La quinta del sordo, cripta delle pitture nere di Goya
Nella periferia occidentale di Madrid, sulla sommità di un colle a fianco della riva destra del fiume Manzanarre, a circa trecento metri dal ponte di Segovia, vi era un’area destinata per lo più alla coltivazione di alberi da frutto. Fu all’interno di quello spazio desolato in cui nel 1795, Anselm Montañez decise di costruire una casa padronale, da lì a poco destinata a essere ribattezzata Quinta del Sordo dato che nei paesi iberici con il termine quinta sono identificate le case di campagna, quanto alla parola sordo, era risaputo che il proprietario soffrisse di sordità. Intrecci del destino vollero che tre anni prima, Francisco Goya iniziò a soffrire di una malattia mai propriamente diagnosticata, ma probabilmente dovuta a un’intossicazione da piombo contenuto contratta dal pittore perché solito inumidire i pennelli con la bocca e di conseguenza esposto a un graduale avvelenamento causato dai pigmenti presenti nei colori. Le conseguenze di quest’infermità furono devastanti: costretto a letto da una brutale paralisi, Goya fu funestato da feroci emicranie, disturbi visivi e vertigini e il suo stato di salute si fece talmente grave che si temette persino per la sua vita. Non solo, nell’arco di di un paio d’anni fu colpito da devastante sordità, dalla quale non sarebbe guarito per il resto della vita.
Se da una parte il feroce assolutismo di Ferdinando VII provocò la perdita dei privilegi e il conseguente allontanamento del pittore dalla corte, d’altro canto il bisogno di solitudine accarezzato dalla necessità di riavvicinarsi alle proprie origini – in quanto sulle rive del Manzanarre, l’artista diede inizio alla sua carriera lavorando ai cartoni per la manifattura reale degli arazzi di Santa Barbara – spinsero l’ormai settantatreenne Francisco Goya ad acquistare quella casa di campagna ormai senza più padrone, alla cifra di 60.000 reali spagnoli per quindi trasferirvisi il 27 febbraio del 1819 insieme alla giovanissima compagna Leocadia Zorrilla.
Invece di donargli la serenità invocata al pari di un intimo desiderio di riappacificarsi con i colori sgargianti che un tempo rappresentavano la sua pittura, la Quinta del Sordo al contrario si trasfigura in una fonte di ossessioni tanto che, in preda a una sorta di delirio, Goya dipinge a olio l’intonaco delle pareti con immagini spaventose: sono le cosiddette “Pinturas Negras”; le “Pitture Nere”.
La visione onirica e suggestiva già esplorata da Franciso Goya nei Capricci e rafforzata nel tempo da una scrupolosa indagine sul lato oscuro della ragione, sfociò irrimediabilmente in una visione ambigua sulla reale natura dell’essere umano. Un culmine emotivo rigettato in quattordici dipinti a olio su intonaco, tracciati fra il 1820 e il 1821, proprio sulle pareti della Quinta del Sordo. Consacrate all’immortalità saranno quattordici scene allegoriche legate da un filo rosso tematico che affonda le proprie radici sul trionfo del male ai danni della tragica condizione umana. Questi soggetti sono sovrastati da un’atmosfera tenebrosa, allucinata, da una visione macabra dell’inconscio. Per trasmettere questo disagio, Goya si avvalse di tinte fosche; bianchi sporchi amalgamati a neri spessi condensati come catrame, ocre fangose, rossi e gialli violenti. Inevitabile è interrogarsi sui loro significati, ragione in più che da essi emergono creature appartenenti a personaggi biblici o mitologici, credenze popolari e superstizioni conducibili al mondo dell’occulto.
In questo ciclo, composto da sette dipinti per piano, larghi circa quanto gli spazi tra le porte e le finestre; Francisco Goya realizzò al pianoterra i seguenti dipinti: “Il pellegrinaggio a San Isidro”, “Il sabba delle streghe”, “Giuditta e Olioferne”, “Saturno divora i suoi figli”, “La Leocadia”, “Due uomini anziani” e “Due vecchi che mangiano”; mentre nel primo piano diede vita a “Visione Fantastica”, “Pellegrinaggio alla fonte di san Isidro”, “Atropo”, “Duello rusticano”, “Donne che ridono”, “La lettura” e “Cane interrato nella rena”.
Partendo da “Il pellegrinaggio a San Isidro” l’artista espone la numerosa e fanatica schiera di pellegrini che attraverso i colli brumosi affiorano con aberrante brutalità. Questa folla incontrollata si reca all’eremitaggio dedicato a uno dei santi più amati a Madrid, dove secondo la tradizione, si trova una fonte miracolosa. Tutto è tetro, il corteo dei fedeli in delirio invoca l’intervento del divino, gli occhi spalancati, le bocche aperte in grida esaltate e confuse; uomini, donne, monaci incappucciati, dai volti deformati dall’esaltazione, che sembrano fondersi l’un l’altro in un insieme di tratti ossessivi in preda a allucinazioni collettive.
In “Giuditta e Oloferne” Francisco Goya propone una personalissima visione della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. Altrettanto affine alla propria sfera emotiva è “La Leocadia”, raffigurazione di una donna identificata come domestica ma più presumibilmente la compagna di Francisco, ossia Leocadia Weiss. Da brividi è “Due uomini anziani” il quale propone un anziano che si sorregge tramite un bastone, assalito alle spalle da una carcassa umana dai tratti demoniaci. Altrettanto inquietante è indubbiamente “Due vecchi che mangiano” in cui emergono due figure deformate dall’età e dalla malattia, tanto da essere ridotti quasi a scheletri, anzi, uno di loro anziché un volto è ormai un teschio corroso dalla morte.
Di enorme impatto è “Il sabba delle streghe”. In esso vi è raffigurato Satana mentre, elevandosi su un ammasso roccioso, apostrofa la folla al suo cospetto.Presenta una fisiognomia caprina, con tanto di barbetta e corna, e di lui non intravediamo che una silhouette: l’origine di un’immagine come questa va probabilmente ricercata in un’illustrazione del 1652 di Athanasius Kircher raffigurante l’antica divinità cananea di Moloch. Al cospetto di del diavolo si trovano, disposte a semicerchio, un gruppo di donne accovacciate e perlopiù terrificate: si tratta con tutta probabilità di una congrega di streghe. Di queste alcune chinano il capo per il terrore, altre sono scosse da un’agitazione febbrile, altre ancora osservano Satana con sguardo assorto e rapito. Per citare le parole dello storico dell’arte Brian McQuade, la «sub-umanità di queste persone è enfatizzata dalle loro fisionomie bestiali e dai loro sguardi idiotici». Su di loro, Satana impone la propria autorità non mediante il rispetto e un carisma personale, bensì grazie alla paura, alla rivalità e alla discordia.In questo concorso di streghe traspare la furente critica di Goya rivolta alla disumanizzazione della folla, che qui perde i propri tratti individuali per miscelarsi in un grappolo grottesco di visi deformi e terrorizzati. A destra di Satana troviamo una vecchia in posizione tergale, con la faccia seminascosta e avvolta da un copricapo bianco, che rivolge il proprio sguardo alle consorelle, facendosi spazio tra le varie bottiglie per le cerimonie demoniache e fiaschette vuote abbandonate sul terreno. Infine, scorgiamo una figura femminile appartata, elegantemente vestita e dai tratti somatici incerti: si tratta, probabilmente, di una donna pronta per essere iniziata alla pratica dei culti satanici, anche se altri critici d’arte vi hanno identificato Leocadia, la giovane fanciulla compagna di Goya che assisteva impotente ai suoi incubi.
Il piano terra si conclude con una delle opere più note di Francisco Goya, ovvero “Saturno che divora i suoi figli”. Si tratta di un soggetto mitologico che riprende un tema già affrontato nel 1637-1638 da Rubens in una tela omonima: “Saturno”. Si trattava di una divinità identificata dai Greci con Crono, il più giovane dei Titani, figlio di Urano – il Cielo – e di Gea – la Madre Terra -. Secondo la cosmogonia greca, Crono, essendogli stato profetizzato che uno dei suoi figli lo avrebbe soppiantato e privato del potere, li iniziò a divorare uno a uno. La moglie Rea riuscì a porre in salvo solo Zeus, il sestogenito, che mise provvidenzialmente in salvo nell’isola di Creta. Qui Zeus crebbe, nutrito dalla ninfa Adrastea con il latte della capra Amaltea, e diventato adulto affrontò il padre, lo obbligò a restituire i figli ingoiati e lo spodestò dal trono, diventando il signore supremo di tutti gli dei. L’opera coglie Saturno mentre divora uno dei suoi figli appena nati. Si tratta di una scena terrificante: Saturno è in preda a una foga cannibalesca e ha uno sguardo allucinato, gli occhi che fuoriescono dalle orbite, le fauci spalancate e le mani avide, ed esprime una «violenza che diventa pura energia del male». Del figlio, invece, non rimangono che pochi brandelli sanguinolenti. La scena, immersa in un buio nero come catrame, è rischiarata qua e là da una luce radente proveniente da sinistra che conferisce peso e verosimiglianza alle due figure. Le pennellate, invece, sono forti, rapide e informali. Sono state avanzate varie interpretazioni del significato del dipinto: il conflitto tra vecchiaia e gioventù, il tempo come divoratore di ogni cosa, la Spagna che divorava i suoi figli migliori in guerre e rivoluzioni. Un’altra interpretazione identifica la figura di Crono con quella di Ferdinando VII, che dopo la restaurazione e il ritorno sul trono di Spagna attuò il ripristino dell’assolutismo e la repressione di qualsiasi fermento d’ispirazione liberale. Tuttavia, potrebbe riferirsi alla galoppante abdicazione della ragione in favore dell’irrazionalità, finalmente riconosciuta come vera forza motrice di ogni comportamento umano. A prescindere da queste difficoltà interpretative, comunque, il “Saturno che divora i suoi figli “ è certamente il quadro più estremo e compiuto del ciclo delle cosiddette Pitture Nere, al quale è legato, oltre che per un’omologia dei toni cupi e minacciosi, anche per un fil rouge tematico legato proprio alla figura di Saturno, tradizionalmente associata alla disperazione e alla vecchiaia.
Al piano superiore spiccano “Pellegrinaggio alla fontana di San Isidro” che raffigura una processione guidata da un gruppo di otto persone tra cui un uomo che indossa abiti de diciassettesimo secolo con in mano un bicchiere, un monaco o una suora; “Donne che ridono” ritraente tre entità che sembrano uscite dal regno dell’oltretomba; “La lettura” quasi di certo una rivisitazione del clima di clandestinità ed incertezza politica e sociale che serpeggiava in Spagna; “Duello rusticano” raffigurante un duello tra due popolani che, con armi di fortuna, si scontrano con violenza grezza ed immediata: i due, infatti, tentano di percuotersi con dei bastoni, consapevoli che lo scontro terminerà solo dopo la morte di uno di loro; e “Atropo” ossia un dipinto dedicato alle tre moire, ossia Cloto, che nella tradizione aveva in mano una conocchia – uno strumento che serve per filare – ma che Goya sostituisce con una bambola o con un neonato, simboleggiando l’inizio della vita, Lachesi che, con in mano una lente, rappresenta il tempo che scorre ed infatti è intenta ad analizzare con il suo strumento il dettaglio del filo della vita ed infine Atropo stessa, con in mano un paio di forbici, il cui compito è per l’appunto di tagliare il filo della vita e quindi allude alla morte.
Fonte di infiniti dibattiti tra i critici è tuttora “Visione fantastica”; alla cui sinistra appaiono due figure, una maschile e una femminile, sospese in volo su un paesaggio dominato da una grande montagna. I due guardano in direzioni diverse, con espressione spaventata: la donna si copre in parte il volto con la propria veste. In primo piano sulla destra, invece, una fila di soldati francesi punta i fucili contro un folto gruppo di uomini che ignari viaggiano con cavalli e carri: questi ultimi potrebbero essere dunque spagnoli fuggiti dalle loro terre durante il conflitto con la Francia.
Il ciclo si conclude con il simbolico “Cane interrato nella sabbia”. L’opera è caratterizzata da una composizione estremamente semplice, dove Goya sceglie di eliminare il superfluo e di avventurarsi verso l’astrazione pura: il dipinto presenta un’estrema sobrietà nella selezione degli elementi pittorici e del colore, con la tavolozza arpeggiata sulle sfumature del giallo e dell’ocra. L’immagine non fa che rappresentare una porzione esigua del visibile, e ci è impossibile riconoscere se questo mare di giallo intende rappresentare una duna desertica e sabbiosa, la corrente fangosa di un fiume o di un terreno sprofondato in una voragine, o forse devastato da una frana. Charles Yriarte propose una diversa interpretazione quando nel 1867 lo definì «un cane che nuota contro corrente», ipotesi che potrebbe far pensare che il cane stia in realtà annegando tra i flutti melmosi di un fiume, malgrado la compattezza della superficie gialla ricorda piuttosto una voragine sabbiosa. Tuttavia, ogni interpretazione è poco significativa ai fini del senso lirico del dipinto. Un particolare, infatti, colpisce l’osservatore: si tratta di un piccolo cane che sta lentamente naufragando in questo mare di giallo. L’animale ha il naso umido e nerissimo, le orecchie pelose, le pupille terrorizzate e uno sguardo sgomento e dolcissimo. Egli, infatti, non vuole morire, e pertanto volge la testa verso l’alto, conducendo una lotta cieca ed affannosa per non rimanere intrappolato nella morsa della sabbia – o dell’acqua fangosa -. Egli, tuttavia, è terribilmente solo: nessuno verrà a prestargli soccorso. In quest’opera la visione goyesca sulla perfidia della Natura raggiunge il massimo furore espressivo. È opinione di Goya, infatti, che la Natura è totalmente insensibile al destino delle creature da lei create; essa, inoltre, non è guidata da un disegno benevolo volto a rendere felici i singoli esseri viventi, bensì intende solo perpetuarne l’esistenza in un processo meccanicistico di creazione e distruzione.
Ad ogni modo, l’esilio alla Quinta del Sordo si interruppe bruscamente nel 1823 quando Goya decise di ritirarsi definitivamente in Francia, sempre in compagnia della compagna Leocadia. Il 17 settembre 1823, dunque, Goya affidò la Quinta del Sordo al nipote Marianito, figlio di Javier. L’immobile sarebbe poi passato nel tardo Ottocento al barone Emil Erlanger, il quale dispose che le opere goyesche venissero strappate dalle pareti, trasportate su tela e infine condotte al museo del Prado, in cui giunsero nel 1881. Vani furono i tentativi di trasformare la residenza in un museo dedicato al pittore e nel 1910 la Quinta del Sordo venne demolita.
Malattia, follia, disperazione, superstizione, angoscia. Queste le sensazioni che tuttora emergono dalle quattordici Pitture Nere. Inevitabile è interrogarsi non solo sui significati di simili capolavori, ma anche sulle ragioni che spinsero Francisco Goya ad immergersi in un incubo di tale portata, quasi avvertisse la necessità di rendere testimoni le proprie opere del dolore che ne minava il fisico, ma ancor più dell’agonia racchiusa in un’anima minacciata da visioni terrificanti, al punto da rendere l’arte un portale proiettato verso il mondo dell’occulto.