Svetlana Kuznetsova, l’inquietudine del talento

 È l’11 settembre del 2004 quando sul cemento di Flushing Meadows la diciannovenne Svetlana Kuznetsova sconvolge il mondo del tennis conquistando lo slam più difficile, più duro, dove in genere non c’è spazio per le sorprese, perché a vincere l’US Open sono i più forti. Quell’anno la storia si sovrappose al tennis, rendendo la finale dello slam newyorkese unica, indimenticabile. Sono le 8 p.m quando sull’Arthur Ashe Stadium si espande l’anima nera del tennis, ma anche della vita: la soprano Jessye Norman affiancata dai Boys Choir esegue una toccante versione di “God Bless America”, seguita da un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’attacco alle Torri Gemelle avvenuto nel 2001 e degli atti di terrorismo rivolti contro la Russia nemmeno dieci giorni prima alla scuola di Beslan. A rendere l’epilogo della 123esima edizione dell’US Open, fuori dall’ordinario sono anche le protagoniste: Svetlana Kuznetsova ed Elena Dementieva. Russe, amiche, compagne di viaggio nel circuito, eppure due giovani antitesi. Elena: un gioco schematico, solido, assemblato con il duro lavoro. Svetlana: l’eccezionale bagagliaio tecnico, un tennis virile tempestato da invenzioni, spesso imprevedibili, seppure consolidate da una sorta di indole primordiale che accomuna i fuoriclasse; timidezza e sfrontatezza, luce e oscurità. Due games concessi a Sesil Karatantcheva, il duplice 6-3 rifilato a Nicole Pratt, il 7-6(3) 7-5 necessario per congedare la veterana veterana Amy Frazier, il 7-6(5) 6-2 con cui si è sbarazzata di Mary Pierce, il 7-6(4) 6-3 impartito a Nadia Petrova, il set ed il break di svantaggio recuperato a Lindsay Davenport per andare a imporsi con il punteggio di 1-6 6-2 6-4, ed infine il 6-3 7-5 fissato, con un ace di seconda, sul tabellone segnapunti all’ultimo atto.

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Nascita dell’impero russo

Le prime tracce di tennis in Russia compaiono verso il 1860 quando a San Pietroburgo vede la luce il San Pietroburgo Cricket Club. Da lì a poco viene introdotto il gioco del lawn tennis; le cui prime menzioni sono verificabili tra le pagine di Anna Karenina, di Lev Tolstoj, pubblicato a puntate tra il 1873 e il 1877. Il grande romanziere stesso era un grande appassionato al punto da farsi costruire un campo in erba nella sua tenuta di Jasnaja Poljana. Introdotto tramite diplomatici e studenti britannici, il tennis venne subito apprezzato dai russi in quanto univa in se’ componenti eleganti ma, allo stesso tempo, sollecitava l’indole competitiva di chi lo praticava. Fu così che nel 1888 venne fondato il primo Circolo Tennis a San Pietroburgo, il Lawn Tennis Club. Verso la fine dell‘800 il lawn tennis si diffuse in diverse città della Russia; da Mosca a Kiev, da Odessa a Taganrog.

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La bellezza salverà il tennis?

«La bellezza salverà il mondo». L’insoluto disaccordo che da oltre cent’anni divide i saggisti nell’interpretare questo passo proveniente dal capolavoro di Fedor Dostoevskij, “L’idiota”, ha ingigantito l’ambiguità in esso celata. Questa misteriosa frase, che appare nel testo originale sotto forma di domanda e non di affermazione, scritta nella lingua del romanziere russo, lo slavo ecclesiastico, ne accresce la doppiezza in quanto il termine “Mir” in russo può significare sia mondo che pace intingendo la parola “krasotà”, bellezza, di un valore che la lega imprescindibilmente al bene, alla bontà.

Il Roland Garros ha incornato per la decima volta Rafael Nadal, il Re Sole, un eroe poliedrico spinto da una commuovente abnegazione, forgiato da un mix di talenti talmente contrastanti da creare intorno alla sua figura una serie di enigmi di cui nemmeno la Sfinge detiene le risposte. Lo spagnolo è il rinato che a Parigi ha oscurato il precedente record di Bjorn Borg per arrivare a battere persino sé stesso, per poi ribattersi ancora, è il guerriero che ha saputo risollevarsi svariate volte da morte certa con l’umiltà che caratterizza i cavalieri valorosi e per questo appare inestimabilmente bello.

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A lezione da Carlos Martinez

Per farsi un’idea di chi sia Carlos Martinez è sufficiente vederlo in campo, per pochi minuti, durante un qualsiasi allenamento. Carlos è un turbine di consigli, di incitamenti, di stimoli destinati a spronare, a incoraggiare, a motivare, la persona che si trova al di là della rete. Può trattarsi di una duplice campionessa slam come Svetlana Kuznetsova oppure di una bimbetta di otto anni che frequenta la sua Accademia ma lui non si risparmia mai, riflette tutto il suo entusiasmo, è un distillato di energia positiva. Non è semplicemente un coach eccezionale dotato di una professionalità innata, tra l’altro maturata insieme a tanti anni di esperienza; ciò che più colpisce in lui è come sia riuscito nella complicatissima impresa di equilibrare il bagaglio di competenze con una dimensione umana palpabile. Poter contare su un coach come Carlos Martinez significa sapere di avere accanto a se’ un porto sicuro.

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Wimbledon, un attimo di eternità fuori dal tempo

Wimbledon. Semplice da pronunciare, ma non troppo, a pensarci bene. Wimble-den. La cadenza troppo british ti fa sorgere il dubbio se sia proprio quello il posto dove si disputa il torneo di tennis. Poi c’é dell’altro, molto altro. Perché ecco, a Melbourne Park ci si riflette quasi sul fiume Yarra e l’efficenza aussie si sposa a meraviglia con il distretto finanziario che si estende a pochi passi, in termini di yards s’intende, mentre nel quartiere d’Auteuil si respira Parigi tanto che basta arrampicarsi in cima alla terza categoria del Philippe Chatrier per distinguere la Torre Eiffel, non parliamo poi di Flushing Meadows, il parco di 500 ettari creato sulla valle di ceneri descritta da Francis Scott Fitzgerald in Il Grande Gatsby, dove nonostante tutto ti senti accartocciato nel ventre di New York. A Wimbledon invece… Non sei propriamente a Londra. Soprattutto nei giorni precedenti il torneo di tennis, prima che il delirio si impossessi degli appassionati del nobil gioco, gente pronta a tutto, come accettare la possibilità di essere sorteggiati di anno in anno in occasione della lotteria ufficiale per avere un biglietto tra le mani, colpo di fortuna che difficilmente si avvererà, quindi uomini e donne di ogni età, provvisti dell’indispensabile queue card, disposti a fissare per quattro, cinque ore, la nuca dell’individuo che lo precede pur di avere la meglio sulla mitologica queue, magari dopo aver campeggiato all’addiaccio.

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Sampras, Kuznetsova e la caduta del tempo

Stoccarda. Non ho mai simpatizzato per Pete Sampras. Se riavvolgo il nastro dei ricordi, riaffiorano vaghe e nebulosi spezzoni di un match di secondo turno del Roland Garros 1989 ai limiti dell’imbarazzante, in quanto rimediò circa tre games con Micheal Chang, ma avrei scoperto in seguito che ancor più della superficie favorevole al connazionale pesò la “fresca installazione” del rovescio eseguito ad una mano e non più a due. Tanto meno entrai in sintonia con Sampras l’anno dopo, quando sconfisse “il mio” Ivan Lendl ai quarti di finale dell’US Open, per poi involarsi alla conquista dello slam newyorkese. Non si contano le volte che avuto modo di ammirare Pistol Pete negli anni, ma mai una volta ho avvertito quel leggero strappo al cuore, quel lieve brivido lungo la spina dorsale, quel sottile stato d’ansia che indipendentemente dalla nostra volontà prende in mano i fili del nostro sistema nervoso, oltre che cardiocircolatorio, quando nasce un amore. Nonostante la straordinaria bellezza del gesto, nonostante la plasticità con cui avanzava  verso la rete, simile a un  felino che dopo aver puntato la preda stava per produrre il balzo decisivo per azzannarla; non appena il frangente di gioco terminava, aveva fine anche la magia in precedenza emanata e in Pete Sampras non riuscivo a vedere altro che un ragazzo dall’andatura leggermente primitiva, lo sguardo opaco, nonché una personalissima arroganza che non si esprimeva attraverso racchette spaccate o scatti d’ira bensì nella consapevolezza della propria solitaria grandezza, quasi lo lasciasse indifferente la presenza del pubblico intorno al campo.

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Fino alla fine del mondo

Bernardo di Turingia fu il primo profeta ad aver fissato la fine del mondo all’anno 992. In molti credettero alla profezia, tanto da cercare rifugio nelle montagne più alte dei dintorni. Il mondo però non finì e quando nel 1665 un’epidemia di peste colpì l’Inghilterra provocando circa 100.000 vittime Solomon Eccles, quacchero, proclamò che l’ondata era il segno della fine dei tempi. A far cessare la peste e a scongiurare il peggio bastò un incendio che devastò Londra. È il 1932 quando l’egittologo George Riffert analizza le dimensioni della Piramide di Cheope e afferma che il mondo finirà il 6 settembre 1936. Accortosi che non era finito nulla, stabilisce una nuova data: il 20 agosto 1954. Niente da fare. È la volta del 1992: a dirlo è un sacerdote sud coreano, Lee Jang Lim; tutti spacciati, tranne chi fosse corso in banca, avesse prelevato i propri soldi per donarli alla Chiesa Missionaria di Tami. Rientrato il pericolo, ecco che si avvicina la Profezia di Michel de Notre-Dame, noto come Nostradamus che, in merito al 1999 aveva vaticinato: “mille e non più mille“. Un altro flop. A nuovo millennio in corso qualche irriducibile catastrofista è andato a rispolverare una credenza Maya la quale prevedeva un evento di natura imprecisata e di proporzioni immani, capace di trasformare drasticamente l’umanità in data 21 dicembre 2012. Ad ogni modo, per ora, il mondo è ancora qui. Ma se avessimo la certezza che in una “data x” il nostro pianeta si oscurasse per davvero? Se così fosse e, mettiamo, potessimo contare su un’immaginaria Arca di Noè a posti limitati, capace di ospitare alcuni campioni del tennis; chi faremmo salire a bordo? Chi metteremmo in salvo affinché le nuove forme di vita potessero accarezzare le memorie che avevano emozionato il precedentemente estinto genere umano?

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