L’anima spietata di Krzysztof Kieslowski

«Mia madre fu una delle ragioni per cui decisi di diventare un regista. Dopo aver sostenuto per la seconda volta l’esame di ammissione per la Scuola di Cinema di Lòdz, tornai a Varsavia e mi accordai con mia madre di incontrarla vicino alla scala mobile di Piazza Castello. Pioveva a dirotto e lei mi aspettava in piedi, tutta bagnata. Era dispiaciuta che non fossi riuscito ad entrare in quella scuola per la seconda volta. “Guarda, forse non ci sei proprio tagliato”, mi disse. Non so se stesse piangendo o se fosse la pioggia ma ero affranto che si sentisse tanto triste. Fu allora che decisi che l’anno dopo sarei entrato in quella scuola e che sarei diventato un regista. Semplicemente perché mia madre era così terribilmente triste». Parte da questo episodio di vita la carriera di regista di Krzysztof Kieslowski nel cui cinema le emozioni sfociano, spesso dirompenti, ambigue, sottili e, proprio per questo, laceranti, mentre il suo sguardo si mantiene rigido, impietoso, anche e soprattutto quando i suoi personaggi si ritrovano al cospetto di quel bivio che li induce a dover compiere una scelta che influenzerà irrimediabilmente la loro vita. 

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A Hidden Life, il sacrificio del giusto




«È meglio subirla un’ingiustizia che compierla» potrebbe essere l’epigrafe che riassume la vita di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco di fede cattolica, la cui pace, resa ancora più alta e profonda al tempo stesso dalla moglie Fani, dalle tre figliolette, dalla lettura di testi sacri e dal rassicurante borgo di Sankt Radegund, un Eden immerso nell’assoluto emotivo che è un tutt’uno con le montagne dell’Alta Austria, viene sgretolata nel momento in cui il nazismo prende piede. “A Hidden Life”, è la storia di un uomo che Terrence Malick trasforma in eroe-martire – proclamato beato nel 2007 sotto il pontificato di Benedetto XVI – un uomo giusto, irremovibile, incorruttibile, portatore di un senso di una giustizia universale che antepone persino alla propria vita.

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Kristen Stewart, il dono della diversità

Kristen. Che nome fuori dal tempo. Così denso, corposo, eppure al tempo stesso sottile, delicato, che scivola via senza però mai andarsene fino in fondo. Se poi a Kristen, si aggiunge Stewart, lo senti una volta e non lo dimentichi più. Sembra fatto apposta per restare anche se non vorrebbe, simbolo e concetto dell’ancestrale contrasto che si porta dentro. Non a caso, Kristen significa “consacrata”, un termine solenne, che presuppone una benedizione, un’investitura inviolabile. Nomen Omen, perché stando ai latini il nome è un presagio, in esso vi è indicato il destino. 

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The Irishman, il testamento di Martin Scorsese

Un uomo qualunque, ma non troppo. Un uomo privo di ambizioni, almeno apparentemente. Un uomo che seppur restando nell’ombra è molto di più che un testimone in un particolare periodo storico degli Stati Uniti; quello in cui la mafia muoveva i fili nemmeno troppo sotterranei di una nazione e spesso li tagliava, quando fallì l’invasione alla Baia dei Porci, in cui venne assassinato il presidente John Kennedy prima ed il fratello Robert poi, laddove fu progettata la sparizione del principale sindacalista a stelle e strisce Jimmy Hoffa. Quell’uomo, Frank Sheeran, è l’irlandese, l’indecifrabile protagonista di “The Irishman”, forse la pellicola più grandiosa, più amara, più dolorosa di Martin Scorsese.

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Banshee, il peso dell’identità

Dopo aver scontato quindici anni di prigione a causa di un tentativo di rapina finito male, un uomo ritorna in libertà con la ferma intenzione di ritrovare la sua ex fidanzata e complice, Ana. Braccato dagli uomini di Mr. Rabbit, il boss ucraino a cui aveva cercato di rubare dei diamanti; grazie all’aiuto di Job, un amico hacker, il protagonista localizza Ana e si dirige a Banshee, una cittadina della Pennsylvania. Qui, scopre che Ana ha cambiato identità: ora tutti la conoscono come Carrie Hopewell, si è sposata con il procuratore distrettuale ed ha due figli. Ritrovatosi casualmente in uno scontro a fuoco tra il nuovo sceriffo appena arrivato in paese, Lucas Hood, e alcuni criminali del posto, i quali finiscono tutti uccisi, decide di rubare l’identità dello sceriffo e rimanere a Banshee; un paese soggiogato da un potente uomo d’affari e criminale, Kai Proctor.

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C’era una volta… il prezzo di Hollywood

A Hollywood nessun anno è come tutti gli altri, ma il 1969, lo fu ancor meno di qualsiasi altro. Si stava per chiudere una decade e, come accade spesso al crepuscolo, il mondo si ritrovò in sospeso, in attesa di quel cambiamento che definisce quanto è avvenuto negli ultimi lustri. Come mai prima di allora il cinema si ritrovò in una angosciante terra di nessuno, in preda agli isterismi di chi si rese conto che il vecchio sistema si stava sgretolando. A Hollywood vi era sempre stato un solo padrone: la follia. Nel 1969 si imposero anche la paura e l’incertezza. Se da almeno dieci anni John Cassavetes aveva dimostrato a una fascia di pubblico, che il cinema indipendente, con i suoi contenuti, poteva impensierire il sistema, nel 1969Easy Riderdeterminò una spaccatura, resa ancora più minacciosa da pellicole torbide qualiUn uomo da marciapiede”, violente comeIl mucchio selvaggio” o crudeli come “Non si uccidono così anche i cavalli?”. Fu così che Hollywood non migliorò, né peggiorò. Semplicemente cambiò. E il prezzo da pagare si fece ancora più alto.

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Kristen Stewart, la fragilità dei contrasti

«Se fossi un animale vorrei essere un gatto. Si sa come funziona con i gatti, li chiami e loro restano lì a guardarti come se ti stessero dicendo: e tu chi sei? Che vuoi da me? F*** you!».  C’è qualcosa di poeticamente selvaggio in Kristen Stewart. C’è qualcosa che sfugge, che si sradica dall’effimera logica Hollywoodiana, dalle sue ridicole e ancor più paradossali imposizioni, dalla baraccopoli di luoghi comuni, dal teatrino mediatico, dal paesaggio che compone il dipinto di una ragazza alla soglia dei trent’anni ancora incastrata tra le pagine di un copione dozzinale, una saga di vampiri mescolati a lupi, alla quale, ai fini pratici, piaccia oppure no, deve dimostrarsi riconoscente; perché quel Twilight le ha offerto uno status di popolarità planetaria. Eppure al tempo stesso quel successo stratosferico altro non ha fatto che ribadire la mostruosità dell’idolatria fine a sé stessa, innescando una sorta di odio all’incontrario, perché quelle dilatazioni anestetiche degli eventi, quella chiusa prevedibile come una via crucis, quei primi piani registicamente inespressivi; tutto ciò è degenerato al punto da mettere in discussione l’attrice che ha interpretato l’unico personaggio che avesse un senso in quel non senso globale.

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Laura Antonelli, la bellezza perduta

Non fu un periodo semplice, gli anni ’70. Furono anni di lotte politiche, di tensioni generazionali, di trasgressione, di grandi aspettative. Furono gli anni delle stragi, dell’omicidio di Aldo Moro. Furono gli ”anni di piombo”, in cui comparve per la prima volta in un volantino il simbolo delle Brigate Rosse. Nell’arco del decennio morirono due papi: Paolo VI dopo quindici anni di pontificato e Giovanni Paolo I dopo appena 33 giorni. Sono gli anni del Piper e della “sua ragazza”, degli ultimi play boy, di Mina, di Battisti e De Andrè. Gli anni in cui vennero approvate le leggi sul divorzio e sull’aborto, in cui il Cagliari di Gigi Riva vinse lo scudetto, in cui la Ferrari portò in trionfo Niki Lauda, in cui a Monza volarono via Rindt e Peterson. In Italia giunsero gli echi del Vietnam, del colpo di stato in Cile, dei “desaparecidos”, del massacro alle Olimpiadi di Monaco, dello scandalo Watergate, della morte di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison ed Elvis Presley. Eppure si continuò a ballare con gli Abba e i Bee Gees, mentre i Pink Floyd, i Queen e David Bowie scrivevano una nuova storia. Nemmeno il cinema rimase a guardare: mentre oltreoceano furono consacrati Coppola e Scorsese, sua maestà Ingmar diresse l’ultima Sinfonia d’autunno di Ingrid Bergman e una mattina di primavera si spense Luchino Visconti. Ne successero di cose nel mondo della celluloide, anche in Italia, e tra le tante venne eletta icona sexy del cinema italiano Laura Antonelli.

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Vivien Leigh, sospesa tra gloria e follia

Dotata di una bellezza prodigiosa, il sogno della diciottenne Gertrude Robinson Yackje era quanto mai comune a quello di tante sue coetanee: diventare un’attrice. L’interessamento di un impresario teatrale londinese però, non persuase i genitori, ferventi cattolici irlandesi, ad assecondare quella passione che avrebbe potuto ostacolare il matrimonio, ormai prossimo, con tale Ernest Hartley, un ex ufficiale della cavalleria britannica divenuto agente di borsa che da lì a un annetto sarebbe stato trasferito a  Darjeeling, in India. Sarà proprio lì, sulle alture dei monti Shivalik, le prime pendici dell’Himalaya, che il 5 novembre del 1913 nascerà Vivian Mary Hartley. Una piccola pezza, Gertrude riuscì a metterla quando il marito venne trasferito a Bangalore, mentre lei rimase a Ootacamund con la figlia e, iscrittasi a un corso amatoriale di teatro, poté finalmente salire su un palco per recitare in una manciata di commedie. Ad una di esse prese parte anche Vivian che, a quattro anni non ancora compiuti, veniva accompagnata nel mondo dei sogni dalla madre non attraverso la lettura di favole, ma con episodi tratti dalla mitologia greca o brani di Lewis Carroll o Rudyard Kipling. Fu così che l’immaginazione di Vivian iniziò a elaborare storie fantastiche, personaggi epici, sentimenti amplificati, in cui gioia, dolore, spensieratezza e afflizioni, si mescolarono tra loro prendendo, tutti insieme dimora nel cuore di quella bambina che, è bello pensare, proprio in una notte indiana si vide donna, pronta a riscattare i rimpianti materni, con un nome nuovo, ammaliante, destinato all’immortalità: Vivien Leigh.

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Roman Polanski, l’uomo braccato dalla morte

«La morte raggiunge anche l’uomo che fugge»; scrisse Orazio. Eppure, la fuga, sia essa per scelta o imposizione, è uno tra gli espedienti narrativi più inflazionati, più abusati; e questo perché è essa stessa metafora; in quanto una fuga chiude un ciclo, prefigura nuovi orizzonti, delinea un punto interrogativo, spesso destinato a rimanere irrisolto. Ryszard Liebling, scultore e pittore polacco di origine ebraica, e la moglie Bula Katz-Przedborska, una casalinga russa anch’ella di famiglia ebraica seppur convertitasi al cristianesimo quando aveva dieci anni; fuggirono dalla Polonia all’alba degli anni ’30 per cercare fortuna in Francia. Si lasciarono la miseria alle spalle e il 18 agosto del 1933 Bula diede alla luce Rajmund Roman Liebling. Non fecero in tempo a farsi accettare in una Parigi tutto sommato ostile che, tempo tre anni, il crescente antisemitismo diffusosi, persuase i coniugi a fare ritorno a Cracovia. Non bastò. L’invasione nazista determinò l’internamento della famiglia Liebling nel ghetto della città a cui seguì la deportazione di Bula nel campo di sterminio di Auschwitz e quella di Ryszard a Mauthausen; seppure non prima di organizzare il salvataggio del figlio versando una consistente somma di denaro a una famiglia cattolica che avrebbe dovuto dargli rifugio. Quel bambino, presentato come Roman Polanski, venne poi ceduto a dei contadini cattolici presso i quali rimase fino alla liberazione della Polonia. Era il 1 agosto del 1944. Sua madre non c’era più, mentre suo padre sarebbe tornato, seppur irrimediabilmente cambiato, come d’altronde, cambiato lo era Roman, non più bambino da tempo, eppure non ancora uomo, bensì un’ombra braccata dalla morte.

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