Steffi Graf, una vita tra record e incubi

«Non è facile per me convivere con la consapevolezza di essere numero uno perché lei è stata aggredita». Steffi Graf è stata n.1 del mondo per 377 settimane, ha vinto 107 titoli titoli WTA, tra cui spiccano 22 prove del Grande Slam consistenti in 7 Wimbledon, 6 Open di Francia, 5 US Open, 4 Australian Open, 5 Master e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul. Eppure Steffi Graf non si è mai sentita in pace, non è stata mai lasciata in pace. L’aggressione subita da Monica Seles il 30 aprile del 1993, ha scatenato sulle vittorie di Steffi una nube tossica capace di espandersi sopra a sedici anni di carriera.

Il “revisionismo storico” che si è abbattuto sui suoi numeri record non si è però limitato alla “macchia Gunther Parche”. Seppure nessuno oserebbe mai depredare Steffi del titolo di campionessa, in molti l’hanno bollata come una “fortunata” dato che quando nel 1986 si è dimostrata competitiva nel circuito Chris Evert era ormai avviata verso i trentadue anni, Martina Navratilova era nei pressi della trentina, e Hana Mandlikova stava per subire un infortunio che le avrebbe compromesso per sempre il ritorno ai vertici. Ultimo “rimprovero” in ordine cronologico, è stato lo slam vinto da Steffi Graf al Roland Garros nel 1999 quando durante una finale che si stava rivelando senza storia a vantaggio di Martina Hingis, un errore arbitrale, rafforzato dall’intervento dei supervisor che ha punito l’elvetica con un penalty point, e dal maleducatissimo pubblico parigino, ha mandato fuori di testa la giovanissima n.1 uno del mondo spianando la vittoria alla tedesca.

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Li Na, la guerriera che si è presa la luna

Non deve essere facile essere marito di una donna che in Patria è considerata una sorta di idolo nazionale. Ragione in più se quella patria è la Cina con i suoi 1.341.900.000 di ustrbitanti. Essi, non deve essere facile essere il consorte della prima cinese capace di trionfare in un torneo del Grande Slam e che, da quel giorno, anche perché la Cina è grande e ricca, le sono saltati addosso sponsor del calibro di Nike, Mercedez-Benz, Rolex e Hagen-Dasz. La situazione si complica ancora di più se quella moglie famosa e ricchissima ha deciso di licenziarti. Perché Jiang Shan, ex tennista professionista di bassa classifica, diventato marito e coach di quel portento di moglie-tennista a un certo punto si è visto dare il ben servito. Le cose non andavano più bene: i risultati non arrivavano più, il gioco lasciava a desiderare e, a quanto pare, la colpa era la sua, di quel marito allenatore che non spiccica una parola di inglese e che alla notte russa troppo forte. E così la moglie-tennista, Na Li, decide di voltare pagina professionalmente parlando, ma per farlo deve voltare le spalle a lui, al marito. Urge un nuovo coach e la scelta cade su Carlos Rodriguez, l’uomo che ha creato Justine Henin. Jiang si mette da parte, pare non sia un tipo invadente, e la prima settimana in cui la moglie avvia la nuova collaborazione, non presenzia agli allenamenti. Tutte le sere però lei si dice distrutta e gli racconta di quanto quel Rodriguez la faccia faticare. Possibile che la moglie sia finita nelle mani di uno squilibrato? Persuaso che sia Na ad esagerare la faccenda, opta comunque per andare ad accertarsi coi suoi occhi. E così un bel mattino, verso le nove, raggiunge la sua signora al centro in cui si allena e la ritrova in palestra. Lei è già lì da un ora e Jiang se ne rimane buono, buono per un’altra oretta e poi, verso le 11, annoiato e spazientito insieme le chiede: «Ne hai ancora per molto?» . Na Li dà un occhiata al programma e risponde: «Sono solo a metà».

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Thomas Johansson, l’ammazzarussi

Melbourne, 27 gennaio 2002. È un lob accarezzato da Marat Safin e svanito di un soffio oltre la riga di fondo campo il punto che coincide con l’apice della carriera di Thomas Johansson. 3-6 6-4 6-4 7-6 il lasciapassare attraverso cui l’allora ventisettenne di Linkoping è entrato nella storia dell’Australian Open, terzo svedese dopo Stefan Edberg e il suo idolo d’infanzia Mats Wilander. Affinché si aprissero i cancelli dell’Olimpo, al di là della cui inferriate dimorano gli ammessi al Club dei vincitori di una prova dello Slam, Thomas Johansson si è affidato ai proverbiali nervi saldi, all’impeccabile lucidità mentale, ai fondamentali solidi che da sempre hanno sostenuto il suo tennis lineare, avvalorato a tratti da quel pizzico di coraggio che a Melbourne sempre lo ha sostenuto, sospingendolo verso e attraverso quella che appariva una finale già scritta nella cabala in quanto gli dei del tennis gli avevano offerto in dono il figlio prediletto di quel paese, la Madre Russia, spesso costretta a piegarsi al suo cospetto.

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Little Mo, l’imbattibile sconfitta dal destino

Dallas, 21 giugno 1969. È il solstizio d’estate, il giorno in cui il sole raggiunge il suo punto di declinazione massima, quando a soli 34 anni si spegne una stella che, come una cometa sfolgorante, ha attraversato il Circuito tennistico per alcune stagioni, diventando nel 1953 la prima donna, seppur poco più che un’adolescente, a realizzare il Grande Slam: Maureen Catherine Connolly Brinker. Un destino spietato ha scandito la breve vita di Maureen Connolly, nata a San Diego il 17 settembre del 1934, il cui padre, un marinaio, si è dato alla fuga quando aveva appena quattro anni. Della sua crescita se ne occupa la madre, organista della chiesa di San Diego, che riversa nell’unica figlia tutte quelle ambizioni che non è riuscita ad agguantare per se’. Maureen è ancora una bambina quando viene iniziata alla danza, al canto e al disegno; discipline che segue svogliatamente, giusto per assecondare la madre, mentre lei è animata da una sola passione: l’equitazione. Peccato solo per il costo delle lezioni sia troppo elevato da sostenere per sua madre.

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Don Budge, l’uragano che devastò il tennis

Correva l’anno 1938 quando sul tramonto di un mite 19 settembre un’imbarcazione che viaggiava a nord-ovest di Portorico segnalò all’ufficio metereologico di Jacksonville, in Florida, la formazione di un uragano sull’Atlantico. In quei giorni a New York un ventitreenne californiano di origini scozzesi, tale Donald Budge, stava inseguendo un sogno: realizzare il Grande Slam. L’improvvisa deviazione da parte dell’uragano provocò un sospiro di sollievo negli abitanti di Miami, ma la tempesta non prese la via prevista dai metereologi, ossia verso est in pieno Oceano, ed il 21 settembre si abbatté su Long Island con onde alte fino a 12 metri, rese ancora più micidiali dal vento capace di toccare i 200 km/h. In realtà su New York pioveva già da quattro giorni che sommati alla catastrofe provocarono la sospensione degli U.S National International fino al 23 settembre. Solo allora Don Budge poté tornare a calcare i campi di una desolata Forest Hills per sconfiggere in semifinale con un triplo 6-3 il connazionale Sidney Wood. Il giorno dopo si sarebbe arreso anche il suo migliore amico, quel Gene Malko che quando vide sfilare l’ultimo 15 corse incontro al fenomeno che lo aveva battuto con il punteggio di 6-3 6-8 6-2 6-1. «Era l’unico al mondo che comprendeva veramente cosa avevo appena fatto»; avrebbe raccontato in seguito il primo uomo capace di vincere nello stesso anno Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open. Perché sì, un uragano lo era pure Don Budge.

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Doris Hart, la signora dei tris

Da bravo fratello maggiore Bud Hart ha sempre avuto a cuore la sua sorellina; ragione in più che, ad appena dieci anni le viene diagnosticata una grave osteomelite al ginocchio destro; un’infezione che colpisce sia l’apparato osseo che la cavità midollare. In famiglia imperversa la preoccupazione, tra l’altro un medico mette al corrente i genitori di come nel tempo la malattia potrebbe degenerare fino a rendere necessaria l’amputazione dell’arto. Per questo motivo mamma e papà pensano che quell’impedimento spronerà la figlia a dare il meglio di se’ riversandosi nello studio. Bud però non è dello stesso parere, ritiene che un po’ di sport, se fatto con moderazione, potrebbe farle un gran bene. E così, di nascosto dai genitori, le procura una racchetta e la porta con se’ al circolo tennis che è solito frequentare a Saint Louis. Di lì a sei mesi Doris si ristabilisce, dopo due anni inizia a batterlo con regolarità. Quella bambina, Doris Hart, sarebbe diventata una delle tenniste più vincenti tra la fine degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50.

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