«Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo». Quando dal coro dell’Antigone si levano questi versi, Sofocle celebra l’uomo sotto ogni sua forma: la creatura più meravigliosa esistente al mondo ma, allo stesso tempo, anche la più terribile, la più complessa, capace di compiere le gesta più eroiche e di elevarsi al punto da apparire ai mortali come un semidio; eppure oppresso dalle sue stesse passioni, succube delle sue paure, delle sue angosce, da quel suo essere fatto di carne ed ossa. È curioso come in molte lingue, dall’inglese al francese, dal russo al tedesco; l’arte di rappresentare una storia, ossia di recitare, coincida con il verbo giocare. Anche nello sport, si sa, vale lo stesso verbo. Un gioco, uno spettacolo, a questo si possono riassumere sia una rappresentazione teatrale quanto una partita di tennis. Ma possono le due arti mescolarsi insieme? Può una partita di tennis assumere dinamiche teatrali, trasformarsi in quel entertainment, tanto caro agli americani, che va oltre allo strabiliante valore del gioco espresso dai due giocatori? Il match, lo spettacolo di cui Roger Federer e Novak Djokovic sono stati protagonisti sì, è andato oltre, è diventato teatro, più precisamente tragedia. Tutto, in ogni singolo aspetto, si è rivelato adeguato, quasi fosse stato smaccatamente studiato, voluto, da un Eschilo o uno Shakespeare odierno. Non poteva infatti esserci cornice più appropriata del centrale dell’All England Tennis Club, in quella Londra Shakespeariana, così vicina al teatro. Non potevano esserci due campioni più idonei per interpretare i due ‘eroi’, i due contendenti pronti a giocarsi il tutto e per tutto per agguantare quel titolo che decretava anche il n.1, al di là del computer e di ogni ragionevole dubbio.
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