Hieronymus Bosh e il bestiario dei demoni

L’alone di mistero che avvolge le opere di Hieronymus Bosch si dispiega tra i simbolismi espressi attraverso i personaggi che popolano il suo universo surreale: figure a metà tra la bestia e l’umano immerse in contesti che suggeriscono un mondo conflittuale dove la morale e la religione inducono a visioni, allucinazioni, riconducibili a un universo interiore dove il peccato presuppone punizioni infernali, fino alla dannazione eterna. 

L’enigma insegue Hieronymus Bosch sin dalle più banali note biografiche. Nato Jeroen Anthoniszoon van Aken in una data compresa tra il 1450 e il 1455, forse il 2 ottobre, a ‘s-Hertogenbosch, nel sud degli odierni Paesi Bassi. Appurato è invece che il nonno Jan e quattro dei suoi cinque figli, fra cui il padre dell’artista, Anton van Aken, erano pittori. Un atto certifica inoltre che nel febbraio del 1462 il padre acquistò la casa sul versante orientale della Piazza del Mercato – oggi al civico Markt 29 – dove in seguito all’incendio dell’anno seguente che distrusse in città circa 4.000 abitazioni, verrà fissata la bottega di famiglia.

Si ritiene che Hieronymus abbia cominciato l’apprendistato a bottega a partire dai suoi tredici anni. In quell’epoca circolavano xilografie e miniature, spesso legate al gusto gotico, verso le quali dovette essere indirizzato dai familiari, come dimostrerebbero alcune delle poche opere attribuibili alla bottega dei van Aken, come la “Crocifissione” del 1444. Sicuramente l’artista sviluppò un proprio stile, basato sulla finezza dei dettagli e la resa dei volumi plastici e la sua opera subì l’influsso della “devotio moderna” e del mistico Jan van Ruusbroec.

Intorno al 1480 è datata la “Estrazione della pietra della follia”; ora al Museo Prado di Madrid. Il tema si rifà al detto popolare che indicava i pazzi come coloro che hanno un sasso conficcato in fronte. Il dipinto mostra una fase dell’intervento nel quale uno stolto si fa convincere da un ciarlatano a farsi togliere dalla testa la pietra della follia.

Se il 15 giugno 1481 è menzionato come ammogliato, con Aleid van de Meervenne, di estrazione borghese, e che porterà in dote alcuni terreni a Oirschot; in una data pure essa oscillante, tra il 1486 e il 1488, Jeroen si unisce alla Confraternita della Nostra Diletta Signora della città natale, legata al culto della Vergine. L’adesione, seguita da una “promozione” tra i “notabili” della confraternita, un gruppo selezionato di circa cento persone, gli permette di acquisire notorietà intrattenendo rapporti con le classi sociali più elevate, e di riflesso di accedere a una clientela facoltosa. 

Tra il 1480 e il 1485 Bosch esegue La “Epifania”, oggi conservata a Filadelfia al Museum of Art, in cui l’andamento lineare, tortuoso e spezzato della linea e l’incerta applicazione della prospettiva, rivelano un deciso influsso della pittura tardo gotica. Sempre a quel periodo risale la “Crocifissione con donatore”, oggi a Bruxelles al Musée Royal des Beaux-Arts. In esso  compaiono Maria, Giovanni Apostolo, un donatore inginocchiato e San Pietro raffigurato nell’atto di presentare il fedele alla divinità.  Ai piedi della croce si trovano alcune ossa e, vicino, è depositato un teschio, tipico richiamo del memento mori.  Il pallore del donatore farebbe pensare che l’uomo fosse già morto al momento dell’esecuzione, e che la tavola fosse quindi un voto per la sua anima. 

Di difficile datazione è invece il “Ecce Homo”, conservato a Francoforte allo Städelsches Kunstinstitut. In scena Ponzio Pilato mostra Gesù flagellato e incoronato di spine alla folla, è risolta in maniera piuttosto audace, con una disposizione su due livelli visti di lato, animata da un notevole numero di personaggi. Dalla folla armata e urlante in basso si levano grida che sono talvolta segnate da fumetti, e ciò avviene anche dal gruppo dei sacerdoti e soldati nella parte superiore, spesso ritratti con accenti grotteschi. Al 1490 è attribuito la “Salita al Calvario”, ora a Vienna, in cui il Cristo è circondato da una folla bestiale, mentre in basso un frate confessa il ladrone prima dell’esecuzione. In questa tavola, Bosch utilizza la grottesca e la deformazione e nessun altro simbolo per presentare la malvagità della scena. La sua composizione e inquadramento «sovrasta la crudeltà, l’ira e l’odio degli uomini», come si vede nei gesti e nelle mimiche facciali. L’intera composizione è popolata da personaggi negativi, per lo più col volto scuro, come a simboleggiare i loro cattivi sentimenti, deformati da un’intera gamma di smorfie e distorsioni caricaturali che cercano di rappresentare tutte le malvagità e le bassezze dell’uomo.

Databile intorno al 1490, “Il carro di fieno”, che ora si trova al Museo del Prado di Madrid e che rappresenta la frenesia e la caoticità della vita guidata dalle passioni e dai vizi. Seguono altre opere apprezzabili: da “Nave dei folli“, conservata al Museo del Louvre ed ispirata dal poema satirico omonimo dell’umanista Sebastian Brandt – dove un gruppo di pazzi si imbarca su una nave per Narragonien, la terra promessa dei matti, ma che invece subisce un naufragio approdando a Schlaraffenland, la terra della cuccagna – a “Allegoria della golosità e della lussuria” in cui si suggerisce come “la ghiottoneria e l’ubriachezza siano la madre della fornicazione”. Sempre a questo periodo dovrebbe appartenere la tavola, forse di un trittico non identificato, con la “Morte di un avaro“, ora alla National Gallery of Art di Washington e che esplicita una potente condanna all’avarizia.

Il periodo che va tra il 1500 e il 1510 è il più fecondo a livello artistico; proprio in questi anni sono datati i più importanti trittici – opere costituite da tre pannelli dipinti, uno più ampio centrale e due laterali, minori come dimensioni – a noi pervenuti. Il più famoso e ambizioso è indubbiamente “Il Giardino delle Delizie”. Ritenuto il capolavoro di Bosch è un’opera densa si simbolismi, talmente complessa e visionaria che storici e critici non sono mai giunti a darne una lettura interpretativa concorde. 

È probabile che il committente dell’opera sia stato Enrico III di Nassau-Breda, Governatore di molte delle province degli Asburgo nei Paesi Bassi, incallito collezionista di opere d’arte e di curiosità esotiche. Alla morte di Enrico III l’opera passò nelle mani del nipote Guglielmo I d’Orange finché nel 1568 il Duca d’Alba confiscò il dipinto e lo portò in Spagna, dove divenne proprietà di Don Fernando di Toledo, dell’Ordine di San Giovanni, figlio naturale del Duca. Dopo la sua morte, all’asta che ne conseguì, Filippo II di Spagna acquistò i”l Giardino delle Delizie” e qualche anno dopo lo portò all’Escorial, dove è rimasto fino al 1939, fino cioè alla sua definitiva collocazione nel Museo del Prado.

Lo sportello di sinistra raffigura Il paradiso terrestre, con la creazione di Adamo ed Eva, lo scomparto di centro è Il giardino delle delizie mentre lo sportello di destra è conosciuto come L’Inferno musicale. Nel primo pannello troviamo la scena, ambientata nel Paradiso Terrestre, in cui Dio presenta Eva al cospetto di Adamo. Dietro la donna e in primo piano giocano nell’erba numerosi animali. Qui, da una fossa circolare, escono uccelli e bestie alate finemente rappresentati nei particolari, alcuni realmente esistenti e altri frutto di fantasia. Un pesce con mani umane e becco di anatra stringe un libro emergendo dalle acque torbide, mentre attorno a lui altri animali dai colori oscuri si mimetizzano nel profondo della pozza. Fuori dall’acqua alcuni rapaci si cibano di rane mentre un felino stringe in bocca una preda. Al centro del pannello, nelle acque di un laghetto, si trova una complessa costruzione rosa, identificata da alcuni critici come la “Fontana della vita”, formata da motivi floreali e parti in vetro, fittamente incastonata di gemme preziose. Su queste sponde si abbeverano alcuni animali, reali o mitologici, come un unicorno. A destra, invece, risalgono dalle acque salamandre e altri anfibi verso una roccia Il pannello centrale rappresenta il vasto giardino “delle delizie” da cui il trittico prende nome: in questa distesa verde abbondano figure maschili e femminili ignude, circondate da enormi varietà di animali, piante e fiori; l’ambientazione non corrisponde né a quella del paradiso descritto nel pannello precedente, né a quella di un territorio terrestre. Creature fantastiche si confondono con elementi reali, frutti comuni vengono rappresentati in forme gigantesche e sproporzionate, esprimendo forti significati simbolici. Le figure sono impegnate in sfrenati giochi amorosi e varie altre attività, in coppie o in gruppi più vasti; si esprimono nelle loro azioni apertamente e senza vergogna, mostrando secondo alcuni critici una curiosità carnale tipicamente adolescenziale. L’ultima parte del dipinto abbonda di strumenti musicali usati come strumenti di tortura per le punizioni carnali dei dannati, inflitte da curiosi demoni-grilli. Il pannello rappresenta il peccato come una sorta di “musica della carne” e mostra un mondo in cui la presenza umana è stata irrimediabilmente sconfitta dalle tentazioni del male e sconta di conseguenza una dannazione eterna. Il tono di quest’ultima sezione del dipinto si scontra fortemente con le atmosfere dei pannelli precedenti; la scena è ambientata di notte o in un mondo dal cielo oscuro, dove la beltà naturale dei due Giardini è scomparsa per far posto a immagini angoscianti di dolore e tormento.

La mano di Bosch si esprime al meglio anche nel “Trittico del Giudizio”, nel “Trittico dell’adorazione dei magi”, nel “Trittico di Sant’Antonio” e nel “Trittico di Santa Giuliana”. Di grande impatto vi sono poi dipinti quali “San Giovanni Battista in meditazione”. Di impatto sono senza dubbio pure “San Giovanni a Patmos”, “San Cristoforo”,  “San Girolamo in preghiera”, “Incoronazione di spine” in cui il Cristo appare rassegnato mentre quattro aguzzini lo circondano e il “Giudizio universale” di cui è possibile ammirare solo un frammento superstite in i dannati vengono torturati da creature ibride fino ad essere fatti a pezzi da insetti e roditori.

Bosch ha poi dato vita anche a una serie di quattro dipinti considerati tra le sue creazioni più conturbanti: la “Quattro visioni dell’Aldilà”. Il primo olio è rappresentato da “La caduta dei dannati” in cui si notano tre figure di anime malvagie che scaraventate da altrettanti diavoli sprofondano attraverso l’abisso infernale verso “una palude di cenere incandescente e di lava rosso fuoco”. Al centro in basso, una quarta figura umana si trova già avvolta dai fumi, mentre in alto a sinistra (a destra per lo spettatore) un quarto diavolo sembra esultare in volo. Il paesaggio vulcanico è appena rischiarato di bagliori delle eruzioni. Nella parte alta, le sagome diaboliche, caratterizzate da un corpo scimmiesco con testa da pesce abissale e tipici barbigli, sono rese con poche sintetiche pennellate luminose di grande modernità che le ritagliano sul fondo nero, con tratti bianchi. Le figure umane sono invece definite da tratti ocra. I toni cupi e angoscianti danno alla scena un’impressione sinistra. La seconda tavola propone il dramma della dannazione, ovvero l’”Inferno, dove la rappresentazione è ancora ridotta all’essenziale, con poche figure in primo piano torturate dai demoni sullo sfondo di un antro oscuro, rischiarato solo dai fumi e dalle fiamme dell’incendio perpetuo, che rifulge dietro una minacciosa rupe aguzza. La terza tavola rappresenta il “Paradiso terrestre”, nel quale uomini e donne sono accompagnati da angeli verso una foresta, oltre la quale è visibile una collina dove si trova la fontana della giovinezza, che si staglia in alto, secondo una prospettiva da sogno, sullo sfondo di un lontanissimo paesaggio che sfuma in profondità. La quarta tavola mostra l’”Ascesa all’Empireo, in cui una serie di anime nude, trasportate da coppie di angeli, vengono condotte verso un tunnel con in fondo una grande luce, quella del Paradiso. Si tratta di un’invenzione di grande efficacia, resa con la semplice giustapposizione di cerchi non concentrici scalati nella tonalità dal blu più scuro all’azzurro chiaro, forse ispirata a miniature tardo-medievali. Le anime appaiono come attratte e risucchiate dalla luce e dal colore, presentandosi in ginocchio e senza peso verso il varco, con un andamento ascendente a zig-zag di notevole efficacia. In fondo al tunnel le aspetta un personaggio, forse un angelo o san Pietro, immerso nella luce assoluta.

Una luce, o una assenza di luce, verso cui Hieronymus Bosch si incamminò agli inizi di agosto del 1916 a ’s-Hertogenbosch. Appurato è che il 9 agosto 1516 nella Cappella di Nostra Signora, appartenente alla Confraternita, si celebrano in forma solenne le esequie del grande artista nei cui registri è ricordato come: «Hieronymus Aquen, alias Bosh, insignis pictor».

I principi morali, i dogmi religiosi e la condanna dei peccati sono i temi più assiduamente affrontati da Bosch. Nel tentativo di spiegare i soggetti della poetica di Bosch viene spontaneo pensare che l’esperienza della Confraternita abbia ricoperto un ruolo predominante, eppure, molti saggisti hanno ipotizzato la sua relazione con altre sette, come quella degli “Homines intelligentiae”, ispirata a un’eresia clandestina che prevedeva il nudismo e il libero amore; oppure quella di una cellula superstite della “Eresia Catara”. Altri tentativi hanno coinvolto la teoria degli umori, l’alchimia, la farmaceutica, le perversioni erotiche e l’omosessualità.

Quale sia stato l’impulso che ha spinto Hieronymus Bosch a edificare i suoi incubi su tela, le mappe oniriche di cui è l’autore sono destinate a essere al centro di tentativi sempre nuovi di decodificazione in quanto la sua arte custodisce aspetti tuttora all’avanguardia, applicabili a qualsiasi epoca: l’essere umano bestia viziosa lo è da sempre e per sempre lo sarà, così come angoscianti e prive di risposte sono le tenebre che avvolgono l’esistenza. Hieronymus Bosch potrebbe aver scoperto la più inconfessabile delle verità. Se non esiste l’aldilà, non esiste nemmeno l’aldiquà