Evgeny Kafelnikov, il principe delle ombre

La celebre frase di Sir Wiston Churchill, quando definì le intenzioni della Russia dopo la spartizione militare della Polonia con la Germania hitleriana, «un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma», fatte le debite proporzioni; pare combaciare in tutta la sua sinistra perfezione con l’indole indecifrabile, che ha determinato irrimediabilmente l’irrazionale coesistenza di trionfi e cadute, nel campo come nella vita, di Evgeny Kafelnikov. Nato a Sochi, il 18 febbraio del 1974; seppure alla nascita pesasse ben 5kg e 100 gr. quando il padre Aleksandr lo accompagna per la prima volto al Riviera Park, un Circolo Tennis immerso in un bellissimo parco della città, Evgeny ha cinque anni ed è talmente gracile che il maestro a cui viene affidato, tale Peschanko, si chiede come faccia a reggere la racchetta. Eppure, oltre ad avere la forza per tener ben salda l’arma del mestiere, sembra possere pure una dimestichezza tale da consentirgli di piazzare la pallina dove vuole. È però sotto alla rigida guida di Valeriy Shishkin che Evgeny inizia a domare  sempre più traiettorie, impreziosendole a poco poco di quella forza, di quell’aggressività che, in perenne contrasto con i gesti aggraziati, diventeranno le colonne portanti del suo gioco fondato su una potenza mai banale in quanto, agile, dinamica. Quando si affaccia nel Circuito Juniors, dominando insieme ad Andrei Medvedev i Campionati Europei e la Sunshine Cup, Kafelnikov è un quattordicenne affusolato, il cui volto pallido, lo sguardo impenetrabile e il portamento dignitoso gli donano un’inconsueta aria aristocratica.

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Hana Mandlikova, talento senza confini

Milano. Tennis Club Ambrosiano. È il giugno del 1977 quando Hana Mandlikova, una quindicenne cecoslovacca, dal tennis spumeggiante, il fisico asciutto e il carattere introverso, vince una delle più importanti competizioni riservate al tennis juniores, il Torneo Avvenire. Una trentina d’anni dopo, un socio del Circolo  Tennis milanese che ebbe modo di veder giocare la giovane Mandlikova la descrisse come: «Un talento senza confini. Qualcosa di simile non lo avevo mai visto prima. E non l’ho rivisto mai più». Si dice che quando Stendhal visitò la chiesa di Santa Croce a Firenze rimase così stravolto dalla sua bellezza che accusò palpitazioni, vertigini e giramenti di testa. Da qui il nome della Sindrome. L’azzimato sessantenne, tesserato per lo splendido Circolo Tennis  che si estende ai confini del parco Lambro, non si trattenne dal confidare che: «Se mai in vita mia ho vissuto una Sindrome di Stendhal è stato quando ho visto giocare Hana Mandlikova».

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Chris Evert, la donna che ha fatto innamorare l’America

«Ho sempre giocato per vincere. Perdere mi feriva. Sono sempre stata determinata nel voler essere la migliore». L’inclinazione di Chris Evert nei confronti del tennis agonistico non lascia spazio all’interpretazione. Lo stesso vale per i numeri che è riuscita a produrre nell’arco della sua carriera. Chris Evert ha vinto oltre il 90% delle gare disputate: 1304 su 1448; detiene un record di 125 vittorie consecutive sulla terra rossa, dove rimase imbattuta dal 1973 al 1979; e ha conquistato almeno una prova dello Slam per tredici anni consecutivi, dal 1974 al 1986. Le statistiche che riguardano i risultati negli slam sono impressionanti: su 56 partecipazioni ha raggiunto 52 volte le semifinali, 34 volte la finale e ha trionfato in 18 occasioni.

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Anastasia Myskina, tra logica e sentimento

Ciò che più impressionava di quella bambina era l’impegno, la dedizione che ci metteva. Un’ostinazione condita da un pizzico di sana cattiveria, una caparbietà che rasentava l’accanimento. Anastasia Myskina arriva allo Spartak Mosca quando ha appena sei anni. Rauza Islanova, moglie del presidente del Circolo Mikhail Safin, nonché madre dei futuri numero uno del mondo Marat e Dinara, rimane impressionata sin da subito dalla piccola Anastasia: sorprendentemente tonica e instancabile nella sua magrezza. Qualsiasi cosa le si chieda di fare in campo, sia un birillo da colpire, siano un tot di palline consecutive da direzionare in una determinata porzione del rettangolo di gioco, finché non riesce nell’intento, non c’è verso di schiodarla dalla riga di fondo. Così diversa dalla sua coetanea Anna Kournikova, più talentuosa certo, ma non altrettanto perseverante, priva di quel killer instict che invece sembra possedere Anastasia. Per questo Rauza Islanova non ha dubbi: quella che arriverà per davvero sarà Nastya.

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Elena Dementieva, il fiore di loto russo

Il primo esame Elena Dementieva lo sostiene a sette anni quando, nel novembre del 1988, la madre l’accompagna alla polisportiva del CSKA di Mosca per sostenere un provino di ammissione. Mamma Vera, un’insegnante di letteratura russa con il pallino del tennis al punto da far leva su alcuni trascorsi con la racchetta per ottenere un brevetto d’insegnante, non riceve però la risposta sperata: “sua figlia è troppo alta per diventare una campionessa”. Tornate a casa entrambe in silenzio, la figlia per indole, la madre per la delusione, a cena quest’ultima informa il marito, Viatcheslav, che di mestiere fa l’ingegnere, del responso negativo. Lui non se ne fa un cruccio; probabilmente ritiene che quella figlia alta sì, ma anche tanto intelligente e introversa, che a scuola ha il massimo dei voti e quando gira per casa ha sempre un libro in mano, meriti di inseguire sogni più nobili piuttosto che faticare su un campo da tennis.

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Steffi Graf, una vita tra record e incubi

«Non è facile per me convivere con la consapevolezza di essere numero uno perché lei è stata aggredita». Steffi Graf è stata n.1 del mondo per 377 settimane, ha vinto 107 titoli titoli WTA, tra cui spiccano 22 prove del Grande Slam consistenti in 7 Wimbledon, 6 Open di Francia, 5 US Open, 4 Australian Open, 5 Master e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul. Eppure Steffi Graf non si è mai sentita in pace, non è stata mai lasciata in pace. L’aggressione subita da Monica Seles il 30 aprile del 1993, ha scatenato sulle vittorie di Steffi una nube tossica capace di espandersi sopra a sedici anni di carriera.

Il “revisionismo storico” che si è abbattuto sui suoi numeri record non si è però limitato alla “macchia Gunther Parche”. Seppure nessuno oserebbe mai depredare Steffi del titolo di campionessa, in molti l’hanno bollata come una “fortunata” dato che quando nel 1986 si è dimostrata competitiva nel circuito Chris Evert era ormai avviata verso i trentadue anni, Martina Navratilova era nei pressi della trentina, e Hana Mandlikova stava per subire un infortunio che le avrebbe compromesso per sempre il ritorno ai vertici. Ultimo “rimprovero” in ordine cronologico, è stato lo slam vinto da Steffi Graf al Roland Garros nel 1999 quando durante una finale che si stava rivelando senza storia a vantaggio di Martina Hingis, un errore arbitrale, rafforzato dall’intervento dei supervisor che ha punito l’elvetica con un penalty point, e dal maleducatissimo pubblico parigino, ha mandato fuori di testa la giovanissima n.1 uno del mondo spianando la vittoria alla tedesca.

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Li Na, la guerriera che si è presa la luna

Non deve essere facile essere marito di una donna che in Patria è considerata una sorta di idolo nazionale. Ragione in più se quella patria è la Cina con i suoi 1.341.900.000 di ustrbitanti. Essi, non deve essere facile essere il consorte della prima cinese capace di trionfare in un torneo del Grande Slam e che, da quel giorno, anche perché la Cina è grande e ricca, le sono saltati addosso sponsor del calibro di Nike, Mercedez-Benz, Rolex e Hagen-Dasz. La situazione si complica ancora di più se quella moglie famosa e ricchissima ha deciso di licenziarti. Perché Jiang Shan, ex tennista professionista di bassa classifica, diventato marito e coach di quel portento di moglie-tennista a un certo punto si è visto dare il ben servito. Le cose non andavano più bene: i risultati non arrivavano più, il gioco lasciava a desiderare e, a quanto pare, la colpa era la sua, di quel marito allenatore che non spiccica una parola di inglese e che alla notte russa troppo forte. E così la moglie-tennista, Na Li, decide di voltare pagina professionalmente parlando, ma per farlo deve voltare le spalle a lui, al marito. Urge un nuovo coach e la scelta cade su Carlos Rodriguez, l’uomo che ha creato Justine Henin. Jiang si mette da parte, pare non sia un tipo invadente, e la prima settimana in cui la moglie avvia la nuova collaborazione, non presenzia agli allenamenti. Tutte le sere però lei si dice distrutta e gli racconta di quanto quel Rodriguez la faccia faticare. Possibile che la moglie sia finita nelle mani di uno squilibrato? Persuaso che sia Na ad esagerare la faccenda, opta comunque per andare ad accertarsi coi suoi occhi. E così un bel mattino, verso le nove, raggiunge la sua signora al centro in cui si allena e la ritrova in palestra. Lei è già lì da un ora e Jiang se ne rimane buono, buono per un’altra oretta e poi, verso le 11, annoiato e spazientito insieme le chiede: «Ne hai ancora per molto?» . Na Li dà un occhiata al programma e risponde: «Sono solo a metà».

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Henri Cochet, il primo moschettiere

È osservando giocare i soci del Tennis Lyon che un ragazzino di nemmeno dieci anni di nome Henri entra in contatto con il nobil gioco, disciplina sportiva che nel momento in cui impugnerà a sua volta una racchetta, sarà destinata a trasfigurarsi in qualcosa di diverso, di più armonioso, di più regale. E dire che di sangue blu nelle vene di Henri non ne scorre nemmeno una goccia. Figlio del custode del Tennis ClubHenri è mingherlino, non perde occasione di offrirsi volontario per fare da raccattapalle ai ricchi frequentatori, ed apre bocca solo per domandare ai pochi che gli danno confidenza se gli va di scambiare qualche palla con lui ogni qualvolta i campi sono liberi. Che Henri celi in se qualcosa di abbagliante se ne accorge presto il presidente del circolo, tale Couzon, il quale gli impartisce le prime vere e proprie lezioni per quindi diventarne il mecenate. Agli occhi dei più un’opportunità simile sarebbe stata accolta come l’avverarsi di un sogno. Non per i genitori di Henri che esternano a Couzon la propria riconoscenza, ma a cui chiedono anche una cortesia più pratica: che affidi un piccolo incarico al figlio all’interno della seteria di cui è proprietario . Seppure un impegno lavorativo, per quanto part time, impedisca ad Henri di allenarsi come dovrebbe, Couzon non si oppone; se da una parte nutre un forte rispetto per la famiglia del suo pupillo, dall’altra è persuaso che Henri possegga un talento capace di compensare le ore che la seteria gli avrebbe irrimediabilmente sottratto al tennis.

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Natasha Zvereva, la ribelle delle cause vinte

Parigi. 4 giugno 1988. Sono stati sufficienti 34 minuti di tribolazione per far entrare Natalia Zvereva nella storia del tennis come la giocatrice capace di subire la sconfitta più veloce nella finale di una prova del Grande Slam. Questo è il tennis, uno sport spietato. Prendere o lasciare. Quando le viene consegnato il piatto della seconda classificata, la sovietica ha le lacrime agli occhi e nella rinuncia di pronunciare qualche parola al microfono, trasuda l’umiliazione di una diciassettenne rassegnata a recitare il ruolo dell’agnello sacrificale da immolare agli dei del tennis per auspicare la corsa verso il Grande Slam dell’implacabile valchiria tedesca Steffi Graf che, dopo aver siglato la pratica per 6-0 6-0, le riserva una manciata di parole consolatorie.

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Parigi battezza le nove vite di Maria Sharapova

Il quinto titolo slam di Maria Sharapova arriva in quella Parigi che, due anni or sono, le aveva permesso di completare il Career Slam riportandola sulla prima poltrona del ranking confermandone il ritorno ai vertici dopo l’infortunio alla spalla destra che l’aveva costretta a un intervento chirurgico impedendole di essere competitiva dall’aprile 2008 – anno in cui a gennaio conquistò il suo terzo slam all’Australian Open – all’ottobre 2009 – quando a Tokyo strinse in pugno il suo 20esimo titolo WTA. Per tornare competitiva negli slam, Masha ha però dovuto patire parecchio tempo ancora. Dal successo a Melbourne, nel 2008 Maria Sharapova ha raggiunto un ottavo di finale al Roland Garros un secondo turno a Wimbledon e, il post intervento, le ha riservato un biennio disastroso, lenito, si fa per dire, da un quarto di finale agguantato al Roland Garros nel 2009. Caso vuole che a non far sentire Maria sull’orlo del precipizio sia stato un match di terzo turno disputato sul Philippe Chatrier nel 2010 quando uscì sconfitta per mano di Justine Henin per 6-2 3-6 6-3. Un punteggio che, a distanza di anni, farà dire a Masha: «Quel giorno mi dissi che se avevo giocato ad armi pari con Justine sulla terra, allora un giorno avrei potuto vincere questo torneo». Nel 2011 Maria ritornò (quasi) la vera Sharapova: una semifinale ai French Open dove si arrese a Li Na, una finale a Wimbledon sorpresa da Petra Kvitova oltre alle vittorie a Roma e Cincinnati. Nel 2012 la crescita dell’allora pupilla di Thomas Högstedt proseguì con un’altra finale, malamente persa a Melbourne contro Victoria Azarenka finché, il filotto Roma-Stoccarda-Roland Garros le ha riaperto i cancelli dell’Olimpo.

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