Lo spietato mondo di Dogville

Se l’obiettivo originale di Dogma 95 era quello di purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali, dagli investimenti miliardari e dalla spettacolarizzazione tesa ad americanizzare qualsiasi prodotto, partendo da linee base piuttosto precise – fondate su un decalogo redatto dagli ideatori del progetto Thomas Vitenberg e Lars Von Trier – come il divieto di usare luci artificiali, scenografie, colonne sonore e tracce che non appartenessero a musica diegetica, nonché di rifiutare un qualsiasi espediente di ripresa al di fuori della telecamera a mano; ebbene, a otto anni di distanza dalla nascita del Manifesto, correva quindi l’anno 2003, l’uscita nelle sale cinematografiche di Dogville ha dimostrato che credere di poter incatenare un genio a una qualsiasi regola, fosse pure la più anti-convenzionale, fosse pure la più controcorrente, fosse pure essa stata scritta di suo pugno, risponde a un solo nome: utopia. Non è perciò da ritenersi un caso che, tempo due stagioni, i registi appartenenti a tal proposito abbiano sancito la fine di un patto mai interamente rispettato.

Dogville è stato probabilmente la sdoganata decisiva, la più cruenta e dolorosa perché nell’ottavo film di Lars Von Trier il cinema diviene teatro – o il teatro diviene cinema – al punto da disegnare la città che dà il titolo alla pellicola su un grande palcoscenico che, scivolati via una quindicina di secondi, vediamo dall’alto, quasi fosse una mappa, con i contorni delle strade, delle case, della chiesa, degli orticelli, persino di un cane Mosè, tracciati col gesso.

Tra le mura trasparenti della cittadina, che la voce narrante ci racconta situata sulle montagne rocciose americane al termine di una strada oltre alla quale si delinea l’ingresso di una vecchia miniera, vive una piccola comunità che, giorno dopo giorno, consuma le proprie giornate senza particolari pretese: Tom Edison Jr. ( Paul Bethany) è un aspirante scrittore più che altro dedito a organizzare riunioni per il riarmo morale del paese che vive con il padre Sir Edison Senior (Philip Baker Hall) un medico ipocondriaco ormai in pensione; l’agricoltore Chuk (Stellan Skarsgård) e la moglie Vera (Patricia Clarkson) sono genitori di ben sette figli tutti depositari di nomi provenienti dalla mitologia; la famiglia Henson è dedita alla molatura del vetro ed è composta da Mr Henson (Bill Raymond), Mrs Henson (Blair Brown), Liz (Chloe Sevigny), oggetto dei desideri di Tom, e Bill (Jeremy Davies), palesemente affetto da un ritardo mentale e avversario giornaliero di Tom in inutili partite a dama; Ma Ginger (Lauren Bacall) e Gloria (Harriet Andersson) sono proprietarie di una botteguccia costosissima; Ben (Zeliko Ivanek) è un semplice camionista, che ha il vizio di alzare il gomito e soddisfa i suoi semplici bisogni una volta al mese in un bordello limitrofo; Jack McCay (Ben Gazzarra) è un settantenne solitario che non vuole ammettere la propria cecità; Olivia (Cleo King) e June  (Shauna Shim) sono entrambe di colore, la prima domestica, la seconda invalida ed infine Marta (Siobhan Fallon) gestisce la chiesetta rimasta senza pastore (ma che ha in Tom Edison il predicatore ideale).

La quiete o, per meglio dire, la quotidianità di Dogville è scossa dall’arrivo di Grace (Nicole Kidman), bellissima, capelli ossigenati, la volpe argentata al collo e, palesemente in fuga. A suggerire che la storia sia ambientata intorno al 1930 sono gli abiti dei protagonisti, ma ancor più l’auto con a bordo due sconosciuti ed il loro capo i cui modi sono facilmente collegabili al mondo della malavita. Tom, pochi minuti prima imbattutosi nella femme fatale, parla con loro, mente affermando di non aver visto nessuna donna nei paraggi e rispedisce l’auto indietro non senza essersi prima intascato il bigliettino da visita del boss a caccia della bionda

Compito della comunità di cui Tom si fa portavoce sarà quello di superare la diffidenza iniziale e di accogliere e dare rifugio a Grace in cambio di piccoli lavoretti a servizio dei cittadini. Sembra tutto piuttosto semplice e nemmeno troppo artefatto, almeno finché un auto della polizia non si presenta a Dogville e un tutore dell’ordine attacca un manifesto che non lascia spazio all’interpretazione: Grace Margaret Mulligan è ricercata. Al che la situazione si complica: non solo aumentano le pretese nei confronti della fuggitiva, tutto ciò che covava negli anfratti di Dogville sembra prendere forma e così le punzecchiature cedono il passo a cattiverie sempre più consistenti, l’invidia assume i tratti di una gelosia rancorosa, le molestie gettano la maschera dell’ipocrisia e lasciano spazio alla violenza.

Dogville si trasforma così in una prigione per Grace, giorno dopo giorno un un po’ più schiava delle bassezze degli abitanti le quali si perpetuano con ricatti e abusi sempre più abietti e forse ancor più succube delle menzogne di Tom che alla fine decide di consegnare al boss colei che è ormai una vittima con tanto di collare al collo unito con una catena a una pesante ruota di ferro.

L’accoglienza ossequiosa, per non dire orribilmente cortigiana, che Tom riserva al boss e alla sua banda precede di poco il dialogo tra Grace e quello che risulterà essere non un marito o un amante respinto, bensì il padre: «Ai cani si possono insegnare molte cose utili ma non se li perdoniamo ogni volta che obbediscono alla loro natura…»; fa presente James Caan a una Kidman che avrebbe meritato il bis agli Oscar. Sono loro a decidere la sorte di Dogville nonché il finale del film: «Perché non dovrei essere clemente? »; gli domanda Grace. «Dovresti essere clemente quando è il momento di essere clemente. Ma devi mantenerti sul tuo livello. Devi questo alla gente. Le pene che tu meriti per le tue trasgressioni, loro le meritano per le loro trasgressioni. Ogni essere umano deve rendere conto delle proprie azioni».

Il colore del finale altro non potrebbe essere che il rosso. Il rosso come il sangue degli abitanti di Dogville. Il rosso come il fuoco che avvolge Dogville. Perché dietro alla facciata di normalità, Dogville era l’inferno. Non a caso il solo a essere risparmiato sarà il cane, Mosè, tenuto alla catena per quasi tre ore di film. È l’abbaiare di Mosé ad anticipare l’entrata in scena di Grace. Stando alle parole della voce off «La cosa non era insolita in sé, ma era il modo di abbaiare che era nuovo. Non era forte ma più una specie di ringhio, come se il pericolo fosse a portata di mano». Solo alla fine comprendiamo come Mosè avvisasse dell’imminente pericolo non la comunità, ma Grace. Mosè, non proprio un cane, in quanto tratteggiato con il gesso, eppure il solo con un cuore pulsante.

Titolo: Dogville

Paese: Danimarca, Svezia, Italia

Anno: 2003

Regia: Lars Von Trier

Soggetto: Lars Von Trier

Sceneggiatura: Lars Von Trier

Casa di produzione: Zentropa

Fotografia: Anthony Don Mantle

Montaggio: Molly Marlene Stensgard

Costumi: Manon Rasmussien

Musiche: Antonio Vivaldi

Cast: Nicole Kidman, Paul Bettany, Stellan Skarsgård, James Caan, Philip Baker Hall, Lauren Bacal, Chloe Sevigny, Blair Brown, Patricia Clarkson, Zeliko Ivanek, Hariet Andersson, Ben Gazzara, Jeremy Davies, Cleo King, Siobhan Fallon, Bill Raymond