Coco Chanel, la donna che si impose sul destino

Quando nacque la sua seconda figlia, Albert stava girovagando, di mercato in mercato, tra i paesini incastonati sui monti dell’Alvernia, dove la natura domina tutto, tra picchi montuosi, foreste, laghi e persino qualche massiccio vulcanico i cui crateri profondi sono testimoni delle violente collere di un tempo. Schiacciato non solo dalla potenza di quei paesaggi, Albert era un uomo sconfitto dalla vita: già padre di una bambina; si era venduto a Eugénie Devolle, detta Jeanne, quale commerciante anziché ambulante di biancheria intima e quella menzogna più o meno innocente si trasfigurò in avidità quando i genitori della ragazza gli offrirono una somma di denaro affinché la sposasse per evitare lo scandalo di due figlie “senza padre”. La realtà prese forma attraverso la perenne assenza dell’uomo e la necessità della donna di lavorare, nonostante la salute cagionevole, come lavandaia presso l’ospedale di beneficenza gestito dalle Sorelle della Provvidenza a Saumur. E fu lì, in una misera abitazione adiacente all’ospizio dei poveri che il 19 agosto del 1883 Jeanne diede alla luce Gabrielle. Troppo debole per presenziare alla registrazione della bambina, all’anagrafe storpiarono il cognome di Gabrielle in “Chasnel”. Un errore a cui nessuno pensò di rimediare, almeno finché Gabrielle non divenne Coco; al che, quel “Chasnel”, venne corretto in Chanel.

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Rudolf Nureyev, il tartaro volante

L’essere umano da sempre avverte il bisogno primordiale di confrontarsi con l’archetipo del viaggio e le infinite implicazioni simboliche a esso connesse. Sete di conoscenza, desiderio di riscatto o di conquista, ricerca della verità; da Ulisse a Enea, dai cavalieri erranti agli Argonauti, dalle  migrazioni mongole alle peregrinazioni del popolo ebreo per arrivare al percorso nell’aldilà della Divina Commedia; sono molteplici i viaggi nell’antichità, nella letteratura e nelle fiabe; tra cui la storia di una donna russa, Farida, che nel marzo del 1938 insieme alle tre figlie intraprende un viaggio, da Ufa a Vladivostok, dove lavorava il marito, Hamet, un militare dell’Armata Rossa di origine tartara. È lì, su un vagone di un treno nella Ferrovia Transiberiana nei pressi di Irkutsk, in Siberia, che il 17 marzo dà alla luce il quarto figlio, Rudolf Nureyev.

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Espiazione, il senso di colpa incancellabile

È un caldo giorno d’estate del 1935 e l’Inghilterra sta per imbarcarsi in una nuova guerra seppure l’alta borghesia, personificata nella famiglia Tallis, cerca di non pensarci, almeno a eccezione dell’assente padre di famiglia regolarmente costretto a intrattenersi a Londra. Ad assorbire la signora Tallis è invece l’incessante emicrania, nonché l’arrivo nella villa in campagna dei nipoti: Lola e i gemelli. Non meno impegnativa è l’accoglienza che desiderano riservare al figlio maggiore, Leon, in arrivo con un amico, tale Paul Marshall, ricco proprietario di una fabbrica di cioccolato che ha ideato delle barrette che punta a imbucare nella sacca dei soldati britannici. Emily ha pure altre due figlie: la mezzana Cecilia e la minore di dieci anni Briony. Se la prima è combattuta, frenata, tra e dalle scelte da compiere per il suo futuro – e causa di ciò si renderà conto essere i sentimenti inconsci che la legano a Robbie, figlio della donne delle pulizie -, la seconda è una tredicenne egocentrica, ma in primo luogo provetta scrittrice in quanto dotata di una immaginazione senza confini. Sono queste le basi su cui si posa Espiazione di Ian McEwen che, in quel preciso giorno, fa accadere una catena di eventi destinati a distruggere la vita di due persone. Forse tre.

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Virginia Woolf e la lucida voce della coscienza

Sono le dieci di mattina di un mercoledì di giugno del 1923. Clarissa Dalloway è una signora cinquantenne appartenente all’alta borghesia londinese – della quale incarna alla perfezione pregi, difetti, vizi e creature – che conduce una vita apparentemente perfetta: è sposata con Richard, un uomo nobile e di buon carattere, ha una figlia e può contare Sally, una cara amica che sopporta i suoi capricci. La sera stessa si terrà una festa a casa sua, per questo «la signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei».

È una mattina come tante: il sole splende alto in cielo, l’aria è fresca, le bandiere sventolano armoniose, le strade brulicano di vita ma, mentre cammina lungo una strada del centro, diretta al negozio di fiori, è pervasa dalla sensazione «di essere invisibile, non vista, non conosciuta e d’un tratto non ci furono più matrimonio, ne’ figli, ma soltanto quella solenne processione, su per Bond Street..». E qualcosa si insinua nella sua mente, ricordi simili a tarli, uno scellino gettato nella serpentina, gli echi di antiche emozioni mentre… «si chiese che importava se avesse ineluttabilmente cessato di esistere e tutto sarebbe continuato senza di lei, le dispiaceva, forse? O non la consolava piuttosto credere che con la morte finisce tutto, completamente, ma in un qualche modo per le strade di Londra, nel flusso e riflusso di tutte le cose, qui, là, lei sarebbe sopravvissuta».

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Linda Evangelista, l’ottava meraviglia

«Bellezza e verità sono una cosa. 

Questo è quanto sappiamo sulla terra 

E questo è tutto che sapere importa».

John Keats

Una bellezza sconvolgente, non propriamente sensuale, semmai androgina, multiforme, levigata, minacciosa, spiazzante, aliena. Una bellezza che sembra aprire i cancelli per un nuovo mondo, inesplorato, pulito, ordinato, asettico. Di una sporgenza esasperatamente equilibrata sono gli zigomi,  perfetto è il taglio degli occhi, di colore verde smeraldo, di una finezza melodiosa è il disegno delle labbra, mentre il naso propone una forma particolare, si potrebbe quasi percepire un lieve difetto nella narice sinistra; un effimero dettaglio, una infinitesimale stonatura, quel tocco che la rende un esemplare inconfondibile. L’essere umano che più di ogni altro è stato  definito un capolavoro. L’ottava meraviglia. Linda Evangelista.

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Le streghe di Nogaredo

È l’11 novembre del 1646 quando nella piazza di Nogaredo, tal Maria, nota con il soprannome di Mercuria, accusa di furto un’umile venditrice locale di gamberi, Domenica Chemelli detta Menegota, per poi appellarla a stria, ossia strega. La prima a essere accompagnata nella prigione della Rocca di Castel Noarna è Mercuria su cui pendeva un’accusa di aborto in quanto, si sapeva, aveva aiutato ad abortire una ricca donna del feudo, la marchesa Bevilacqua. Inizialmente restia a collaborare, le vengono tagliati i capelli per poi essere sottoposta a interrogatori sempre più pressanti finché, dopo tredici giorni non solo si autoaccusa, ma afferma che sono state Domenica Chemelli e sua figlia Lucia Cavedem, conosciuta come Morella per via dei lunghi capelli corvini, a iniziarla come strega trattenendo l’ostia consacrata da sotto la lingua dopo la comunione e imprimendole il marchio del demonio sulla spalla; per quindi raccontare di aver preparato ungenti satanici con polvere di ossa di morto e di aver partecipato a sabba con altre donne dei dintorni guidate da uno stregone chiamato Delaito. Quel banale battibecco per delle corde di canapa tra due donne provenienti da un ceto sociale modesto prese a quel punto una piega incontrollabile, che sfocerà in “Il processo criminale per la distruzione delle streghe”.

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José Raúl Capablanca, il mito che nacque con la corona

«È un uomo elegante, senza avere i difetti che l’eleganza porta con sé; non fuma, non beve, è un igienista. Durante le fasi di giochi è destabilizzante, ma allo stesso appare egli stesso destabilizzato. Pare si tranquillizzi solo quando ottiene una chiara superiorità sull’avversario, eppure ho il sospetto che sia egli stesso il suo principale problema. Terminato il gioco l’impressione che trasmette è che per lui gli scacchi siano poco più di un passatempo». Così Rudolf Spielmann, maestro austriaco di scacchi, descrive José Raúl Capablanca, il genio per eccellenza, il talento incontenibile intorno alla cui figura venne costruito una sorta di mito dell’imbattibilità prima ancora che diventasse campione del mondo. Ma seppur tanti si inchinarono a Capablanca e ancor più assordanti furono le imprese da lui compiute, imbattibile il cubano lo fu principalmente nell’immaginario collettivo,   nei meandri della mente degli avversari che avrebbero preferito l’inferno al sedervisi di fronte.

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Eilean Mòr, il faro del mistero

Al largo della costa occidentale della Scozia affiorano dall’Oceano Atlantico i Sette Cacciatori (Seven Hunters), poi ridefinite Isole Flannan in onore del vescovo Flann il quale nel 1600 decise di ritirarsi su una di esse, Eilean Mòr. Il vento, il mare, i gabbiani e le preghiere furono gli unici compagni di quell’uomo che per vent’anni riflesse e placò in quei lembi di terra oltre le Ebridi Esterne il suo bisogno di dialogo con Dio. L’alienazione e la solitudine del vescovo Flann trasudava nei muri della modestissima cappella in cui aveva dimorato, unica testimone del suo passaggio, ma anche dei tragici naufragi che colpirono un numero considerevole di imbarcazioni che, sedotte dal miraggio di nuove rotte commerciali, avevano sfidato la sorte  trasfigurata nelle imprevedibili correnti atlantiche per trovare la morte proprio ai bordi di quelle sponde rocciose.

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Antonio Machado, la catarsi del dolore

Una solitudine profonda, alleggerita dal gravoso peso che custodiscono i ricordi, grave al pari del drammatico cammino che, tramite i versi, sembravano indicargli la via per accarezzare una elaborata catarsi, quel sofisticato processo di purificazione reso possibile da una intimista quanto penetrante introspezione in grado di lenire il dolore, eppure incapace di guarirlo. La poesia di Antonio Machado racchiude in sé stessa la più alta espressione avanguardista senza però appartenere a nessun movimento in quanto incastrata, intrappolata alla concretezza della terra ma al tempo stesso aleatoria, dolorosamente espressionista. I colori delle sue liriche sono intensi, accesi, riflettono quell’inquietudine, quelle domande senza risposta riguardo al tempo, l’amore, Dio e la morte, che hanno esteso le radici nella sua anima, provocando un tormento lacerante, impossibile da scalfire. Una sofferenza quella di Machado urlata a pieni polmoni ma da una tale distanza da giungere al lettore flebile come un sospiro, disturbate come potrebbe esserlo l’eco indistinguibile che produce la voce di un profugo.

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L’arte degenerata dei sette vizi capitali tedeschi

Seppure il concetto di degenerazione dell’arte non sia una prerogativa del regime nazista – in quanto già agli albori del 1800 Friedrich Schlegel lo aveva utilizzato per etichettare l’involuzione poetica che a suo modo di vedere avvenne nella tarda antichità – l’esplicita intenzione di associare una presunta degenerazione a caratteristiche intrinseche delle razze umane meno sviluppate fa sì che il termine «arte degenerata» trovasse il suo habitat naturale principalmente nella Germania guidata da Adolf Hitler. Una spinta che, ironia della sorte, ebbe il proprio trampolino di lancio tramite l’opera di un critico ebreo, Max Nordau, il Entertung ossia degenerazione, il cui intento risiedeva nel ricondurre la degenerazione dell’arte alla degenerazione dell’artista partendo dagli studi di Cesare Lombroso – il quale sosteneva come i criminali presentassero dei tratti somatici peculiari classici di gruppi umani che avevano subito un processo involutivo – per quindi isolare una serie di poeti, pittori e letterati dei suoi tempi, per lo più appartenenti ai movimenti del simbolismo e dell’impressionismo, a suo dire predisposti a riversare sulle masse arte degenerata.

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