Elena Dementieva, il fiore di loto russo

Il primo esame Elena Dementieva lo sostiene a sette anni quando, nel novembre del 1988, la madre l’accompagna alla polisportiva del CSKA di Mosca per sostenere un provino di ammissione. Mamma Vera, un’insegnante di letteratura russa con il pallino del tennis al punto da far leva su alcuni trascorsi con la racchetta per ottenere un brevetto d’insegnante, non riceve però la risposta sperata: “sua figlia è troppo alta per diventare una campionessa”. Tornate a casa entrambe in silenzio, la figlia per indole, la madre per la delusione, a cena quest’ultima informa il marito, Viatcheslav, che di mestiere fa l’ingegnere, del responso negativo. Lui non se ne fa un cruccio; probabilmente ritiene che quella figlia alta sì, ma anche tanto intelligente e introversa, che a scuola ha il massimo dei voti e quando gira per casa ha sempre un libro in mano, meriti di inseguire sogni più nobili piuttosto che faticare su un campo da tennis.

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Boris Becker, una vita tra prodigi e follie

nato

Sembra ieri quando, sui sacri campi dell’All England Lawn Tennis Club, un diciassettenne tedesco dal fisico statuario, rosso di capelli, la carnagione bianca e punteggiata di efelidi, serve da sinistra una prima micidiale ed accompagna con lo sguardo le braccia al cielo, mentre calpesta l’erba con una serie di passi veloci, un po’ per arrestare la spinta che lo sta lanciando a rete, un po’ come se quel battere rimarcasse quanto pesante sia l’impresa che ha appena compiuto. Sembra ieri, e invece era il 7 luglio del 1985. Quel ragazzino, Boris Becker, capace di imporre la sua presenza facendo del suo impeto, del suo coraggio cieco e al tempo stesso lucidissimo, della sua impertinenza, della sua potenza, delle armi devastanti che lo avrebbero accompagnato per l’intera carriera; è diventato un uomo. Continue reading “Boris Becker, una vita tra prodigi e follie”

Il cuore caliente di David Nalbandian

Un tennista completo, che adatta il suo tennis a tutte le superfici, con un colpo straordinario: il rovescio. Coraggioso, irascibile, scostante, di indole pigra, capace però di tirare fuori il cuore se giocava per la sua patria, l’Argentina. Un fisico possente, eppure spesso vittima di infortuni che lo hanno costretto a stop prolungati. Sospettoso nei confronti della stampa, per di più costretto a masticare e replicare alle costanti insinuazioni che per anni lo hanno voluto ad un passo dal ritiro; fino all’annuncio ufficiale, arrivato il 1 ottobre 2013. Una passione sfrenata per i rally, sempre alla ricerca di nuove sfide, come quando nel 2002 è andato nuotare con gli squali a Melbourne. Il grande perdente, così lo hanno definito, mentre Roger Federer lo considerava la sua bestia nera. Il tennis, la carriera, il temperamento di David Nalbandian emana un riflesso in tutto ciò.

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Steffi Graf, una vita tra record e incubi

«Non è facile per me convivere con la consapevolezza di essere numero uno perché lei è stata aggredita». Steffi Graf è stata n.1 del mondo per 377 settimane, ha vinto 107 titoli titoli WTA, tra cui spiccano 22 prove del Grande Slam consistenti in 7 Wimbledon, 6 Open di Francia, 5 US Open, 4 Australian Open, 5 Master e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul. Eppure Steffi Graf non si è mai sentita in pace, non è stata mai lasciata in pace. L’aggressione subita da Monica Seles il 30 aprile del 1993, ha scatenato sulle vittorie di Steffi una nube tossica capace di espandersi sopra a sedici anni di carriera.

Il “revisionismo storico” che si è abbattuto sui suoi numeri record non si è però limitato alla “macchia Gunther Parche”. Seppure nessuno oserebbe mai depredare Steffi del titolo di campionessa, in molti l’hanno bollata come una “fortunata” dato che quando nel 1986 si è dimostrata competitiva nel circuito Chris Evert era ormai avviata verso i trentadue anni, Martina Navratilova era nei pressi della trentina, e Hana Mandlikova stava per subire un infortunio che le avrebbe compromesso per sempre il ritorno ai vertici. Ultimo “rimprovero” in ordine cronologico, è stato lo slam vinto da Steffi Graf al Roland Garros nel 1999 quando durante una finale che si stava rivelando senza storia a vantaggio di Martina Hingis, un errore arbitrale, rafforzato dall’intervento dei supervisor che ha punito l’elvetica con un penalty point, e dal maleducatissimo pubblico parigino, ha mandato fuori di testa la giovanissima n.1 uno del mondo spianando la vittoria alla tedesca.

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Little Mo, l’imbattibile sconfitta dal destino

Dallas, 21 giugno 1969. È il solstizio d’estate, il giorno in cui il sole raggiunge il suo punto di declinazione massima, quando a soli 34 anni si spegne una stella che, come una cometa sfolgorante, ha attraversato il Circuito tennistico per alcune stagioni, diventando nel 1953 la prima donna, seppur poco più che un’adolescente, a realizzare il Grande Slam: Maureen Catherine Connolly Brinker. Un destino spietato ha scandito la breve vita di Maureen Connolly, nata a San Diego il 17 settembre del 1934, il cui padre, un marinaio, si è dato alla fuga quando aveva appena quattro anni. Della sua crescita se ne occupa la madre, organista della chiesa di San Diego, che riversa nell’unica figlia tutte quelle ambizioni che non è riuscita ad agguantare per se’. Maureen è ancora una bambina quando viene iniziata alla danza, al canto e al disegno; discipline che segue svogliatamente, giusto per assecondare la madre, mentre lei è animata da una sola passione: l’equitazione. Peccato solo per il costo delle lezioni sia troppo elevato da sostenere per sua madre.

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Roger Federer, il cacciatore di androidi

In Blade Runner Ridley Scott dipinge una Los Angeles apocalittica, dolorosa, decadente. Un non mondo in cui piove sempre; una pioggia sporca, carica di presagi, dove la tecnologia ha permesso la creazione di esseri analoghi agli umani, i replicanti, utilizzati come schiavi per erigere le colonie  extramondo, animati da una forza fisica superiore a quella degli esseri in carne ed ossa, ma con una vita limitata a pochi anni. A New York quando piove il cemento lascia traspirare quanto di più malsano covi nel sottosuolo, l’umidità che aleggia a mezz’aria, una nebbiolina che inzuppa le palline, che si imbeve negli abiti, che si appiccica ai capelli.

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Don Budge, l’uragano che devastò il tennis

Correva l’anno 1938 quando sul tramonto di un mite 19 settembre un’imbarcazione che viaggiava a nord-ovest di Portorico segnalò all’ufficio metereologico di Jacksonville, in Florida, la formazione di un uragano sull’Atlantico. In quei giorni a New York un ventitreenne californiano di origini scozzesi, tale Donald Budge, stava inseguendo un sogno: realizzare il Grande Slam. L’improvvisa deviazione da parte dell’uragano provocò un sospiro di sollievo negli abitanti di Miami, ma la tempesta non prese la via prevista dai metereologi, ossia verso est in pieno Oceano, ed il 21 settembre si abbatté su Long Island con onde alte fino a 12 metri, rese ancora più micidiali dal vento capace di toccare i 200 km/h. In realtà su New York pioveva già da quattro giorni che sommati alla catastrofe provocarono la sospensione degli U.S National International fino al 23 settembre. Solo allora Don Budge poté tornare a calcare i campi di una desolata Forest Hills per sconfiggere in semifinale con un triplo 6-3 il connazionale Sidney Wood. Il giorno dopo si sarebbe arreso anche il suo migliore amico, quel Gene Malko che quando vide sfilare l’ultimo 15 corse incontro al fenomeno che lo aveva battuto con il punteggio di 6-3 6-8 6-2 6-1. «Era l’unico al mondo che comprendeva veramente cosa avevo appena fatto»; avrebbe raccontato in seguito il primo uomo capace di vincere nello stesso anno Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open. Perché sì, un uragano lo era pure Don Budge.

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Suzanne Lenglen, la divine del tennis francese

Suzanne Lenglen, semplicemente “la divine”

Imbattibile. Anticonformista. Mondana. Viziata. Per quanto tradisse una fisicità tutt’altro che femminile e non potesse avvalersi di un viso delicato Suzanne Lenglen era la divine. Lo è ancora. Vuoi perché fortissima lo era per davvero – e per di più l’oculatezza con cui programmava le sue stagioni la spinse a negarsi a eventi che sentiva distanti dalle proprie corde – vuoi perché le sue leggiadre discese a rete parevano farla uscire da un balletto di Schömberg, vuoi perché l’indole ardente le suggerì di apportare un rimarchevole cambio di registro per quanto riguarda gli abiti severi allora in voga, Suzanne divenne una leggenda sui generis. Assoluta e inimitabile.

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Doris Hart, la signora dei tris

Da bravo fratello maggiore Bud Hart ha sempre avuto a cuore la sua sorellina; ragione in più che, ad appena dieci anni le viene diagnosticata una grave osteomelite al ginocchio destro; un’infezione che colpisce sia l’apparato osseo che la cavità midollare. In famiglia imperversa la preoccupazione, tra l’altro un medico mette al corrente i genitori di come nel tempo la malattia potrebbe degenerare fino a rendere necessaria l’amputazione dell’arto. Per questo motivo mamma e papà pensano che quell’impedimento spronerà la figlia a dare il meglio di se’ riversandosi nello studio. Bud però non è dello stesso parere, ritiene che un po’ di sport, se fatto con moderazione, potrebbe farle un gran bene. E così, di nascosto dai genitori, le procura una racchetta e la porta con se’ al circolo tennis che è solito frequentare a Saint Louis. Di lì a sei mesi Doris si ristabilisce, dopo due anni inizia a batterlo con regolarità. Quella bambina, Doris Hart, sarebbe diventata una delle tenniste più vincenti tra la fine degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50.

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