La persistenza della memoria

«Il giorno in cui decisi di dipingere degli orologi, li dipinsi molli. Ciò avvenne in una sera in cui ero stanco. Avevo l’emicrania, il che mi accade raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e all’ultimo momento decisi di restare a casa. Gala uscì con loro, mentre io mi coricai presto. Avevamo concluso la nostra cena con un camembert eccezionale e, allorché fui solo, rimasi ancora per un momento seduto a tavola pensando ai problemi che mi poneva questo formaggio. Mi alzai e mi recai nel mio studio, per gettare un ultimo sguardo al mio lavoro, come era mia abitudine. Il quadro a cui stavo lavorando raffigurava un paesaggio nei dintorni di Port Lligat, le cui rocce sembravano illuminate dalla luce trasparente del crepuscolo. In primo piano avevo dipinto un ulivo, dei rami tagliati e senza foglie. Questo paesaggio doveva servire di sfondo ad una nuova idea, ma quale? Cercavo un’immagine sorprendente, ma non riuscivo a trovarla. Spensi la luce, e uscii dalla stanza e in quel preciso momento “vidi” letteralmente la soluzione: due orologi molli, uno dei quali pietosamente appeso a un ramo dell’ulivo. Malgrado l’emicrania, preparai la mia tavolozza e mi misi all’opera. Due ore dopo, allorché Gala tornò dal cinema, il quadro era finito…». È con queste parole che tra le pagine di “La mia vita segreta” Salvador Dalì racconta la genesi di una delle sue opere più celebri: “La persistenza della memoria”.

Entrando nello specifico della composizione; “La persistenza della memoria” raffigura un paesaggio costiero della Costa Brava dominato da un cielo che emana sfumature gialle e celesti. La scenografia è essenziale seppure, per quanto priva di vegetazione, fa leva sulla presenza di diversi oggetti: un parallelepipedo color terra, un ulivo rinsecchito, un occhio dalle lunghe ciglia addormentato e un plinto blu sullo sfondo, che fa pendant con il mare che si scorge, tenue, sullo sfondo. Assoluti protagonisti della scena sono tre orologi molli, quasi liquefatti. Sciogliendosi, essi si adattano alla superficie che li sostiene: il primo ha una mosca su di esso e scivola oltre il bordo del volume collocato in primo piano, il secondo è sospeso sul solo ramo dell’albero secco, mentre il terzo è avvolto a spirale su una mesta figura embrionale colante sul suolo. Un quarto orologio, l’unico a essere rimasto allo stato solido, è collocato sempre sul parallelepipedo ed è ricoperto di formiche nere brulicanti. 

“La persistenza della memoria” è una acuta quanto malinconica riflessione sulla relatività del tempo, il cui scorrere è scandito da alcuni orologi che, a rigor di logica, dovrebbero misurare oggettivamente la dimensione terrena. Questi strumenti così precisi, così tecnici, così apparentemente infallibili, sono però messi in crisi, smentiti, cancellati, dalla memoria umana, un dato né quantificabile né tangibile che è alla base della soggettività del tempo.

Affascinato dalla psicoanalisi e dalle teorie di Sigmund Freud, Dalì raffigura così diversi soggetti come a testimoniare che il tempo non scorre nello stesso modo per gli uomini, gli animali e i vegetali. Non a caso, se un’ora è un tempo rilevante per una formica che vive appena pochi mesi, per gli esseri umani al cospetto di ottanta anni di vita è palesemente ben poco, così come assume un valore insignificante per un albero che può vivere secoli. Ne consegue che ognuno ha una propria visione della vita e dei ricordi che vanno a ritmo diverso. 

Il pragmatismo che caratterizza la gestione individuale delle giornate di ogni essere umano ha imposto una scansione del tempo rigorosa, in quanto esso è misurato in secondi, minuti, ore, giorni, settimane; ovvero dati che tentano di quantificare una dimensione che in questo modo si propone oggettiva, fissa, calcolabile in modo preciso e puntuale. Secondo l’interpretazione di Dalì, tuttavia, non tutto può essere sempre calcolato e monitorato da strumenti tecnici come orologi e calendari, ma bisogna anche considerare le emozioni, le sensazioni e l’esperienza umana: una apparentemente banalissima ora per un essere umano può avere un valore inestimabile se nell’arco di quei sessanta minuti accade un evento destinato a segnargli la vita. In tal modo viene messa in crisi l’oggettività del tempo poiché riconoscere i secondi, i minuti e le ore è diverso da vivere e distinguere gli attimi in base al loro spessore, alla loro importanza

Salvador Dalì ha voluto quindi rappresentare una delle principali paure e condanne che sempre ha afflitto e sempre affliggerà gli esseri umani: il terrore del tempo che fugge. La discontinuità e l’ambiguità del tempo, l’impossibilità di fissarlo in modo inequivocabile all’interno della nostra esistenza, si ritrovano inoltre nell’elemento faunistico rappresentato dalla mosca adagiata sul primo orologio; come a suggerire che l’oggetto della memoria è una qualche specie di carogna, che si imputridisce nella stessa maniera in cui si liquefà. Al contempo, le formiche che brulicano sull’orologio arancio simboleggiano l’annullamento dell’oggettività del tempo, un elemento che, essendo inafferrabile, non può essere imprigionato in un oggetto fisico.

Il dipinto, inizialmente denominato “Gli orologi molli”, fu acquistato nel 1932 dal gallerista Julien Levy che puntualmente lo espose nella propria galleria di New York, seppure dopo avergli assegnato un nuovo titolo “La persistenza della memoria”. Ad ogni modo, tempo appena due anni, l’opera fu acquistata al prezzo di 350 dollari dal Museum of Modern Art, dove è tuttora posta. Tutto ciò contribuì a spingere Salvador Dalì nell’Olimpo dell’arte; in quel regno in cui il solo tempo concepito è l’eternità.