Un po’ come accadde a Iva Majoli in quello che appare come un lontanissimo e annebbiato 1997 quando la sua vittoria al Roland Garros l’avrebbe fatta passare alla storia non tanto come una campionessa slam quanto come “la croata che impedì a Martina Hingis di realizzare il Grande Slam”, diciotto anni dopo Roberta Vinci ha prenotato il posto, apparentemente impossibile da riservare, di outsider capace di infrangere il sogno della n.1 del mondo Serena Williams. Lei, la portentosa quasi trentaquattrenne nativa di Saginaw, l’infanzia trascorsa a Compton, una scalata verso l’Olimpo fortemente voluta dal padre pigmalione, un visionario per alcuni, uno Svengali per altri. Lei, Serena, perennemente a se stante eppure volenti o nolenti unita per l’eternità alla sorella Venus, sul tetto del mondo e puntualmente in lotta per contendersi slam contro “il resto del mondo”, da tempi immemori, ossia diciotto anni. Lei, Serena l’imbattibile, almeno si credeva, negli appuntamenti che contano, uscita sconfitta non da un campo qualsiasi, bensì da quell’Arthur Ashe Stadium che è stato sei volte suo senza però esserlo mai stato in pieno, perché Serena Williams mai è stata pienamente amata e capita in patria e mai lo sarà; ebbene battuta non da quella Victoria Azarenka da molti ritenuta la vera e propria mina vagante “anti-Grande-Slam”, non da Simona Halep da molti attesa al grande salto, non da Svetlana Kuznetsova, sempre capace di quel guizzo che è marchio di fabbrica delle fuoriserie, no, da una giocatrice “come tante”, seppure non proprio come tutte, da una Roberta Vinci, una data per “finita“, una considerata “più una doppista che una singolarista”.
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