Guernica, la mistificazione della morte

La cronaca universalmente propinata descrive Guernica come una cittadina basca di 7.000 abitanti, bucolica e priva di interessi militari che, mentre la Spagna era lacerata della guerra civile, lunedì 26 aprile 1937, giorno di mercato, venne rasa al suolo dall’aviazione nazista provocando 1454 morti, e 889 feriti, per lo più vecchi, donne e bambini in quanto gli uomini erano tutti impegnati a combattere Francisco Franco. Quando fu diffusa la notizia Pablo Picasso era impegnato nella realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi, svoltasi dal 25 maggio al 25 novembre. Sconcertato dall’efferata strage, l’artista avrebbe così deciso di dipingere un quadro che denunciasse l’atrocità del bombardamento riversato su Guernica.

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Dolores O’Riordan e quei demoni in agguato

«Questa non è Hollywood, come ho ben capito». Dalle campagne irlandesi ai palchi più prestigiosi del pianeta terra. Dalla solitudine assordante ai riflettori di tutto il mondo puntati addosso, ossessivi, impietosi. Dalla luce all’oscurità. La vita di Dolores O’Riordan è iniziata come una ossessiva corsa a compimento di una predestinazione, per quindi diventare un’allucinata fuga nel tentativo di respingere l’attenzione morbosa di chi la vedeva come una sorta di miracolo vivente e al tempo stesso un inseguimento angosciato e angoscioso teso ad afferrare quel miraggio di pace, destinato a svanire ogni volta che prendeva forma davanti ai suoi occhi. 

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Cani neri, l’abisso del male

«La verità è che ci amiamo, non abbiamo mai smesso, per noi è un’ossessione. Solo abbiamo fallito in un punto. Non siamo riusciti a vivere. Non abbiamo saputo mettere da parte l’amore, ma nemmeno piegarci al suo potere». Nel suo quinto romanzo, “Cani Neri”, Ian McEwan si immerge in una storia intensa, scandita da salti temporali, attraversata da echi mai sopiti, densa di suggestioni in cui la storia, l’amore, il male, gli ideali si mescolano fino a dar forma a una nube oscura, destinata a gravare sul destino dei personaggi. 

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Harry Houdini, il visionario della magia

«Se c’è un modo per tornare indietro dall’aldilà, io lo troverò».

La smania di incantare le folle, di regalare un sogno ad occhi aperti, di evadere da carceri e miseria, di scardinare manette e miraggi, di emergere da casse sommerse e utopie. Primordiale era la passione che avvicinava Harry Houdini a ogni sfida; si trattasse di un gioco di prestigio, di un trucco da mago, di una traversata da aviatore, di una prova da cineasta; quanto ancestrale era l’amore che lo legava alla madre; tanto da avvicinarlo al mondo dello spiritismo, da desiderare di uscirne sconfitto, per una volta almeno, affinché qualcuno dimostrasse che esiste un aldilà abitato da spiriti, un luogo in cui la magia non è in balia ad abilità, bensì di forze occulte, superiori, persino a lui stesso. 

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All’improvviso, Stella Tennant

Androgina. Aristocratica. Indefinibile. Sfuggente. Stella Tennant ha attraversato, influenzato, sconvolto vent’anni di storia della moda. Stella Tennant ha riscritto i parametri di ciò che è bellezza. Senza volerlo. Senza saperlo. In fondo si sa, quando a definirti basta il nome, sei una leggenda. E quando c’era lei, di mezzo, bastava il suo nome. «È arrivata Stella». E tutti sapevamo che non si stava parlando di nessun altro se non di lei; di Stella Tennant.

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Dallo spazio e ritorno

Non si trattò di una libera scelta. Si ritrovò coinvolto in una missione dove sono gli altri a scegliere per te. Una lotteria dove milioni di  numerini svolazzano giù dal cielo, leggeri e indeclinabili. Si disse che era abituato alle missioni di un certo tipo, che era arrivato a un’età in cui non si sentiva di poter escludere categoricamente di ritrovarsi costretto ad affrontare anche le prove più complesse; perché la vita ti forma, ti cambia, ti rende consapevole di quanto minimale sia la tua esistenza al cospetto di un piano globale, assoluto. A nemmeno quarant’anni doveva partire per lo spazio ed era necessaria una certa preparazione. Lo aspettava una navicella e un corollario di elementi degni di quell’incarico. Lo spazio è un anagramma, un abbaglio, un punto interrogativo senza contorni. Lo spazio è un luogo nero, privo di ossigeno. E nel suo caso, la mancanza d’aria era il problema primario.

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Quarantena

Non ho ancora capito cosa mai possiamo aver fatto per aver meritato tutto questo. All’inizio aprivo gli occhi e l’unico senso in grado di affiorare era un vuoto ingombrante. Un senso di nulla scandito da un rimbombo sordo, pulsante ma ovattato. Quel senso di vacuità senza date, né luoghi, senza giorno, né notte inghiottito a poco a poco dall’affiorare di passi dispersi, voci indistinte, echi simili a fili aspri. Solo allora quel pozzo senza fondo inizia a creparsi, a sgretolarsi. E lì, tutto si rovescia. La materializzazione della realtà sono i morti. Una processione di volti sconosciuti, immaginati, forse nemmeno mai esistiti. I morti ormai non muoiono, i morti nascono sotto forma di numeri privi di vicinanza, di vissuto comune. Ipocrisia. La gente moriva anche prima della quarantena. Ma ora c’è la paura. La paura di diventare un numero. La paura che tua madre o tuo padre, diventino niente altro che un numero. Genitori, figli, nonni, mariti, mogli, amanti, amici; tutti numeri.

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Victoria’s Secret, gli angeli caduti dal paradiso

Correva l’anno 1977 quando il trentenne Roy Raymond, con in mano una laurea conseguita presso la Stanford University, tanti sogni nel cassetto e una moglie amata e bellissima, Gaye; indispettito ogni qual volta entrava in store di lingerie per acquistare qualcosa da regalare alla consorte dove immancabilmente trovava pezzi non di suo gradimento, si fece prestare 40.000$ dai genitori e altrettanti da una banca ed aprì un piccolo negozio di biancheria intima all’interno dello Stanford Shopping Center di San Francisco. Decise di chiamarlo Victoria’s Secret. Nell’arco di un anno guadagnò 500.000 dollari. Questo successo lo ingolosì tanto da finanziare l’apertura altri quattro store, estesi a sei dopo una manciata di stagioni, e offrire un servizio di spedizione, arrivando a fatturare 6.000.000 di dollari annuali. Al che, mollò tutto, vendette il marchio a Leslie Wexner e, da quel momento, non ne azzeccò più una, a partire dalla bancarotta segnata dalla sua società, la “My Child’s Destiny”, fino al suicidio, avvenuto nell’agosto del 1993 quando si buttò dal Golden Gate Bridge.

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Stig Dagerman, il genio bruciato dal dolore

«Cos’è allora il tempo se non una consolazione dato che niente d’umano può essere perenne?».

Di tutti i valori, Stig Dagerman riteneva che il solo in grado di rendere gli esseri umani migliori, di avvalorare il loro passaggio sulla terra, fosse la purezza. La negazione di una qualsiasi forma di compromesso, l’empatia che permette di entrare in sintonia con il prossimo, di generare quella solidarietà emotiva che converge in fratellanza, rappresentavano per Stig Dagerman il comandamento principale, la meta che sola poteva donare pace all’anima. Eppure, crescendo lo scrittore svedese si rese conto come la purezza stesse perdendo ogni parvenza di significato. Responsabile di quel imperdonabile degrado erano le strutture che influenzavano la crescita umana, dalle famiglie agli insegnanti, a chiunque svolgesse un ruolo di guida, che impartisse i diktat dettati dall’esperienza; ossia un vile tentativo di negare tutto ciò che si era sperimentato di più puro, di più vero da bambini. Stig Dagerman riconobbe il cinismo spaventoso, implicito, che si cela dietro all’esperienza, quasi essa fosse il massimo obiettivo da perseguire nella vita. Per questo, l’ingresso nel mondo adulto lo destabilizzò. L’inesperienza per Dagerman era il sale della scoperta, un approccio privo di ipocrisia sul mondo, uno sguardo carico di aspettative rivolto a un miraggio. Per questo motivo Stig Dagerman temeva l’esperienza, madre del compromesso, ossia di un meccanismo contorto spesso guardato con rispetto e ammirazione, ma al contrario, un demone che mira a distruggere la parte migliore, la parte più pura di sé stessi. Per questo motivo, Stig Dagerman si bruciò.

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Los Angeles, una magia senza inizio e senza fine

Los Angeles. Nome in codice L.A. Per i sognatori, i romantici, i visionari, i poeti molto di più: la città degli angeli. Los Angeles la città senza un centro, senza una vera e propria piazza, senza un’identità definita e definibile, bensì un agglomerato di anime suddivise in una contea che sembra non finire più, perché effettivamente dici Los Angeles e ti immagini il futuro, le opportunità, il mare, il deserto, i canyon il sole e le stelle. Los Angeles dice tutto, senza dire niente. Perché Los Angeles è un sortilegio, un sogno ad occhi aperti che tanto promette e niente mantiene, o meglio, è persino disposta ad offrirti di più, a donarti di più, così, come per magia. A patto che la respiri, la comprendi, la riverisci. Fino a divenirne ostaggio.

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