La Russia a Rio, tra ingiustizie, lacrime e orgoglio
Le Olimpiadi della Russia hanno visto la luce molto prima della cerimonia di apertura avvenuta a Rio il 5 agosto. La freccia scoccata in perfetta sincronia e complicità da WADA e IAAF ha colpito il cuore della Russia nel novembre del 2015 quando il colosso dell’est è stato sospeso a tempo indeterminato con l’accusa di aver impartito “doping di Stato”. Il fazioso Rapporto McLaren avrebbe infatti evidenziato «l’abuso di potere più deliberato e sconvolgente mai visto nella storia dello sport. Il ricorso al doping in trenta sport significa che non può esistere più la presunzione di innocenza». La sentenza IAAF è stata infine ribadita, nel giugno 2016, dal CIO il quale ha confermato l’esclusione della Russia nelle discipline di atletica a Rio 2016, per quindi bisbigliare una sorta di apertura nei confronti degli atleti che si sono sempre dimostrati puliti. Presupposti magnanimi che si sono contraddetti all’istante nel caso più clamoroso e vergognoso, ossia quello di Yelena Isinbayeva, mai trovata positiva ma a cui è stato vietato di prendere parte ai Giochi. Tra le pieghe di uno scandalo destinato a “sforare” i confini dell’atletica in quanto, in una dimensione parallela che risponde al nome di tennis era stata proclamata la positività dell’atleta russa più conosciuta al mondo, Maria Sharapova, e che stando all’accusa vedrebbe coinvolti persino i servizi segreti sovietici; la dichiarazione del presidente Vladimir Putin riassume il clima ostile nei confronti del paese di cui è al comando affermando che «la comunità internazionale è testimone di una pericolosa ricomparsa della politica che interferisce con lo sport».
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