Gli strazianti abissi di Egon Schiele

La crisi delle certezze, il desiderio di stabilire la natura, i passaggi, i meccanismi che regolano i principi fondamentali dell’esistenza umana, di stracciare convenzioni, schemi sociali, ma ancor più mentali che partono da dentro, si potrebbe osare dire dall’anima. La fine del ‘800 e l’inizio del ‘900 ha assunto la forma di un solco profondo, una spaccatura bramata con avidità, insinuatasi tra la realizzazione di un positivismo sfociato nella rivoluzione industriale, gli aliti decadenti, nostalgici, della Belle Époque e forme di avanguardia che ambivano a un categorico superamento della tradizione, delle istanze classiche. È tra le venature di questo clima, dove la sessualità, l’inconscio e il sogno, entrano prepotentemente in opere letterarie, in saggi e dipinti che Egon Schiele nasce il 12 giugno del 1890 in una stazione ferroviaria a Tulln, una cittadina nei pressi di Vienna dove il padre prestava servizio come capostazione. 

Catapultato in un mondo in procinto di cambiare, l’infanzia di Egon è un groviglio di incertezze, di domande inespresse e inesprimibili, di risposte impossibili da ottenere, offuscate come sono dal progredire della malattia mentale del padre, malato di sifilide, che lo spingerà a una morte precoce, avvenuta nel 1905. Affidato allo zio materno, tale Leoplod Czinaczek, il giovane Schiele si dimostra totalmente inadeguato per una possibile carriera nelle ferrovie propostagli dal ricco e posizionato tutore il quale si dimostra tuttavia sufficientemente calato nel periodo storico per assecondarne il talento artistico. 

È infatti in quegli anni che Egon Schiele inizia a dipingere, sopratutto, autoritratti; i quali si rivelano una sorta di lasciapassare per l’Accademia di Belle Arti di Vienna che frequenta tra il 1906 e il 1909 finché lo scontento provocato dai paletti obsoleti imposti dagli insegnanti che gli vietarono di sperimentare uno stile tutto suo, e il clima conservatore, lo spinsero a lasciare gli studi per trovare rifugio all’interno di quei Café divenuti un punto d’appoggio per gli artisti controcorrente e desiderosi di infrangere dogmi ormai sorpassati.

In rotta con la madre Marie – che si sente trascurata e nutre al tempo stesso una costante preoccupazione per il futuro di quel figlio sensibile quanto problematico, Egon Schiele di giorno studia da autodidatta per quindi dipingere all’aperto, nella natura, ricorrendo rigorosamente a una tecnica anti-accademica, mentre di notte frequenta luoghi che lo mettono in contatto con menti a lui affini. L’incontro decisivo per la sua crescita artistica avviene nel 1907 al Café Museum di Vienna quando conosce l’artefice della Secessione Viennese, Gustav Klimt che ne diviene un padre putativo, aiutandolo tramite l’acquisto di disegni, procurandogli modelle, presentandolo a ricchi mecenati in grado di assicurargli o una certa tranquillità finanziaria fin dagli esordi e facendo sì che nel 1908, appena diciottenne, potesse tenere la sua prima mostra personale per la Wiener Wekstatte.

“La morte e la fanciulla” è un dipinto realizzato da Egon Schiele nel 1915

In quelle prime opere esposte, accanto a ritratti di amici e autoritratti, pure esse cariche di uno spiccato espressionismo, si impone la fisicità del corpo attraverso un’aggressiva distorsione figurativa. Un ulteriore elemento che lo lega a Klimt è infatti l’interesse per la raffigurazione del corpo nudo e della sessualità, seppure nel caso di Egon Schiele i suoi capolavori sono intrisi di una inquietante ossessione erotica che, amalgamata al tema della solitudine della malattia e della morte, assume un’altissima tensione emotiva, mentre lo spazio è pressoché un vuoto che rappresenta la tragica dimensione esistenziale dell’uomo.

L’anno seguente fonda poi, insieme a quindici amici, il Neukunstgruppe, movimento che lo distacca definitivamente da Klimt in quanto, al raffinato erotismo della Art Nouveau, espone un’immagine della sessualità intesa come pulsione esistenziale profonda, ancorata non solo nella mente, bensì pure nell’animo umano. Dall’esposizione alla collettiva di Kunstschau – dove divide la scena con Munch, Matisse, Bonnard, Gauguin, van Gogh e Kokoschka; tutti avanguardisti che dovettero lottare per ricevere consensi seppure nessuno al pari di Schiele sconvolse e scioccò gli osservatori per lo stile esplicito – alla mostra al Salon Pisko – che annovera tra i visitatori anche l’arciduca Francesco Ferdinando, passato tragicamente alla storia per l’attentato che diede avvio alla Prima Guerra Mondiale – il pittore austriaco rappresenta sé stesso con inusuale frequenza, rompendo con il consueto uso dello specchio inteso come strumento volto alla ricerca dell’io, fissando nell’autoritratto non la propria identità sociale o emotiva, quanto piuttosto il lato sconosciuto, un’interiorità celebrata tramite pose innaturali, gesti stranianti, carichi di tensione, quasi che la tela possa trasfigurarsi in un tramite per offrire una scavata, lacerante e macilenta versione del proprio doppio oscuro, inafferrabile.

Allo stesso tempo, Egon Schiele non nasconde una vibrante passione per le figure femminili. Nei primi anni di attività artistica è soprattutto la sorella Gerti a essere immortalata dal pittore che la metterà da parte a favore di Wally Neuzil, una diciassettenne con cui instaura un inquieto legame sentimentale fino al giorno in cui conosce Edith Harms, la quale diverrà sua moglie. Anche i bambini – spesso raccattati nei quartieri proletari salvo eccezioni quali Herbert Rainer che ritrasse su commissione – occupano un posto importante nelle sue produzioni e immancabilmente i loro volti suggeriscono una palese introversione, un malcelato timore di essere stritolati dal mondo, dalla vita che li attende.

Risale al 1911 la decisione di lasciare Vienna per trasferirsi, insieme a Wally, a Krumau, un paesino della Boemia i cui abitanti non si danno pena di nascondere la lampante disapprovazione verso la coppia non sposata che, onde evitare problemi, tempo un annetto si stabilisce nella vicina cittadina di Neulengbach dove però la situazione precipita dato che Egon Schiele viene accusato da un certo Von Mosig, ufficiale della marina in pensione, di aver sedotto e rapito la figlia Tatjana Georgette Anna, non ancora quattordicenne. L’artista subisce un processo e, in attesa della sentenza, viene segregato in prigione per un mese e gli vengono confiscati centoventicinque disegni. Ritenuto infine colpevole soltanto di aver esibito opere considerate pornografiche dall’autorità, i giorni trascorsi in cella furono per Egon Schiele un’esperienza traumatica in quanto deperì e iniziò a soffrire di insonnia. 

“La famiglia” è stato dipinto da Egon Schiele nel 1918, pochi mesi prima della morte sua e della moglie, Edith, avvenuta mentre aspettava il loro primo figlio – Source: Belvedere/National Gallery via Bloomberg

Tornato a Vienna, grazie all’intercessione di Klimt gli vennero affidate diverse commissioni e nel 1913 fu protagonista di svariate mostre che gli permisero di tornare alla ribalta. Non solo, sulle ali dell’entusiasmo provocato dalla lettura delle poesie di Rimbaud, il pittore si dedica egli stesso al componimento di versi. La pubblicazione postuma di “Diario dal carcere”, avrebbe lasciato supporre che negli ultimi anni di vita la scrittura avesse occupato un ruolo importante nella vita di Egon ma ricerche accurate avrebbero infine bocciato l’autenticità del testo, realizzato dal curatore della pubblicazione, Arthur Roessler, il quale si era basato su brevi annotazioni, lettere e racconti del geniale amico.

Il 1914 segna l’avvento della terza musa ispiratrice della vita di Egon Schiele: Edith Harms. Figlia di un fabbro e più adulta di cinque anni, pur non potendo contare su una bellezza convenzionale, Edith possedeva un fascino ammaliante e stregò Egon al punto da convincerlo a sposarla, a interrompere una qualsiasi forma di comunicazione con Wally e di farne l’unico oggetto dei propri dipinti. Con il senno di poi, il loro si dimostrò un amore assoluto, sincero e la presenza di Edith donò a Schiele una serenità, una completezza, che automaticamente riversò sulle sue tele. 

E così, che mentre l’Europa precipitava nell’abisso del conflitto mondiale spingendo Wally ad arruolarsi volontaria come crocerossina per perdere la vita nel 1915 al fronte; superiori comprensivi e amanti dell’arte risparmiano la divisa ad Egon che raffigurò la fine dell’impero asburgico realizzando il crollo di un mulino, dove una fragile struttura di legno è distrutta dalla crescente forza distruttiva dell’acqua.

Il mutamento di stile, il successo travolgente conseguito ovunque venisse invitato a esporre – da Vienna a Zurigo, da Dresda a Praga –  donò a Schiele una fama sempre maggiore e la morte di Klimt – avvenuta nel febbraio del 1918 – lo rese di riflesso il più importante pittore austriaco. La situazione sarebbe però perentoriamente precipitata nell’autunno dello stesso anno, a un mese dalla fine della guerra, quando l’influenza spagnola – che provocò più di venti milioni di morti in Europa – raggiunse Vienna. Ammalatasi gravemente, Edith, incinta di sei mesi, muore il 28 ottobre. Durante l’agonia dell’adorata moglie, Egon Schiele non la lascia un istante, condannandosi al contagio, fino a spegnersi, tre giorni dopo, il 31 ottobre 1918, a soli 28 anni.

Di Egon Schiele rimangono circa 300 dipinti e oltre 3000 disegni su carta, per lo più raffiguranti autoritratti scavati da un profondo spessore psicologico in cui l’io dell’artista si ferma nello sguardo allucinato e nelle mani contorte, nudi a volte emaciati, altri provocanti, non di rado disarmati da una qualsiasi valenza sessuale per divenire delle mute richieste di aiuto, espressioni di una tristezza, di una malinconia sofferta, autolesionista; tutti scanditi da linee incisive, nervose, quasi nevrasteniche, come a denunciare un tormento cupo, un’angoscia impossibile da guarire, la paura di un abisso alienante, eternamente in bilico tra la vita e la morte.

In “Gli amanti” Egon Schiele ritrae sé stesso abbracciato alla moglie Edith