Stephen King, tra ossessioni, incubi e deliri

L’ex capitano della Marina Mercantile David Spansky era un uomo taciturno, scostante, pignolo e diffidente che quando decise di chiudere con il proprio passato per stabilirsi a Portland, nel Maine, e impiegarsi presso la Electrolux, decise di modificare il proprio nome in Donald King. Sposatosi con una ragazza di umili origini, Nellie Ruth Pillsbury, le impedì di cercarsi un lavoro affinché potesse dedicarsi alla cura della casa; compito che lei svolgeva al meglio per poi occupare il tempo libero divorando libri di ogni genere. A causa della sterilità di uno dei due coniugi, si presume di Donald, nel 1945 adottarono un bambino, David Victor. Quel rapporto indolente, privo di slanci per via del temperamento impossibile dell’uomo, si deteriorò ulteriormente nei primi mesi del 1947, quando Nellie annunciò al marito di aspettare un figlio, che nascerà il 21 settembre del 1947 ed a cui verrà dato il nome di Stephen King. Affinché la situazione degeneri è sufficiente passino due anni e un pomeriggio, vero sera, Donald esca di casa per una delle sue passeggiate; dalla quale però non farà più ritorno. 

Nellie Ruth e i due figli iniziarono così a spostarsi da De Pere in Wisconsin, dove la donna svolse il lavoro di stiratrice, a Fort Wayne in Indiana, dove fece la lavandaia, per poi spostarsi a Stratford in Connecticut per impiegarsi in una panetteria, ed infine fare ritorno nel Maine per stabilirsi a Durham, per ritrovarsi assunta in una ditta di pulizie.  All’epoca Stephen aveva poco più di quattro anni: era un bambino silenzioso, un po’ introverso, eppure propenso a stringere amicizie con i suoi coetanei. Finché una sera fece ritorno a casa sconvolto, incapace di parlare. Dell’amichetto con cui era uscito a giocare non c’era infatti traccia e le ricerche portarono a uno scenario agghiacciante: il bambino venne trovato morto, travolto da un treno, sulle rotaie della linea ferroviaria che passava al di là del bosco limitrofo.

Stephen rimosse l’accaduto, ma è lecito pensare che essere stato testimone di un fatto tanto terribile non possa non averlo scavato nel profondo. Di certo, la sua fu un’infanzia atipica, sospesa tra una realtà complessa sotto diversi punti di vista, a livello economico in primis, ed un mondo interiore, il regno della fantasia, a cui gli eventi della vita lo portarono suo malgrado ad attingere. Iscritto in prima elementare, Stephen passò i primi nove mesi malato. Colpito prima dal morbillo, ebbe in seguito problemi alla gola e alle orecchie. La madre, che tra mille sacrifici riuscì ad assicurare ai figli una buona educazione, decise di ritirarlo dall’anno scolastico e, per stimolarlo, gli propose di scrivere un racconto al prezzo di 25 cent. Prese forma una storia con protagonisti quattro animali magici, a bordo di una vecchia macchina guidata da un enorme coniglio bianco di nome Mr. Rabbit Trick, il cui compito era quello di aiutare i bambini in difficoltà. Durante quel periodo di malattia, la madre gli propose di scrivere altri tre racconti; e fu così che Stephen King guadagnò il suo primo dollaro.

Il rapporto tra Stephen King e la paura ha radici molto profonde, legate alla sua infanzia, ancorate ai luoghi in cui è cresciuto.

In realtà, a quei giorni, Stephen assocerà molti altri ricordi, alcuni probabilmente frutto di un’immaginazione messa in moto in correlazione a quelle giornate interminabili e penose: la baby sitter Eula-Beulah che lo sculacciava ridendo, la madre che gli raccontò di aver visto un marinaio suicidarsi gettandosi dal tetto di un hotel, il medico che gli infilava aghi nelle orecchie provocandogli «un dolore fuori del mondo». Certo è che verso i dieci anni trovò nella soffitta della zia dei vecchi libri appartenuti al padre e le pagine di Edgar Allan Poe, H.P Lovecraftt e Richard Matheson lo fecero appassionare al genere horror. 

Se nel 1959 prese a scrivere per il “Dave’s Rag”, un piccolo giornale prodotto dal fratello maggiore in una tiratura che prevedeva una quarantina di copie da distribuire a vicini di casa e coetanei; due anni dopo, alla Lisbon High School, venne nominato direttore del giornaletto scolastico che – per ravvivare l’atmosfera – ribattezzò “The village vomitcon la palese intenzione di prendere prendere bonariamente in giro i vari professori; i quali però, privi di “sense of humor”, lo sospesero per una settimana. Questo episodio fuori dalle righe indusse il “Lisbon Enterprise” ad assumerlo per scrivere brevi articoli di cronache inerenti agli eventi sportivi della zona. La prima soddisfazione di rilievo Stephen King la godette nel 1966 quando sulla fanzine “Comics Review” venne pubblicato il suo primo racconto, intitolato “I Was a Teenage Grave Robber, poi successivamente ripreso dal curatore editoriale Mary Wolfaman, con il titolo “In a Halfworld of Terror sulla rivista “Tales od Supence.

Diplomatosi nel 1966, andò a Orono per studiare letteratura inglese presso l’Università del Maine dove gli venne affidata una rubrica sul magazine accademico, il “Maine Campus”, intitolata “King’s Garbage Truck”. Costretto a ricorrere a lavori saltuari per potersi mantenere, Stephen King dedicò il proprio tempo libero alla scrittura ma, fino ai ventidue anni, nessun editore dimostrò interesse nei confronti dei quattro romanzi scritti e la sola opera che riuscì a vendere, per 35 dollari, fu un racconto breve dal titolo “The Glass Floor”, pubblicato da Robert Lowndes su “Startling Mistery Stories”. Risale all’estate del 1969 l’incontro con con Tabitha Jane Spruce, un’aspirante poetessa laureanda in storia che incontrerà in biblioteca e che sposerà il 2 gennaio del 1971 ad Old Town. Nell’arco di un paio d’anni la coppia ebbe due figli e la necessità di un posto fisso spinsero King ad accettare un ruolo come insegnante di lettere presso la Hampden Academy. 

Stephen King alla Premiere di “L’occhio del gatto” un film del 1985 diretto da Lewis Teague, basato su due racconti del re dell’horror, provenienti dalla raccolta “A volte ritornano”.

Nonostante la catena di rifiuti, Stephen King mai si rassegnò, ma a spronarlo affinché facesse visionareCarriea un editore fu la moglie. Ci vide giusto. Correva l’anno 1974 e ad acquistare, per soli 2.500 dollari, la storia di Carrie White – una bambina orfana di padre, costantemente maltrattata dalla madre e dalle compagne di classe, ma dotata di telecinesi, potere paranormale ereditato dalla nonna – fu la casa editrice Doubleday. Il romanzo, passato inosservato nell’edizione rilegata, al contrario ottenne un successo enorme con l’edizione economica, superando il milione di copie vendute. Fu così che grazie alla sua quota per i diritti sulle vendite e la trasposizione cinematografica curata da Brian De Palma, King poté permettersi di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Da quel momento l’ascesa di Stephen King sarà inarrestabile. I successivi “Le notti di Salem” e “Shining” – che tre anni dopo Stanley Kubrick porterà sullo schermo – non si limitarono a promuoverlo come uno degli scrittori horror più acclamati del mondo, furono vere e proprie spinte per dar voce a quei demoni interiori mai interamente sprigionati; dove mistero, paura e follia si intrecciano dando forma a inquietudini impossibili da arginare, a incubi talmente terribili da renderne la mente schiava. I fantasmi che prendono vita nell’isolato e sinistro Overlook Hotel di “Shining” – dove Jack Torrence si trasferisce insieme alla famiglia per divenirne il guardiano invernale e lì impazzire – furono infatti per stessa ammissione dell’autore, una proiezione delle visioni mostruose, delle oppressioni, di cui fu vittima dal preciso istante in cui venne diagnosticato un cancro alla madre – che morirà entro pochi anni – spingendolo verso un isolamento interiore – tema ricorrente in altre storie future – reso ancora più angosciante dall’abuso di alcool e cocaina di cui iniziò ad essere smodatamente dipendente. 

Quel dolore impossibile da arginare, quei tormenti ossessivi, parleranno attraverso vicende che hanno fatto la storia del genere horror; tra cui “L’ombra dello scorpione” – dove Satana in persona scende sulla terra per provocare l’Apocalisse -; “La zona morta” – dove un uomo, poi impersonato da Christopher Walker nello splendido film diretto da David Cronenberg, si risveglia da un coma con il potere della chiaroveggenza -; “L’incendiaria” – in cui torna a occuparsi di una bambina stavolta con capacità pirocinetiche -; “Cijo” – dove propone il punto di vista di un cane che ha contratto la rabbia -; e “Pet Sementary” – ossia un antico cimitero indiano capace di far tornare in vita i corpi seppelliti in quel luogo -.

“It” è considerato il capolavoro per eccellenza di Stephen King; ed a rendere Pennywise così terrificante è il fatto che ognuno vede in lui l’incarnazione delle proprie paure.

Nel 1986 Stephen King scrisse il suo capolavoro per eccellenza: “IT”; sinistra saga corale ma anche “romanzo di formazione” dove l’orrore si trasfigura tramite la forza della memoria, la profondità dei traumi infantili, il prezzo della violenza occultata dietro una maschera di felicità, la grettezza nascosta dietro le apparenze di una ridente cittadina; la sensazione che  prima o poi dovremo fare i conti con un qualcosa di malefico, mutevole e in grado di farci visita dando sostanza alle nostre paure. Negli anni, il genio infinito di King avrebbe continuato a concepire opere altrettanto buie, capaci di condurre il lettore in un regno dove l’angoscia sovrasta ogni cosa: da “Misery” – dove uno scrittore a seguito di un incidente si ritrova sequestrato da un’infermiera psicopatica nonché sua grande fan seppure incapace di accettare la morte dell’eroina dei suoi scritti -; a “Cose preziose” – incentrato all’interno di un negozietto che offre agli abitanti di un paese quel qualcosa che desideravano più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma che per averlo devono fare un piccolo favore -; passando per “Il gioco di Gerard” – in cui l’introspezione psicologica della protagonista, rimasta legata a un letto in un luogo isolato durante un gioco erotico con il marito nel mentre colpito da un infarto, la spinge a rievocare un terribile segreto d’infanzia rimosso -; “Dolores Claiborne” – un thriller psicologico dove l’unico mostro è il rimorso che siamo costretti a portarci dentro per le azioni che abbiamo commesso -; “Rose Madder” – basato su elementi della mitologia greca ed in particolare alle erinni -;  Il miglio verde” – dove un capo delle guardie del braccio della morte di Could Monuntain si confronta con un un uomo di colore nero accusato dello stupro e dell’omicidio di due bambine; per un film coinvolgente poi diretto da Frank Darabont con Tom Hanks e Michael Clarke Duncan -; “The Dome” – in cui una cittadina del Maine viene isolata dal resto del mondo da una cupola invisibile calata all’improvviso;  Joyland” – commuovente vicenda ambientata in un parco dei divertimenti e che vede come protagonista un giovane ragazzo impegnato a risolvere il mistero del fantasma di una ragazza uccisa da un serial killer -; “22/11/’63” – dove un uomo decide di tornare indietro nel tempo per impedire l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy -; fino a “Sleeping Beauties” – dove in seguito all’annunciazione dell’arrivo di una figura misteriosa le donne di una cittadina si addormentano senza più svegliarsi -.

Ad ogni modo, la bibliografia di Stephen King tende ad estendersi a livelli spropositati: vi sono infatti undici raccolte di racconti – di cui vanno citati “A volte ritornano”, “Stagioni diverse”, “Scheletri”, “Quattro dopo mezzanotte” e “Cuori in Atlantide” -; otto opere appartenenti alla serie “La Torre Nera”; la Trilogia di “Mr. Mercedes”; nonché sette romanzi pubblicati inizialmente con lo pseudonimo di Richard Bachman di cui è indispensabile citare “La lunga marcia” – la cui trama si svolge intorno ai partecipanti ad una terrificante competizione organizzata annualmente da una versione dispotica degli Stati Uniti -; “L’uomo in fuga” – nuovamente ambientato in un’America crudele in cui un uomo si vede costretto a partecipare ad un sadico show in cui se sopravvive 30 giorni a uno squadrone di mercenari gli verranno consegnati un milione di dollari -; e “L’occhio del male” – in cui una coppia borghese viene colpita da una maledizione lanciata da una zingara da loro investita e uccisa – e cinque e-book – tra i quali spicca “Nell’erba alta” scritto a quattro mani con il figlio Joe Hill -.

La casa in stile vittoriano in cui vive Stephen King a Bangor, nel Maine.

Il tutto, per un totale di 87 opere diffuse tra il 1974 e il 2018. Lecito è chiedersi come sia possibile mantenere in una distanza di tempo una così estesa produttività, ma ancor più una qualità tanto elevata. Lo scrittore ha raccontato di scrivere dalle 8,30 alle 11,30, ogni giorno, a eccezione del giorno di Natale, del giorno del Ringraziamento e del giorno del suo compleanno. Solo sul tramonto degli anni ’90 la sua routine venne interrotta. Il 18 giugno 1999, verso le quattro del pomeriggio, King uscì per la sua abituale passeggiata di sei chilometri nei dintorni di Center Lovell. Giunto sulla Route 7 il re dell’horror stava camminando sul ciglio della strada quando fu travolto in pieno da un minivan Dodge blu alla cui guida vi era Bryan Smith, un quarantaduenne proprio in quell’attimo distratto dal suo rottweiler saltato sul sedile posteriore. Trasportato d’urgenza al Central Maine Medical Center di Lewston; a King vennero diagnosticati una serie di gravi traumi fisici: polmone destro perforato, gamba destra fratturata in nove punti tra cui ginocchio e anca, colonna vertebrale lesa in otto punti, quattro costole spezzate e lacerazione del cuoio capelluto. Uscito dall’ospedale il 9 luglio, dovette ricorrere a sette operazioni chirurgiche oltre a una lunga e dolorosa convalescenza. Dopo aver accettato le scuse di Smith, lo scrittore decise comunque di denunciarlo per fargli ritirare la patente e di acquistarne il veicolo per 1,600 dollari. Nonostante il disappunto, in autunno Stephen King fu in grado di tornare al suo disciplinato piano di lavoro; al contrario di Smith che inizia a soffrire di problemi di cuore, fino a morire d’infarto il 21 settembre del 2000; proprio il giorno del compleanno dello scrittore. 

Senza ombra di di dubbio; il rapporto tra Stephen King e la paura ha radici molto profonde, legate alla sua infanzia, ancorate ai luoghi in cui è cresciuto. Il Maine assume così un ruolo di primaria importanza all’interno dei suoi incubi. Stephen King vive a Bangor, una cittadina a due ore d’autostrada della sua città natale che lo ha ispirato nella creazione della fittizia Derry. Molte altre cittadine che rivivono nei suoi romanzi, come ad esempio Castle Rock, sono allo stesso tempo trasposizioni di prati, marciapiedi,  strade calpestate da King e succhiate a cittadine della zona. La sua vena inesauribile è quindi imprescindibilmente legata al Maine; Stato in cui gli inverni sono lunghi e rigidi, dove la vita può rivelarsi dura; dove si avverte un’atmosfera particolare; perché verso sera alberi, case, lapidi, proiettano ombre lunghe, incombenti, e nell’atmosfera sembra insinuarsi un qualcosa di minaccioso, la sensazione che qualcosa di tenebroso sia in attesa di accadere. Semplicemente, nel Maine si percepisce la presenza della morte, la si sente più vicina. 

L’aver venduto, attualmente, 350 milioni di copie in tutto il mondo non ha indotto Stephen King a vivere in un luogo che non fosse Bangor, dove possiede una casa in stile vittoriano, su due piani, composti da 28 stanze con un’inferriata contraddistinta da ragnatele, ragni, pipistrelli e mostri a tre a teste; divisa insieme alla moglie e agli adorati gatti, i soli di cui ha ammesso di gradire la compagnia mentre si trova nel proprio studio. Immerso in un mondo tutto suo, oscuro, impenetrabile, popolato da personaggi  apparentemente ordinari, dietro al cui velo di normalità, si celano segreti, fobie, alienazioni, desideri inconfessati e inconfessabili. E Stephen King li osserva, in attesa che l’ennesimo palloncino rosso spunti dalle fognature.

Stephen King in compagnia di alcune delle “creature” concepite dalla sua mente: Pennywise per “It”, Carrie White per “Carrie”, Jack Torrence per “Shining” e Annie Wilkes per “Misery non deve morire”.