La sottile linea rossa, tra incubo e poesia

Guadalcanal è il paradiso perduto, l’Eden stuprato dal veleno della guerra. È da questo punto fermo che prende vita La sottile linea rossa; poema filmico il cui scopo va oltre a fissare lo sguardo sull’orrore, bensì intraprende un percorso contrario, accarezza spiragli di indicibile bellezza per andare a scavare nell’abominio della natura umana, troppo cieca e impotente al cospetto della propria indole che pare condannare le creature a sterminarsi le une con le altre. Un’opera, quella orchestrata da Terrence Malick, che è contrapposizione perenne, una lezione di vita e di morte all’insegna di un cammino tortuoso, allucinato, privo di ragione eppure intriso di pensiero, specchio e riflesso dell’essere uomini, spesso mossi dalla violenza più esasperata e inconcepibile, ma capaci di slanci lirici soavi.

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Eyes Wide Shut, la danza macabra di Stanley Kubrick

Una luce calda avvolge l’accogliente appartamento newyorkese di una coppia alto borghese che si sta preparando per un party prenatalizio. Non fosse per la marcata personalità dei due si tratterebbe di una scena ordinaria, en passant, ma l’algida bellezza di Alice (Nicole Kidman) – che di spalle si sfila un elegante abito nero mentre Bill (Tom Cruise) attraversa con passo sicuro alcune stanze per quindi raggiungere il bagno dove la splendida moglie è ora seduta sul water – riversa sulla pellicola una potenza visiva tale da rendere sufficienti un paio di minuti per consegnare ai posteri la tredicesima e ultima pellicola di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut

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A Monster Call, quando a chiamare è la vita

L’adattamento cinematografico del romanzo più noto di Patrick Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte, è un fantasy a tinte drammatiche destinato a toccare corde nascoste, sensibilissime, difficili da gestire, da accettare. Per Conor O’Malley, dodici anni, cresciuto dalla madre, è inaccettabile che la donna che gli ha dato la vita debba combattere un cancro che, per quanto lei tenti di posare un lume di speranza sul futuro, pare essere giunto alla fase terminale. Incapace di opporsi al bullismo di cui è vittima a scuola, intestardito nel suo evitare di relazionarsi con la nonna materna, amareggiato dalla superficialità del padre, Conor si ritrova costretto ad assumersi responsabilità, soprattutto emozionali, che si sublimano in rabbia repressa, desiderio di fuga, paura. Emozioni urlate attraverso la sua passione: il disegno. Ed ecco che, esattamente sette minuti dopo la mezzanotte, prende vita un regno segreto, pauroso, dove un tasso centenario, visibile in lontananza, dalla finestra della sua camera, al di là di una chiesa ed un cimitero abbandonati, è pronto a squarciare il mondo di Conor, per rivelarsi per quello che è: il mostro.

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Lo spietato mondo di Dogville

Se l’obiettivo originale di Dogma 95 era quello di purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali, dagli investimenti miliardari e dalla spettacolarizzazione tesa ad americanizzare qualsiasi prodotto, partendo da linee base piuttosto precise – fondate su un decalogo redatto dagli ideatori del progetto Thomas Vitenberg e Lars Von Trier – come il divieto di usare luci artificiali, scenografie, colonne sonore e tracce che non appartenessero a musica diegetica, nonché di rifiutare un qualsiasi espediente di ripresa al di fuori della telecamera a mano; ebbene, a otto anni di distanza dalla nascita del Manifesto, correva quindi l’anno 2003, l’uscita nelle sale cinematografiche di Dogville ha dimostrato che credere di poter incatenare un genio a una qualsiasi regola, fosse pure la più anti-convenzionale, fosse pure la più controcorrente, fosse pure essa stata scritta di suo pugno, risponde a un solo nome: utopia. Non è perciò da ritenersi un caso che, tempo due stagioni, i registi appartenenti a tal proposito abbiano sancito la fine di un patto mai interamente rispettato.

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Antebellum, il passato che non muore

«Il passato non muore mai. Non è neanche passato». La citazione di William Faulkner che apre il sipario di “Antebellum” conduce lo spettatore all’interno di una porzione di quell’America nera, crudele, folle e irrisolta che aleggia in ogni suo romanzo. Quell’America è trapiantata anche in “Antebellum”. Una piantagione di cotone confiscata dall’esercito confederato. Schiavi di colore maltrattati, marchiati, se ritenuto necessario uccisi. Una bellissima donna, Eden, che oltre a lavorare nei campi è domestica e concubina del capo di quel luogo di dolore. Tutto suggerisce un’epoca storica che non è. Perché Eden è Veronica Henley, moglie e madre realizzata, oltre che attivista che si batte contro il razzismo e i diritti delle donne. 

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La doppia vita di Veronica, la tragedia nel destino

Sensazioni che si ripetono, quasi fossero dei moniti a cui è impossibile sfuggire. Presentimenti che si allacciano all’anima, stritolandola. Sentimenti impossibili da definire, irrazionali, privi di sostanza eppure densi di spessore. “La doppia vita di Veronica” parla attraverso l’inconscio / subconscio di Krzysztof Kieślowski, il quale dà vita a una pellicola criptica, onirica,   surreale, metaforica. Legato al “impero del caso e delle coincidenze”, ma allo stesso tempo ossessionato dal destino; il regista polacco delinea due persone che convergono in una sola: Weronika a Lodz e Véronique a Clermont-Ferrand vivono entrambe la stessa vita, nella stessa sembianza.

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The Tree Of Life: la via della resurrezione

«Sono stati loro a condurmi alla tua porta».

«Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della Natura e la via della Grazia. Tu devi scegliere quali delle due seguire. La Grazia non mira a compiacere se stessa. Accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita. Accetta insulti e oltraggi. La Natura vuole solo compiacere se stessa e spinge gli altri a compiacerla. Le piace dominare, le piace fare a modo suo. Trova ragioni di infelicità quando tutto il mondo risplende intorno a lei e l’amore sorride in ogni cosa. Ci hanno insegnato che chi ama la via della Grazia non ha ragione di temere. Io ti sarò fedele, qualsiasi cosa accada». Il sipario di The Tree of Life si apre con questo concetto universale, destinato a diventare anche scheletro, cuore, anima di una storia che abbraccia la vita nella sua interezza, verrebbe da dire “nei secoli dei secoli”, intrecciandosi con la vicenda familiare di una famiglia texana di ceto medio, devotamente cristiana degli anni ’50. 

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Tutto su mia madre, inno alle donne

«Un giorno dovrai dirmi tutto di mio padre. Stavo quasi per chiedertelo come regalo di compleanno». Manuela (Cecilia Roth) e il figlio Esteban (Eloy Azorin) attendono all’uscita di un teatro madrileno l’attrice preferita del ragazzo, Huma (Marisa Peredes), nonché protagonista dello spettacolo andato in scena, Un tram che si chiama desiderio. La pioggia battente costringe però la donna a salire rapidamente in auto, che parte senza  lasciare al ragazzo il tempo di ottenere l’autografo tanto ambito. Tra Huma ed Esteban avviene però un lungo, enigmatico, scambio di sguardi. È forse questa la molla che lo spinge a inseguire l’auto fino a un incrocio, dove troverà la morte. Quell’ultimo compleanno finito in tragedia è invece l’evento che costringe Manuela, la madre, a intraprendere un dolorosissimo viaggio a ritroso nel tempo perché, come spiega voce off spiega mentre è seduta su un treno: «Diciassette anni fa ho fatto lo stesso tragitto, ma inverso. Da Barcellona a Madrid. Anche allora scappavo. Però non ero sola. Avevo Esteban dentro di meno. Allora fuggivo da suo padre. Ora vado alla sua ricerca».

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Nicole Kidman, semplicemente la migliore

«Non avevamo bisogno di parole, avevamo dei volti!»; basta una frase per riassumere come il cinema, con i suoi inevitabili cambiamenti dall’avvento dell’audio ai modelli di bellezza, abbia creato dive stellari, vere e proprie leggende ad uso e consumo dell’idolatria più sfrenata, a volte sacrificandole sull’altare del mito, altre volte rendendole icone immortali. Da Gloria Swanson a Marlene Dietrich, da Bette Davis a Joan Crawford, da Vivien Leigh a Katherine Hepburn, fino ad arrivare a Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Marilyn Monroe ed Elizabeth Taylor; nomi che risiedono di diritto nell’Olimpo eppure perennemente in corsa l’una contro l’altra, per stabilire chi fosse la più bella, la più brava, la più tutto. Il bisogno di classificare  ciò che è fuori dall’ordinario si è mantenuto anche nel presente: Glenn Close? Jessica Lange? Meryl Streep? Jodie Foster? Chi la migliore tra le attrici viventi? Se pure in molti pronuncerebbero il nome della Streep senza esitazione – che premi a parte, non è forse la migliore nemmeno della sua generazione – a mio parere l’attricenumero uno”, la più completa e versatile è Nicole Kidman. Cresciuta a braccetto con Julia Roberts, sbocciata molto prima di Cate Blanchett, più raffinata di Charlize Theron, più multiforme di Julianne Moore, più prolifera di Kate Winslet più continua delle giovanissime Jennifer Lawrence, Michelle Williams, Emma Stone e Scarlett Johansson; la divina Nicole Kidman è forse la sola diva capace di specchiarsi in quel passato in cui «Non si lasciano le grandi stelle! È per questo che sono stelle. Le stelle non hanno età…»; parola di Norma Desmond nel nome di un “Viale del tramonto” che non potrà mai assorbirla.

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Andrej Tarkovskij, tra sogno e preghiera

«Sono persuaso che nulla di serio possa nascere senza fondarsi sulla tradizione. Non posso uscire dalla mia pelle di russo, dai legami con il mio paese, da quello che è stato fatto nel passato all’interno della mia terra. Sono affascinato dal processo di crescita di quanto viene dalla terra, di ciò che spunta dalla profondità, gli alberi, l’erba… Trovo meraviglioso, quasi commuovente, come tutto tenda verso il cielo che per me non ha alcun valore simbolico. Considero il cielo vuoto e la sua sola valenza è quello di specchiarsi nella terra tramite l’acqua. Per questo non vedo il fango, vedo la terra mescolata all’acqua, il limo da cui nascono le cose. Credo nella purezza della natura, nella sua bellezza, nella sua cattiveria. Allo stesso tempo, tutto mi porta a pensare che stiamo creando una civiltà che minaccia di distruggere l’umanità. Ci rifiutiamo di ammettere che stiamo diventando imperdonabilmente, colpevolmente ed irrimediabilmente materialisti. Per questo motivo nelle mie opere mi aggrappo alla preghiera, alla spiritualità, alla fede» Andrej Tarkovskij.

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