Eyes Wide Shut, la danza macabra di Stanley Kubrick

Una luce calda avvolge l’accogliente appartamento newyorkese di una coppia alto borghese che si sta preparando per un party prenatalizio. Non fosse per la marcata personalità dei due si tratterebbe di una scena ordinaria, en passant, ma l’algida bellezza di Alice (Nicole Kidman) – che di spalle si sfila un elegante abito nero mentre Bill (Tom Cruise) attraversa con passo sicuro alcune stanze per quindi raggiungere il bagno dove la splendida moglie è ora seduta sul water – riversa sulla pellicola una potenza visiva tale da rendere sufficienti un paio di minuti per consegnare ai posteri la tredicesima e ultima pellicola di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut

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Lo spietato mondo di Dogville

Se l’obiettivo originale di Dogma 95 era quello di purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali, dagli investimenti miliardari e dalla spettacolarizzazione tesa ad americanizzare qualsiasi prodotto, partendo da linee base piuttosto precise – fondate su un decalogo redatto dagli ideatori del progetto Thomas Vitenberg e Lars Von Trier – come il divieto di usare luci artificiali, scenografie, colonne sonore e tracce che non appartenessero a musica diegetica, nonché di rifiutare un qualsiasi espediente di ripresa al di fuori della telecamera a mano; ebbene, a otto anni di distanza dalla nascita del Manifesto, correva quindi l’anno 2003, l’uscita nelle sale cinematografiche di Dogville ha dimostrato che credere di poter incatenare un genio a una qualsiasi regola, fosse pure la più anti-convenzionale, fosse pure la più controcorrente, fosse pure essa stata scritta di suo pugno, risponde a un solo nome: utopia. Non è perciò da ritenersi un caso che, tempo due stagioni, i registi appartenenti a tal proposito abbiano sancito la fine di un patto mai interamente rispettato.

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Nicole Kidman, semplicemente la migliore

«Non avevamo bisogno di parole, avevamo dei volti!»; basta una frase per riassumere come il cinema, con i suoi inevitabili cambiamenti dall’avvento dell’audio ai modelli di bellezza, abbia creato dive stellari, vere e proprie leggende ad uso e consumo dell’idolatria più sfrenata, a volte sacrificandole sull’altare del mito, altre volte rendendole icone immortali. Da Gloria Swanson a Marlene Dietrich, da Bette Davis a Joan Crawford, da Vivien Leigh a Katherine Hepburn, fino ad arrivare a Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Marilyn Monroe ed Elizabeth Taylor; nomi che risiedono di diritto nell’Olimpo eppure perennemente in corsa l’una contro l’altra, per stabilire chi fosse la più bella, la più brava, la più tutto. Il bisogno di classificare  ciò che è fuori dall’ordinario si è mantenuto anche nel presente: Glenn Close? Jessica Lange? Meryl Streep? Jodie Foster? Chi la migliore tra le attrici viventi? Se pure in molti pronuncerebbero il nome della Streep senza esitazione – che premi a parte, non è forse la migliore nemmeno della sua generazione – a mio parere l’attricenumero uno”, la più completa e versatile è Nicole Kidman. Cresciuta a braccetto con Julia Roberts, sbocciata molto prima di Cate Blanchett, più raffinata di Charlize Theron, più multiforme di Julianne Moore, più prolifera di Kate Winslet più continua delle giovanissime Jennifer Lawrence, Michelle Williams, Emma Stone e Scarlett Johansson; la divina Nicole Kidman è forse la sola diva capace di specchiarsi in quel passato in cui «Non si lasciano le grandi stelle! È per questo che sono stelle. Le stelle non hanno età…»; parola di Norma Desmond nel nome di un “Viale del tramonto” che non potrà mai assorbirla.

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The Hours, il flusso eterno delle ore

Tre epoche storiche. Tre città diverse. Tre donne legate inconsapevolmente l’una all’altra da un’opera letteraria che sta inesorabilmente per cambiare la loro vita.

Richmond, 1923. Nelle campagne nei dintorni di Londra Virginia Woolf lotta quotidianamente contro la follia, la depressione e le voci che ormai la aggrediscono sempre più di frequente. Distante dai valori che governano la società del suo tempo, sposata con un uomo terrorizzato dalla possibilità che lei ponga fine ai suoi giorni, Virginia sta scrivendo il suo capolavoro: Mrs Dalloway.

Los Angeles. 1951. Laura Brown è una casalinga insoddisfatta, sposata con un uomo amabile ma che lei non ama – sentimento che al contrario prova per un’amica – ma soprattutto si sente spiazzata, quasi a disagio di fronte all’adorazione del figlio. Per di più è in attesa di un altro bambino. Intrappolata in una vita che non sente sua e che le appartiene sempre meno, Laura trasfigura i suoi desideri di evasione nel romanzo che sta leggendo: Mrs Dalloway. Le pagine del romanzo di Virginia Woolf sembrano prenderla per mano e condurla ad un bivio: la fuga o la morte.

New York. 2001. Clarissa Vaughan è un editor di successo che convive da dieci anni con la sua compagna ed è madre di una figlia in provetta. Clarissa sta organizzando una festa in onore di un caro amico: un poeta omosessuale, malato di AIDS che fu il suo primo amore. Sotto la patina di sicurezza e padronanza degli eventi, Clarissa, soprannominata dall’amico Mrs Dalloway – e non solo  per via del nome identico alla protagonista del romanzo – nasconde invece un equilibrio illusorio, una serenità fittizia.

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