Boris Becker, una vita tra prodigi e follie

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Sembra ieri quando, sui sacri campi dell’All England Lawn Tennis Club, un diciassettenne tedesco dal fisico statuario, rosso di capelli, la carnagione bianca e punteggiata di efelidi, serve da sinistra una prima micidiale ed accompagna con lo sguardo le braccia al cielo, mentre calpesta l’erba con una serie di passi veloci, un po’ per arrestare la spinta che lo sta lanciando a rete, un po’ come se quel battere rimarcasse quanto pesante sia l’impresa che ha appena compiuto. Sembra ieri, e invece era il 7 luglio del 1985. Quel ragazzino, Boris Becker, capace di imporre la sua presenza facendo del suo impeto, del suo coraggio cieco e al tempo stesso lucidissimo, della sua impertinenza, della sua potenza, delle armi devastanti che lo avrebbero accompagnato per l’intera carriera; è diventato un uomo. Continue reading “Boris Becker, una vita tra prodigi e follie”

Il cuore caliente di David Nalbandian

Un tennista completo, che adatta il suo tennis a tutte le superfici, con un colpo straordinario: il rovescio. Coraggioso, irascibile, scostante, di indole pigra, capace però di tirare fuori il cuore se giocava per la sua patria, l’Argentina. Un fisico possente, eppure spesso vittima di infortuni che lo hanno costretto a stop prolungati. Sospettoso nei confronti della stampa, per di più costretto a masticare e replicare alle costanti insinuazioni che per anni lo hanno voluto ad un passo dal ritiro; fino all’annuncio ufficiale, arrivato il 1 ottobre 2013. Una passione sfrenata per i rally, sempre alla ricerca di nuove sfide, come quando nel 2002 è andato nuotare con gli squali a Melbourne. Il grande perdente, così lo hanno definito, mentre Roger Federer lo considerava la sua bestia nera. Il tennis, la carriera, il temperamento di David Nalbandian emana un riflesso in tutto ciò.

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Steffi Graf, una vita tra record e incubi

«Non è facile per me convivere con la consapevolezza di essere numero uno perché lei è stata aggredita». Steffi Graf è stata n.1 del mondo per 377 settimane, ha vinto 107 titoli titoli WTA, tra cui spiccano 22 prove del Grande Slam consistenti in 7 Wimbledon, 6 Open di Francia, 5 US Open, 4 Australian Open, 5 Master e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul. Eppure Steffi Graf non si è mai sentita in pace, non è stata mai lasciata in pace. L’aggressione subita da Monica Seles il 30 aprile del 1993, ha scatenato sulle vittorie di Steffi una nube tossica capace di espandersi sopra a sedici anni di carriera.

Il “revisionismo storico” che si è abbattuto sui suoi numeri record non si è però limitato alla “macchia Gunther Parche”. Seppure nessuno oserebbe mai depredare Steffi del titolo di campionessa, in molti l’hanno bollata come una “fortunata” dato che quando nel 1986 si è dimostrata competitiva nel circuito Chris Evert era ormai avviata verso i trentadue anni, Martina Navratilova era nei pressi della trentina, e Hana Mandlikova stava per subire un infortunio che le avrebbe compromesso per sempre il ritorno ai vertici. Ultimo “rimprovero” in ordine cronologico, è stato lo slam vinto da Steffi Graf al Roland Garros nel 1999 quando durante una finale che si stava rivelando senza storia a vantaggio di Martina Hingis, un errore arbitrale, rafforzato dall’intervento dei supervisor che ha punito l’elvetica con un penalty point, e dal maleducatissimo pubblico parigino, ha mandato fuori di testa la giovanissima n.1 uno del mondo spianando la vittoria alla tedesca.

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Wimbledon: Djokovic re, ma Federer è infinito

«Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo». Quando dal coro dell’Antigone si levano questi versi, Sofocle celebra l’uomo sotto ogni sua forma: la creatura più meravigliosa esistente al mondo ma, allo stesso tempo, anche la più terribile, la più complessa, capace di compiere le gesta più eroiche e di elevarsi al punto da apparire ai mortali come un semidio; eppure oppresso dalle sue stesse passioni, succube delle sue paure, delle sue angosce, da quel suo essere fatto di carne ed ossa. È curioso come in molte lingue, dall’inglese al francese, dal russo al tedesco; l’arte di rappresentare una storia, ossia di recitare, coincida con il verbo giocare. Anche nello sport, si sa, vale lo stesso verbo. Un gioco, uno spettacolo, a questo si possono riassumere sia una rappresentazione teatrale quanto una partita di tennis. Ma possono le due arti mescolarsi insieme? Può una partita di tennis assumere dinamiche teatrali, trasformarsi in quel entertainment, tanto caro agli americani, che va oltre allo strabiliante valore del gioco espresso dai due giocatori? Il match, lo spettacolo di cui Roger Federer e Novak Djokovic sono stati protagonisti sì, è andato oltre, è diventato teatro, più precisamente tragedia. Tutto, in ogni singolo aspetto, si è rivelato adeguato, quasi fosse stato smaccatamente studiato, voluto, da un Eschilo o uno Shakespeare odierno. Non poteva infatti esserci cornice più appropriata del centrale dell’All England Tennis Club, in quella Londra Shakespeariana, così vicina al teatro. Non potevano esserci due campioni più idonei per interpretare i due ‘eroi’, i due contendenti pronti a giocarsi il tutto e per tutto per agguantare quel titolo che decretava anche il n.1, al di là del computer e di ogni ragionevole dubbio.

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Gottfried von Cramm: l’uomo che disse no a Hitler

Le origini aristocratiche, alto, biondo, gli occhi azzurri, i modi raffinati che lasciavano intendere una sottile aria di superiorità mentre altro non era che sublime educazione. Gottfried von Cramm incarnava il prototipo della razza ariana, ideologia posta alla base del partito nazista, salito al potere esattamente un anno prima che il barone del tennis si imponesse all’ Open di Francia, battendo all’ultimo atto Jack Crawford con il punteggio di 6-4 7-9 3-6 7-5 6-3. Un trionfo, quello di Parigi, rafforzato dal bis conseguito due anni dopo, che lo innalzò a esempio di fierezza nazionale, eroe invincibile, impeccabile portabandiera di un movimento che faceva del delirio di onnipotenza un’arma di propaganda altrettanto potente e convincente come era pronta a dimostrarsi la forza bellica germanica. Eppure Gottfried von Cramm non aveva nulla a che vedere con tutto ciò. Non solo evitò di sostenere il partito nazista durante gli anni dell’ascesa, a mano a mano che il fanatismo aumentava von Cramm si schierò apertamente contro il regime, non risparmiandosi in frecciate sarcastiche nei confronti dei suoi gerarchi. In secondo luogo, Gottfried von Cramm era uno splendido giocatore, un campione, ma irrimediabilmente destinato a ricoprire il ruolo di “secondo”: tre finali consecutive disputate  e perse a Wimbledon, dal 1935 al 1937, un ultimo atto agli US Open andato in fumo nel 1937 e, soprattutto, la debacle durante la semifinale di Coppa Davis, sempre nel 1937, contro gli Stati Uniti. Promesse suggerite, ma non mantenute. Speranze in lui riposte, doveri a lui congiunti, non rispettati. L’errore, il “difetto” di von Cramm, risiedeva nel sentirsi e nel voler essere un uomo libero, nel rifiutarsi di entrare a far parte di un ingranaggio folle, nel non essere un vincente.

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Little Mo, l’imbattibile sconfitta dal destino

Dallas, 21 giugno 1969. È il solstizio d’estate, il giorno in cui il sole raggiunge il suo punto di declinazione massima, quando a soli 34 anni si spegne una stella che, come una cometa sfolgorante, ha attraversato il Circuito tennistico per alcune stagioni, diventando nel 1953 la prima donna, seppur poco più che un’adolescente, a realizzare il Grande Slam: Maureen Catherine Connolly Brinker. Un destino spietato ha scandito la breve vita di Maureen Connolly, nata a San Diego il 17 settembre del 1934, il cui padre, un marinaio, si è dato alla fuga quando aveva appena quattro anni. Della sua crescita se ne occupa la madre, organista della chiesa di San Diego, che riversa nell’unica figlia tutte quelle ambizioni che non è riuscita ad agguantare per se’. Maureen è ancora una bambina quando viene iniziata alla danza, al canto e al disegno; discipline che segue svogliatamente, giusto per assecondare la madre, mentre lei è animata da una sola passione: l’equitazione. Peccato solo per il costo delle lezioni sia troppo elevato da sostenere per sua madre.

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Adieu Marion, l’Odissea ha avuto fine

15 agosto 2013. La carriera di Marion Bartoli conosce il suo epilogo in un’afosa serata americana, a Cincinnati. Giusto una trentina di minuti dopo aver perso e stretto la mano a una delle nuove starlette del circuito, la romena Simona Halep, ecco l’annuncio, tra le lacrime, sotto agli sguardi indiscreti dei giornalisti che, forse senza nemmeno vivere fino in fondo il momento, si sono affrettati a catapultare la notizia in tutti gli angoli del pianeta. Marion Bartoli si ritira.

Attoniti, confusi, spiazzati. Nonostante tanta demagogia post-Wimbledon, la francese è sempre stata guardata con circospezione. Marion Bartoli «quella in sovrappeso», Marion Bartoli «quella nevrastenica», Marion Bartoli «quella con il padre invadente che le ha rovinato la vita». Se nel 2007, anno della sua prima finale sui verdi campi del All England Lawn Tennis and Croquet Club veniva chiesto alla gente cosa ne pensasse della transalpina, si aveva in risposta questi tre epitaffi. Apertamente. Se una trentina di giorni fa, veniva posta la stessa domanda, ti si riversavano addosso come replica all’incirca le stesse identiche parole, solo con la mano di fronte alla bocca, biascicate. Perché Marion ce l’aveva fatta, era arrivata lassù dove in poche, in pochissime arrivano.

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Don Budge, l’uragano che devastò il tennis

Correva l’anno 1938 quando sul tramonto di un mite 19 settembre un’imbarcazione che viaggiava a nord-ovest di Portorico segnalò all’ufficio metereologico di Jacksonville, in Florida, la formazione di un uragano sull’Atlantico. In quei giorni a New York un ventitreenne californiano di origini scozzesi, tale Donald Budge, stava inseguendo un sogno: realizzare il Grande Slam. L’improvvisa deviazione da parte dell’uragano provocò un sospiro di sollievo negli abitanti di Miami, ma la tempesta non prese la via prevista dai metereologi, ossia verso est in pieno Oceano, ed il 21 settembre si abbatté su Long Island con onde alte fino a 12 metri, rese ancora più micidiali dal vento capace di toccare i 200 km/h. In realtà su New York pioveva già da quattro giorni che sommati alla catastrofe provocarono la sospensione degli U.S National International fino al 23 settembre. Solo allora Don Budge poté tornare a calcare i campi di una desolata Forest Hills per sconfiggere in semifinale con un triplo 6-3 il connazionale Sidney Wood. Il giorno dopo si sarebbe arreso anche il suo migliore amico, quel Gene Malko che quando vide sfilare l’ultimo 15 corse incontro al fenomeno che lo aveva battuto con il punteggio di 6-3 6-8 6-2 6-1. «Era l’unico al mondo che comprendeva veramente cosa avevo appena fatto»; avrebbe raccontato in seguito il primo uomo capace di vincere nello stesso anno Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open. Perché sì, un uragano lo era pure Don Budge.

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Helen Wills Moody, Little Miss Poker Face

Se il tennis ha avuto la sua Greta Garbo, altri non potrebbe essere stata che Helen Wills Moody. Californiana di Centerville, dove è nata il 6 ottobre del 1905 – stesso millesimo dell’attrice svedese – Helen incarnava il glamour delle star hollywoodiane, con tutti i preziosismi del caso, ma la freddezza caratteriale faceva di lei una figura ambigua, estranea a qualsiasi luogo. Non a caso i suoi modi impenetrabili ne precedettero i trionfi al punto che il giornalista sportivo statunitense Grantland Rice la soprannominò Little Miss Poker Face, ossia Signorina faccia da poker.

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Suzanne Lenglen, la divine del tennis francese

Suzanne Lenglen, semplicemente “la divine”

Imbattibile. Anticonformista. Mondana. Viziata. Per quanto tradisse una fisicità tutt’altro che femminile e non potesse avvalersi di un viso delicato Suzanne Lenglen era la divine. Lo è ancora. Vuoi perché fortissima lo era per davvero – e per di più l’oculatezza con cui programmava le sue stagioni la spinse a negarsi a eventi che sentiva distanti dalle proprie corde – vuoi perché le sue leggiadre discese a rete parevano farla uscire da un balletto di Schömberg, vuoi perché l’indole ardente le suggerì di apportare un rimarchevole cambio di registro per quanto riguarda gli abiti severi allora in voga, Suzanne divenne una leggenda sui generis. Assoluta e inimitabile.

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