Quarantena

Non ho ancora capito cosa mai possiamo aver fatto per aver meritato tutto questo. All’inizio aprivo gli occhi e l’unico senso in grado di affiorare era un vuoto ingombrante. Un senso di nulla scandito da un rimbombo sordo, pulsante ma ovattato. Quel senso di vacuità senza date, né luoghi, senza giorno, né notte inghiottito a poco a poco dall’affiorare di passi dispersi, voci indistinte, echi simili a fili aspri. Solo allora quel pozzo senza fondo inizia a creparsi, a sgretolarsi. E lì, tutto si rovescia. La materializzazione della realtà sono i morti. Una processione di volti sconosciuti, immaginati, forse nemmeno mai esistiti. I morti ormai non muoiono, i morti nascono sotto forma di numeri privi di vicinanza, di vissuto comune. Ipocrisia. La gente moriva anche prima della quarantena. Ma ora c’è la paura. La paura di diventare un numero. La paura che tua madre o tuo padre, diventino niente altro che un numero. Genitori, figli, nonni, mariti, mogli, amanti, amici; tutti numeri.

Non siamo abituati ad aver paura. 

Ma il nostro sangue sembra avere bisogno di paura. Di quel brivido che rende infinitesimale ed eterno l’attimo in cui si spinge il piede sull’acceleratore, in cui si apre un paracadute, in cui si salta da un tetto a un altro, in cui ci si lancia con la sola certezza di una corda elastica da un grattacielo. La paura scenografica, quella spacciata per adrenalina, quella che scegli. Quella che pensi non ti possa uccidere perché è un alleato delle nostre mancanze. 

Non un nemico invisibile come tutto questo.

A Los Angeles non ci sono piazze. A Roma il Papa attraversa una piazza deserta lunga secoli di storia. Ogni passo è una storia. La storia dei morti, dei vivi, dei vivi che non ce la faranno, dei vivi che andranno oltre. Storie senza gloria, forse, scomparse o in attesa di dissolversi nel silenzio di una agonia soffocante.

Così si legge. Forse non rimane altro da fare che non leggere. Perché questo presente non esiste, non può esistere. Eppure c’é. Il problema di tanti pare essere la libertà. Talmente liberi da essere stati per anni solo dei pacchi abbandonati.

Gente che canta sui balconi per esorcizzare l’ombra del mantello nero che schiaccia il sole. Mezzi militari che trasportano bare come statue scolpite sul marmo.

Armerie prese d’assalto al punto da doverle chiuderle prima dei ristoranti. I senzatetto, metafora della materia incorruttibile che è un’esistenza senza certezze. Hollywood, che non vive proprio a Hollywood bensì a Beverly Hills, a Brentwood, a Los Feliz, a Bel Air, a Malibù, è già allenata a fare delle varie vite un film che il capitolo Covid-19 accresce l’inesistenza di persone ormai chiamate con i nomi dei loro personaggi. 

Tutto pare ridursi alla negazione della vita.

Ero un’ombra prima della quarantena. Lo sono ancora di più. Mi impongo di scrivere, di leggere, di alimentarmi correttamente, di evitare alcolici. Vorrei imparare la lingua di qualche animale. A volte mi ritrovo a pregare Dio, la Natura, i miei morti, le stelle. La voce di ognuno è però il silenzio.

Quando il pallore di chi amo mi strozza le vene, mi soffermo sui suoi occhi e il mio bisogno di consolazione allenta una tensione che rischierebbe di risucchiarmi in un vortice di non so cosa, perché non esistono ancora le parole capaci di descrivere cosa sia la paura della morte di chi si ama. O almeno, io non le conosco. Qualcosa di simile, ma amplificato, dal masticare pezzi di vetro o schiacciare la testa di un serpente con un piede scalzo.

Rifletto sui motivi per cui sia stata inventata l’espressione “ti amo” quando in realtà ognuno di noi quando dice “ti amo” pensa a un “ti amo” differente. 

A volte immaginiamo cosa faremo quando sarà finito tutto questo, ma basta poco e ci ritroviamo a parlare di cosa abbiamo fatto quando nel mondo sembrava non esserci posto per tutto questo.

Non so cosa cambierà quando usciremo. Forse saremo più poveri dentro e fuori. Eppure qualche ricchezza dovremo pur averla fatta nostra. Tutta questa paura, tutta questa attesa, tutto questo dolore, non possono solo aver modellato la forma tangibile della nostra precarietà, delle nostre fragilità inconfessabili. E se anche fosse, se questo vacillare, se questo guardarsi intorno disorientati come animali feriti ci avesse resi consapevoli della nostra precarietà, se avessimo imparato l’ovvio, e così sia.

Mi chiedo il perché. Mi chiedo quale deforme oscurità sia riuscita a infiltrarsi nel nostro mondo imperfetto. Forse il perché siamo noi, siamo noi i soli responsabili, siamo noi ad aver modellato la morale di quel tremore di luce. 

Quando la osservo sento, non vedo, sento, che quanto vi è nel suo essere di puro, di ignoto, di dolce, di inquieto, di spirituale, di corrosivo, sono riuscita a farlo coesistere. 

Non voglio che mi abbandoni quel qualcosa che ancora mi fornisce la prova dell’eternità. Quell’amore imponderabile che sovrasta ogni plausibile amore e che mi impedisce di essere banale polvere, soffiata via dall’assenza di questo ancor più malato amore. 

One comment

  1. Stefano Tardi

    …una sensibilità fuori dal comune, un’onestà intellettuale che raramente si riscontra nell’umanità, un talento che continua, dirompente, a manifestarsi sotto svariate forme…anche nelle ore più buie, Samantha Casella riesce a creare, donandola generosamente a chi ha il privilegio di seguire il suo percorso artistico, una peculiarie prospettiva ed una straordinaria bellezza…

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