La verità, vi prego, su Roger Federer

Alcuni dicono che fa girare il mondo

e altri che è solo un’assurdità…

Ditemi la verità, vi prego, sull’amore

Wystan Hugh Auden

Parafrasando il poeta britannico, viene da domandarselo. La verità, vi prego, su Roger Federer. Lo abbiamo definito in tutti i modi: il re, la leggenda, il divino. Incantati dalla sua classe, rapiti dalla disarmante facilità del gesto, stregati da quel complesso di inimitabile eleganza stilistica che abbiamo grossolanamente ridotto al termine talento, perché ogni suo impatto, così pieno, così corposo, è un colpo al cuore, perché la liricità di alcune soluzioni è un’alternanza sfuggente tra impeto e tenerezza, mentre ogni sua impresa è l’eco di un’iperbole senza fine.

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La bellezza salverà il tennis?

«La bellezza salverà il mondo». L’insoluto disaccordo che da oltre cent’anni divide i saggisti nell’interpretare questo passo proveniente dal capolavoro di Fedor Dostoevskij, “L’idiota”, ha ingigantito l’ambiguità in esso celata. Questa misteriosa frase, che appare nel testo originale sotto forma di domanda e non di affermazione, scritta nella lingua del romanziere russo, lo slavo ecclesiastico, ne accresce la doppiezza in quanto il termine “Mir” in russo può significare sia mondo che pace intingendo la parola “krasotà”, bellezza, di un valore che la lega imprescindibilmente al bene, alla bontà.

Il Roland Garros ha incornato per la decima volta Rafael Nadal, il Re Sole, un eroe poliedrico spinto da una commuovente abnegazione, forgiato da un mix di talenti talmente contrastanti da creare intorno alla sua figura una serie di enigmi di cui nemmeno la Sfinge detiene le risposte. Lo spagnolo è il rinato che a Parigi ha oscurato il precedente record di Bjorn Borg per arrivare a battere persino sé stesso, per poi ribattersi ancora, è il guerriero che ha saputo risollevarsi svariate volte da morte certa con l’umiltà che caratterizza i cavalieri valorosi e per questo appare inestimabilmente bello.

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Wimbledon, il crepuscolo degli dei

Roger Federer trionfa a Wimbledon per l’ottava volta e issa l’asticella delle prove del Grande Slam a quota 19. Numeri immensi che possono, seppure solo entro certi limiti, rendere l’idea della portata di questo giocatore immenso, perché Roger Federer, il Re del tennis, il semidio elvetico, l’idolo delle folle, va oltre a qualsiasi numero. Nomini Roger Federer e si apre un mondo calibrato da numeri record che però non bastano per sorreggerlo quel mondo, l’universo Federer, un luogo dipinto dalla sua perfezione stilistica, delineato dalla bellezza del gesto, da un qualcosa di indefinibile che riesce persino a nascondere quella forza, quella pesantezza, quell’atletismo, persino quel pragmatismo, che ne costituiscono l’essenza, la polvere cosmica del talento incarnato, i pilastri della creazione.

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Tennis, il tormento e l’estasi

Che a tennis si utilizzi una racchetta e che lo scopo del gioco sia mandare la pallina nella metà campo opposta ormai lo sanno tutti, appassionati e non. Così come è di pubblico dominio che il campo è delimitato da righe in base al tipo di incontro, singolo o doppio, e che il punto viene conquistato quando l’avversario o non rimanda la pallina prima del secondo rimbalzo, o non riesce a farla passare sopra alla rete. Più ostico è semmai il frasario. Tante espressioni britanniche sono entrate nel linguaggio comune, ma una serie di termini quali ‘tie-break’, ‘top spin’, ‘demi volée’, ‘smash’, ‘ace’, ‘net’; può mandare nel panico un neofita. Per non parlare dei numeri utilizzati per stabilire il punteggio e i conseguenti, ‘game’, ‘set’, ‘match’.

Non è tutto, anzi, siamo solo all’inizio. Perché il tennis è probabilmente lo sport più complesso del mondo. A partire dalla tecnica da applicare a un notevole numero di colpi, che prevedono a loro volta una tattica. E che essa sia la più intelligente possibile. Colpi che interagiscono costantemente con la componente atletica, la quale comprende in sé forza, resistenza alla fatica, agilità, coordinazione, prontezza di riflessi. Dote, quest’ultima, che si trova al confine con il fattore mentale. E qui siamo al dulcis in fundo: la testa, la determinazione, la capacità di concentrazione, lo spirito di abnegazione. Il tennis è tutto questo. E altro ancora.

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Wimbledon, un attimo di eternità fuori dal tempo

Wimbledon. Semplice da pronunciare, ma non troppo, a pensarci bene. Wimble-den. La cadenza troppo british ti fa sorgere il dubbio se sia proprio quello il posto dove si disputa il torneo di tennis. Poi c’é dell’altro, molto altro. Perché ecco, a Melbourne Park ci si riflette quasi sul fiume Yarra e l’efficenza aussie si sposa a meraviglia con il distretto finanziario che si estende a pochi passi, in termini di yards s’intende, mentre nel quartiere d’Auteuil si respira Parigi tanto che basta arrampicarsi in cima alla terza categoria del Philippe Chatrier per distinguere la Torre Eiffel, non parliamo poi di Flushing Meadows, il parco di 500 ettari creato sulla valle di ceneri descritta da Francis Scott Fitzgerald in Il Grande Gatsby, dove nonostante tutto ti senti accartocciato nel ventre di New York. A Wimbledon invece… Non sei propriamente a Londra. Soprattutto nei giorni precedenti il torneo di tennis, prima che il delirio si impossessi degli appassionati del nobil gioco, gente pronta a tutto, come accettare la possibilità di essere sorteggiati di anno in anno in occasione della lotteria ufficiale per avere un biglietto tra le mani, colpo di fortuna che difficilmente si avvererà, quindi uomini e donne di ogni età, provvisti dell’indispensabile queue card, disposti a fissare per quattro, cinque ore, la nuca dell’individuo che lo precede pur di avere la meglio sulla mitologica queue, magari dopo aver campeggiato all’addiaccio.

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Wimbledon: Djokovic re, ma Federer è infinito

«Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo». Quando dal coro dell’Antigone si levano questi versi, Sofocle celebra l’uomo sotto ogni sua forma: la creatura più meravigliosa esistente al mondo ma, allo stesso tempo, anche la più terribile, la più complessa, capace di compiere le gesta più eroiche e di elevarsi al punto da apparire ai mortali come un semidio; eppure oppresso dalle sue stesse passioni, succube delle sue paure, delle sue angosce, da quel suo essere fatto di carne ed ossa. È curioso come in molte lingue, dall’inglese al francese, dal russo al tedesco; l’arte di rappresentare una storia, ossia di recitare, coincida con il verbo giocare. Anche nello sport, si sa, vale lo stesso verbo. Un gioco, uno spettacolo, a questo si possono riassumere sia una rappresentazione teatrale quanto una partita di tennis. Ma possono le due arti mescolarsi insieme? Può una partita di tennis assumere dinamiche teatrali, trasformarsi in quel entertainment, tanto caro agli americani, che va oltre allo strabiliante valore del gioco espresso dai due giocatori? Il match, lo spettacolo di cui Roger Federer e Novak Djokovic sono stati protagonisti sì, è andato oltre, è diventato teatro, più precisamente tragedia. Tutto, in ogni singolo aspetto, si è rivelato adeguato, quasi fosse stato smaccatamente studiato, voluto, da un Eschilo o uno Shakespeare odierno. Non poteva infatti esserci cornice più appropriata del centrale dell’All England Tennis Club, in quella Londra Shakespeariana, così vicina al teatro. Non potevano esserci due campioni più idonei per interpretare i due ‘eroi’, i due contendenti pronti a giocarsi il tutto e per tutto per agguantare quel titolo che decretava anche il n.1, al di là del computer e di ogni ragionevole dubbio.

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Roger Federer, il cacciatore di androidi

In Blade Runner Ridley Scott dipinge una Los Angeles apocalittica, dolorosa, decadente. Un non mondo in cui piove sempre; una pioggia sporca, carica di presagi, dove la tecnologia ha permesso la creazione di esseri analoghi agli umani, i replicanti, utilizzati come schiavi per erigere le colonie  extramondo, animati da una forza fisica superiore a quella degli esseri in carne ed ossa, ma con una vita limitata a pochi anni. A New York quando piove il cemento lascia traspirare quanto di più malsano covi nel sottosuolo, l’umidità che aleggia a mezz’aria, una nebbiolina che inzuppa le palline, che si imbeve negli abiti, che si appiccica ai capelli.

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Fino alla fine del mondo

Bernardo di Turingia fu il primo profeta ad aver fissato la fine del mondo all’anno 992. In molti credettero alla profezia, tanto da cercare rifugio nelle montagne più alte dei dintorni. Il mondo però non finì e quando nel 1665 un’epidemia di peste colpì l’Inghilterra provocando circa 100.000 vittime Solomon Eccles, quacchero, proclamò che l’ondata era il segno della fine dei tempi. A far cessare la peste e a scongiurare il peggio bastò un incendio che devastò Londra. È il 1932 quando l’egittologo George Riffert analizza le dimensioni della Piramide di Cheope e afferma che il mondo finirà il 6 settembre 1936. Accortosi che non era finito nulla, stabilisce una nuova data: il 20 agosto 1954. Niente da fare. È la volta del 1992: a dirlo è un sacerdote sud coreano, Lee Jang Lim; tutti spacciati, tranne chi fosse corso in banca, avesse prelevato i propri soldi per donarli alla Chiesa Missionaria di Tami. Rientrato il pericolo, ecco che si avvicina la Profezia di Michel de Notre-Dame, noto come Nostradamus che, in merito al 1999 aveva vaticinato: “mille e non più mille“. Un altro flop. A nuovo millennio in corso qualche irriducibile catastrofista è andato a rispolverare una credenza Maya la quale prevedeva un evento di natura imprecisata e di proporzioni immani, capace di trasformare drasticamente l’umanità in data 21 dicembre 2012. Ad ogni modo, per ora, il mondo è ancora qui. Ma se avessimo la certezza che in una “data x” il nostro pianeta si oscurasse per davvero? Se così fosse e, mettiamo, potessimo contare su un’immaginaria Arca di Noè a posti limitati, capace di ospitare alcuni campioni del tennis; chi faremmo salire a bordo? Chi metteremmo in salvo affinché le nuove forme di vita potessero accarezzare le memorie che avevano emozionato il precedentemente estinto genere umano?

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La via della natura, la via della grazia

«Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della Natura e la via della Grazia. Tu devi scegliere quali delle due seguire». Il sipario di The tree of life si apre con queste parole che, quasi fossero estrapolate da un passo biblico, danno vita ad un’opera molto più vicina ad una tragedia greca, a un elegia, che a un film. Può accadere di estraniarsi, di uscire dal corso del tempo, di essere catturati, rapiti. È possibile lasciare un pezzo del proprio cuore su un campo da tennis. Può succedere, se su quel campo hanno camminato, Serena Williams, Roger Federer Martina Hingis. Ci sono due vie per affrontare il tennis: la via della Natura e la via della Grazia.

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