Nicola Pietrangeli, Radnaja

Un noto graffito disegnato a Monaco di Baviera recita: «Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia è hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo non rimproverare il tuo vicino di essere… Straniero». È in un appartamento del quartiere arabo di Tunisi che l’11 settembre del 1933 nasce Nicola Pietrangeli. Il padre Giulio, seppur nato in Tunisia, era figlio di un abruzzese e di una napoletana emigrati in Nord Africa. La mamma, la bellissima Anne De Yorgainge, era di padre danese e madre russa: si narra che tutta la famiglia sia sfuggita al regime sovietico per puro miracolo, dato che a quei tempi in Russia essere ricchi era tutt’altro che una fortuna. Apprezzato imprenditore edile, Giulio Pietrangeli ha reso possibili diverse strade cittadine e, prima di lui suo padre, introdusse la prima linea ferroviaria a Tunisi. Dell’educazione di Nicola si è occupata la madre. «Radnaja» era solita chiamarlo, un’espressione che in russo assume il significato di «carissimo», ma in modo marcatamente intimo. Quando era bambino i pomeriggi di Nicola erano caratterizzati da ore ed ore spese a tirar calci al pallone nel cortile del palazzo di Rue Lafayette, insieme al suo migliore amico, Pierre Darmon. Ancora non sanno che il destino avrebbe condotto entrambi su un campo da tennis e, come tutte le storie che si rispettino, così come Nicola sarà il talentuoso, Pierre sarà il pragmatico; ostico al punto tale da incutere in Pietrangeli quello che verrà ribattezzato il «complesso Darmon». D’altronde si sa che nel tennis la concretezza ha spesso ragione sulla fantasia.

Ma torniamo indietro nel tempo. Sopravvissuta ad uno spaventoso bombardamento aereo degli Alleati su Tunisi, la famiglia Pietrangeli viene sviata nel campo di concentramento di Marette. Le competenze di Giulio Pietrangeli furono lì sfruttate per costruire alcune strutture di svago tra cui un campo da calcio ed uno da tennis. Fu su quel rettangolo creato per dimenticare quanto brutta fosse la guerra, che Nicola ha impugnato per la prima volta una racchetta. Terminato il conflitto mondiale i Pietrangeli si trasferiscono a Roma e Nicola inizia a frequentare il Circolo Tennis Parioli. Poco distante però, alla “Rondinella”, si allenava la Lazio e per Nicola la tentazione era troppa: sgattaiolato in diversi allenamenti e messosi in evidenza da lì a poco gli offrirono una maglia da titolare. Per non contrariare il padre non rinunciò nemmeno al tennis e nel 1949, a sedici anni, è entrato a far parte della squadra del Parioli in Coppa Bossi. Che Nicola possedesse un talento smisurato fu evidente sin dal 1951, anno in cui vinse il titolo Juniores per quindi passare in seconda categoria. L’anno seguente la svolta: la Lazio decise di mandarlo in prestito in serie C e lui non ci ha pensato due volte: «Quando mi misero sotto al naso le carte del trasferimenti decisi che avrei lasciato il calcio. Da bambino sognavo di fare l’esploratore, pensai che col tennis avrei viaggiato di più».

Vinto il titolo di doppio insieme ad Antonio Maggi, Nicola, che nel frattempo aveva scelto la cittadinanza italiana a discapito di quella francese, passa alla prima categoria. Nel 1953 arriva la prima convocazione in Coppa Davis dove difende i colori azzurri dal 1953 al 1972. I numeri che scandiscono la sua esperienza come difensore dei colori azzurri è strabiliante: 120 incontri vinti su 164 disputati, tra singolare e doppio. Come giocatore Nicola Pietrangeli non è mai stato facile da catalogare. «In Nic ha sempre prevalso l’essere umano sulla macchina capace di giocare alla perfezione»; disse di lui un altro geniaccio e cittadino del mondo; quel Jaroslav Drobny nato a Praga ma che ha viaggiato per decenni con un passaporto egiziano ed è infine divenuto cittadino britannico. Eppure Nicola Pietrangeli era stilisticamente quasi perfetto, il rovescio in particolar modo era da manuale, ed al tocco delizioso abbinava un’astuzia tattica quanto mai vivace. Doti innate e visione di gioco lo resero uno straordinario doppista al punto che insieme ad Orlando Sirola vinse dieci titoli italiani, tra cui sei consecutivi, ma soprattutto raggiunse la finale a Wimbledon nel 1956 e mise le mani sul Roland Garros nel 1959.

«Se ai nostri tempi ci avessero confinato in un’isola per sei mesi, senza campi da tennis, e poi ci avessero fatto disputare un torneo, Nicola ci avrebbe battuti tutti quanti»; ha affermato Ken Rosewall. Difficile contraddirlo, seppure il talento sopraffino ha sopperito a tanti sacrifici, mai propriamente compiuti da Pietrangeli, anche senza bisogno di ricorrere ad un’isola deserta. Oltre a due finali ed altrettante vittorie agli Internazionali d’Italia, nel 1957 quando sconfigge Beppe Merlo e nel 1961 dove demolisce Rod Laver, ed ai successi nel torneo di Amburgo nel 1960 ed a Montecarlo nel 1961 nel 1967 e nel 1968; è agli Open di Francia che il nome di Nicola rimane e rimarrà indissolubilmente legato. Pietrangeli trionfa al Roland Garros per due anni consecutivi: nel 1959, dove batte Ian Vermaak e nel 1960, dove supera Luis Ayala. Sul Philippe Chatrier disputa poi altre due finali: nel 1961 e nel 1964 dove perde in entrambe le circostanze contro Manolo Santana. Stringe in pugno anche una semifinale a Wimbledon, nel 1960, dove si piega 4-6 6-3 8-10 6-2 6-4 a Rod Laver. Nelle altre Prove del Grande Slam spicca un quarto di finale agli Australian Open nel 1957 e due terzi turni all’US Open, nel 1955 nel 1965. Quanto al best ranking, la scalata di Nic si ferma sul terzo gradino.

Terminata la carriera in prima persona, nel 1976 Nicola Pietrangeli sostituisce Fausto Gardini come Capitano della squadra azzurra di Coppa Davis. Ed è proprio sotto la sapiente ala di Nicola Pietrangeli che Adriano Panatta, Corrado Barazzuti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli diventeranno gli eroi di Santiago del Cile. Al cospetto della forte pressione politica che chiedeva allo squadrone azzurro di rinunciare alla finale, in quanto in Cile vigeva una dittatura guidata da Pinochet; il grande Nicola così replicò: «Lasciateci giocare a tennis. Ce lo meritiamo questo privilegio. La politica la facciano i politici. Se non andiamo in Cile non si sarebbe nemmeno dovuto andare in Unione Sovietica, in Cecoslovacchia, in Brasile e in Argentina». Se Nicola Pitrangeli vinse la sua causa, i suoi ragazzi fecero lo stesso con la loro battaglia, sconfiggendo 4-1 il Cile.

Al di là del tennis ha fatto storia il fascino che ha sempre emanato sulle donne. Sembra uscito da un copione cinematografico l’incontro con colei che diverrà la sua prima moglie, Susanna Artero. Sentitosi urlare per strada «Nicola!»; il tennista allora ventenne attacca discorso con la bellissima donna che sposerà da lì a poco ma che invece di chiamare lui si stava rivolgendo al proprio cane. Insieme avranno tre figli, finché un giorno il matrimonio finirà e sarà seguito da altri amori. Una Dolce vita affettiva travagliata, ma che ha sempre avuto nell’amicizia con Lea Pericoli una costante meravigliosa. «Mia madre conservava tutti gli articoli che parlavano di me, dal trafiletto alla prima pagina. Io ero affezionato a tutti quei ritagli, in fondo ciascuno rappresentava una parte di me e quindi non ce n’era qualcuno più importante di un altro. Poi un giorno la cantina dove la mamma conservava gli scatoloni si è allagata, e così abbiamo perso tutto. Perciò, da allora, devo per forza affidarmi alla memoria». Ricordi, quelli che hanno come protagonista Nicola Pietrangeli, ancora vivissimi, che appartengono alla collettività, alla storia del tennis, dello sport, memorie che saranno tramandate per consolidare la sua leggenda.

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