Il Cristo morto e la perdita della fede

«Quel quadro! Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede».

“L’idiota” Di Fedor Dostoevskij 

Fedor Dostoevskij soffriva di una malattia un tempo definita piccole male. Più semplicemente, era epilettico. Presumibilmente il romanziere russo ebbe un primo attacco di convulsioni intorno ai diciotto anni, quando gli venne comunicata la morte del padre, il quale fu ucciso dai propri servitori in quanto esasperati dai suoi modi violenti e dispotici. La scomparsa della madre per tisi, l’arresto con l’accusa di sovversivismo, la condanna a morte evitata solo perché graziato pochi minuti prima dell’esecuzione, la deportazione in Siberia furono eventi che contribuirono a peggiorarne lo stato di salute, costellando quegli anni da svariate crisi epilettiche. «A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali. L’esito è l’indebolimento, la morte o la pazzia»; scriveva nel proprio diario Fedor Dostoevskij di ritorno da un viaggio in Svizzera insieme alla moglie. Era il 1867 e, recatosi a Basilea, in quanto appassionato d’arte si era recato al Kunstmuseum. Fu allora che, giunto in una stanza in cui era esposto un solo dipinto, il “Cristo nel sepolcro” di Hans Holbein, segnato da quella lacerante visione, Fedor Dostoevskij ebbe un attacco epilettico. Non solo, il volume di sofferenza che emanava quel corpo straziato, rimase impresso nella mente del genio di San Pietroburgo al punto da influenzare uno dei suoi più celebri capolavori: “L’idiota”.

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