France. Sarebbe stato il primo, in ordine cronologico, di soli sei corridori capaci a vincere Tour de France, Giro d’Italia  e Vuelta. Nel 1963 avrebbe fatto l’ambo Tour e Vuelta, l’anno dopo Tour e Giro arrivando a Parigi con un vantaggio di 55 secondi su Raymond Poulidor, il grande rivale, l’acerrimo nemico, l’eterno secondo di memorabili duelli. La Francia però amava “Pou Pou” e quando il 16 luglio del 1961 Jacques Anquetil arrivò al Parco dei Principi, al termine del Tour de France dove ha indossato la maglia gialla dal primo all’ultimo giorno, venne fischiato dal suo pubblico. Non erano lui che volevano veder vincere. La sua gente lo avrebbe visto dominare anche il Tour del 1958 se, anziché dover raggiungere l’ospedale alla vigilia della 23esima tappa con il sangue che gli usciva dalle labbra serrate per una polmonite, avesse potuto presentarsi ai nastri di partenza.

Jacues Anquetil e Raymond Poulidor hanno dato vita a una delle rivalità più note dello sport francese

La verità è che Jacques Anquetil vinceva tanto, forse troppo. E lo faceva da solo. Senza gesti teatrali, senza drammi. 205 successi in carriera, 60 prove a cronometro, 5 Tour de France, 2 Giri d’Italia, una Vuelta, Grand Prix des Nations, tra le classiche spiccano la Gand-Wevelgem, la Liegi-Bastogne-Liegi e la Bordeaux-Parigi – dove azzeccò una fuga solitaria e la corsa diventò di fatto una cronometro -. Non indossò mai la maglia di campione del mondo, anche se nel 1966 arrivò a un soffio. Fu capace di cose impossibili anche solo da concepire, da immaginare. Alle 17 del 27 settembre 1965 vinse il Criterium del Delfinato davanti a Poulidor, alle 20,30 era già in sella per prendere parte alla Bordeaux-Parigi, massacrante maratona notturna di oltre 550 chilometri. Il primo uomo che compare al Parco dei Principi è lui, Jacquot. Venne accolto con un tripudio: finalmente la Francia lo aveva iniziato ad amare. Jacques Anquetil però non cambiò mai il proprio approccio; non era un commediante e l’approvazione della gente non rappresentò mai uno stimolo, non lo rese più docile, meno spigoloso.

Per tre volte, nella sua carriera, ritorna la data del 27 settembre. Quel giorno d’inizio autunno, nel 1967 Jacques Anquetil ha 33 anni, 8 mesi e 19 giorni. La bicicletta che conduce sull’anello del Vigorelli pesa 6 kg e 100 grammi con ruote di 28 raggi, i tubolari gonfiati con elio. Spinge un rapporto 52 per 13 che sviluppa 8 metri e 42 centimetri. Il record dell’ora da battere è quello di Riviere, segnato nel 1958. E Jacquot lo batte. La sua carriera è ormai sul viale del tramonto e la gente lo sa, lo sente, per questo urla il suo nome, perché sa che qualcosa di grande sta per finire. Tra la confusione generale Acquetil vede il Dottor Marena farsi avanti con una serie di provette in mano e, come da copione, gli dice che no, non ha intenzione di fare pipì,, «davanti a tutti». Il francese scompare insieme al suo manager, il suo factotum, Raphael Géminiani. E insieme a loro se ne andò il record dell’ora dall’albo d’oro.

Tornato in hotel, Anquetil si era ricreduto, aveva cercato di mettersi in contatto con il medico, ma questi era già in cammino verso casa, a Firenze. Al che Geminiani contattò il dottor Frattini, un’autorità sportiva, tra l’altro presente al Vigorelli: gli chiese di occuparsi lui stesso del prelievo, gli disse che ora Jacquot era disponibile. Frattini replicò di non essere autorizzato a sostituire Marena. Insomma, non ci fu nulla da fare. La giustizia sportiva avrebbe potuto andare incontro a quella leggenda vivente, ma è opinione di molti che Jacques Anquetil dovesse semplicemente pagare l’insolenza, la presunzione che lo aveva accompagnato per quindici anni di prodigi.

Jacques Anquetil era diverso. Troppo diverso. Si dice che nei fuori stagione facesse colazione con ostriche e champagne, che fosse insonne, che si facesse spesso trovare con un libro in mano perché nel profondo un complesso di inferiorità c’era, perché non aveva potuto studiare, perché c’era un qualcosa di aristocratico in lui che cozzava con le sue origini e non c’era niente che odiasse nel profondo quanto l’ignoranza, la miseria «se non fossi come sono sarei ancora piegato in due a raccogliere le fragole. Non è disonorevole, ma così si rimane povera gente».

Jacques Anquetil e l’amata Jeanine

Lo si diceva immune alle crisi interiori. Invece era un uomo complicato, triste, tormentato, geniale. Quando si innamorò di Jeanine, che lui chiamava Nanou, la moglie del suo medico personale, Jacquot aveva 18 anni. L’età della donna al platino è rimasta per sempre un mistero; lui la presentò più adulta di sei anni, in verità pare fossero più di dieci. Fu lei a spiegare schiettamente al marito, con cui aveva concepito due figli, Annie e Alain, che lo avrebbe lasciato per seguire quel ragazzo che tutti consideravano gelido e scostante. Anche lei era costruita, indecifrabile, e pur essendo sempre in mezzo alla folla per anni nessuno si accorse di lei. Riuscirono a tenere segreta la loro relazione fino al 1957. I giornali la descrissero come una Madame Bovary – e caso vuole che Jeanine fosse nata proprio a Rouen, come la signora del romanzo -. Il 24 dicembre del 1958 si sposarono nella chiesa di St-Gervasie e insieme andarono a vivere alla periferia di Rouen, in un castello fiabesco attorniato da 170 ettari di bosco che era appartenuto a Guy de Maupassant.

Si narra che finché Jacques corse, preparasse le tabelle delle gare insieme alla moglie, che solo in sua presenza fosse sciolto, a proprio agio con gli altri presenti, che fossero inseparabili. Lo erano e si completavano al punto che, una volta ritirato, Jacques Anquetil avrebbe dichiarato: «senza Janine non sarei stato niente». Difficile. Probabilmente Anquetil sarebbe stato lo stesso Anquetil, ma insieme a Jeanine ha certamente coperto un vuoto, ha respinto una disperazione che lo corrodeva, un’angoscia che avrebbe finito con il divorarlo. Quando il desiderio di diventare padre divenne un ostacolo così minaccioso da mettere in discussione la loro relazione, Jeanine, pur di non perderlo, gli offrì in dono la figlia Annie. Nascerà Sophie, ma nel momento in cui madre e figlia si rendono conto della follia dentro cui stanno vivendo se ne vanno dal  Parc des Elfes. A Anquetil non rimane che sedurre la moglie dell’altro figlio di Jeanine, tale Dominique. Nel 1986 nasce Christopher, ma dopo pochi mesi anche Dominique fuggirà da quell’incubo lasciando il sultano solo.

 Di lì a poco se ne sarebbe andato anche lui, sconfitto da un tumore allo stomaco. Pochi giorni prima di spegnersi lo andò a trovare l’antagonista di tante battaglie Raymond Poulidor. Il mito della loro inamicizia, dell’invidia di Poulidor perché a vincere era sempre l’altro, del risentimento di Anquetil perché la gente gli preferiva il connazionale; fu tutta un’invenzione letteraria per rendere più avvincenti i loro duelli in corsa. Furono certamente tante le ossessioni di Jacquot, ma tra esse non vi eraPou Pou”; così come quest’ultimo, da uno semplice quale era, aveva umilmente recitato la propria parte senza scomporsi più di tanto, a differenza di quell’ultima visita, durante la quale pare non sapesse proprio cosa dire. Il primo a parlare fu Jacques Anquetil: «Vedi Raymond, anche stavolta arrivi secondo…».

È morto il 18 novembre del 1987 e la sua salma è stata tumulata nel cimitero di Quincampoix. Da bambino, quando riusciva a sfuggire alla raccolta delle fragole, saliva sulla bici e attraversava come un fulmine i paesini della zona fino a raggiungere proprio quel cimitero. Era il punto massimo entro cui si spingeva. Giunto lì, tornava indietro, verso casa. O forse, chissà, a casa Jacquot non ritornava veramente mai. La sua mente, la sua indole, rimaneva  protesa verso un sogno di gloria, al di là di quel buio che lo angosciava al punto di non riuscire a dormire con la luce spenta; per poter continuare a desiderare, a toccare, a fissare un orizzonte che soltanto lui vedeva.