Jana Novotna, l’acuto immortale tra lacrime e sorrisi

«La prima volta che sono venuta negli Stati Uniti d’America è stato per giocare l’Orange Bowl in Florida. Avevo con me solamente un paio di vecchie scarpe, una maglietta, un paio di pantaloncini e pochissimi soldi. Ero molto giovane e non conoscevo una sola parola d’inglese. Fu molto difficile». Le poche, sentite parole pronunciate da Jana Novotna per celebrare il suo ingresso nella International Hall of Fame, avvenuto nel luglio 2005, isolano uno spaccato di quello che era il tennis all’alba degli anni ’80 per una ragazzina che proveniva dall’est, quando ancora esisteva la Cecoslovacchia e il tennis di vertice, quello giocato intorno al mondo, era una meta, una sorta di catapulta verso una realtà sconosciuta, forse non propriamente rassicurante, ma per lo meno in grado di garantire un equipaggiamento adeguato, un’opportunità di riscatto. A ripensarci, vedendo queste immagini di repertorio, deve essere stato tutto così difficile per Jana Novotna. Certo, prima di lei tanti connazionali avevano vissuto esperienze simili, ma a guardarla bene, si capisce che Jana non aveva la parlantina, l’espansività, di Martina Navratiliva, non aveva assimilato quella sicurezza nei propri mezzi con cui si era formata Hana Mandlikova, non custodiva nel proprio io quella dolente abnegazione di schermarsi, di assemblarsi pezzo dopo pezzo, a cui si era immolato Ivan Lendl e neppure poteva contare sulla pace interiore, sulle radici attorcigliate al tennis come Helena Sukova, di appena tre anni più grande, eppure così placidamente più distesa, più serena.

Una diversità caratteriale, di imprinting, che l’avrebbe resa anche sul campo una cosa a se’, unica nel proprio genere. Nata a Brno, il 2 ottobre del 1968 le basi tennistiche di Jana Novotna fanno leva sulla straordinaria scuola ceca, generatrice di talenti, ma ancor più impeccabile nel farli sbocciare. E di talento Jana Novotna ne aveva veramente tanto seppure, quel tanto, spesso si rivoltava, si rattrappiva, soffocandosi, assumendo forme confuse, vaghe. Perché Jana Novotna era sì una giocatrice spettacolare, aveva sì nel serve & volley o comunque sia nella ricerca della rete, un pilastro che la rendeva una giocatrice spettacolare, amalgamata alle generazioni che l’avevano preceduta, allo stesso tempo però possedeva due validissimi fondamentali, sapeva gestire lo scambio, era calibrata pure nelle fasi di contenimento e in quella dimensione spesso si posava, si nascondeva, perché in certi momenti il net – laddove l’avversaria può sentire la presenza al punto da poter vedere bene in faccia, dove può quasi intravedere espressioni, annusare timori – proiettava ombre sinistre, diveniva un vero e proprio assillo, uno spettro da cui fuggire, oppure paradossalmente, una via di fuga da perseguire a occhi chiusi, senza cognizione di causa.

Quella rete, quella barriera divisoria che spezza il campo in due, quel traguardo che nel tennis non si taglia mai se non quando i giochi sono chiusi ed è il momento di stringere la mano, è stata per Jana Novotna una faccenda molto più ingarbugliata di quanto si ricordi, di quanto si sia disposti ad ammettere. Divenuta professionista nel 1987 è prevalentemente giocando da fondo campo, o per lo meno centellinando le escursioni in avanti, che afferra i primi risultati ad altissimo livello: un quarto di finale al Roland Garros nel 1989, migliorato con la semifinale raggiunta l’anno dopo ottenendo gli scalpi di Katerina Maleeva e Gabriela Sabatini. È invece nel 1991 che Jana Novotna si fa più aggressiva e vincente: all’ultimo atto di Sydney batte Arantxa Sanchez con un netto 6-4 6-2 mentre tempo una manciata di settimane e a Melbourne disputa la sua prima finale in un torneo del Grande Slam dopo essersi lasciata alle spalle Steffi Graf al termine di un tiratissimo 5-7 6-4 8-6 e nuovamente la spagnola Sanchez per quindi tener testa a Monica Seles fino al 7-5 3-3, finché la serba ha ingranato una marcia superiore e afferrato nove games perdendone appena uno.

Una conclusione probabilmente immeritata, ma che non ha lasciato gli strascichi provocati dal quarto di finale gettato nel maggio dello stesso anno al Roland Garros quando, opposta a Gabriela Sabatini, dopo aver vinto il primo set 7-5, Jana conduceva 5-2 nella seconda frazione per lì farsi rimontare dall’argentina, lasciare sfumare un tie-break mozzafiato per 12 punti a 10 con tanto di tre match point non concretizzati ed infine cedere di schianto 6-0 nel parziale decisivo. La paralisi di quel terzo set avrebbe finito con il condizionare almeno due stagioni della ceca, spesso bloccata quando il punto si faceva caldo e mai realmente competitiva negli appuntamenti che contavano, almeno fino a Wimbledon 1993 quando, respinta agli ottavi la tutto sommata modesta Miriam Oremans per 7-5 4-6 6-4, Jana Novotna prende fiducia, straccia Gabriela Sabatini per 6-4 6-3 e sbatte la porta in faccia alla leggendaria Martina Navratilova. In finale, al di là della rete, c’é Steffi Graf. Sono giorni in cui a ritrovarsi Jana con il naso sulla rete c’è da aver paura ma, disdetta vuole, ogni tanto pure la ceca trema a sua volta e ancor di più le accade nel punto che che poteva garantirle il set che al contrario finisce nelle casse della tedesca. Il miracolo, o meglio, ciò che poteva tranquillamente fluire dal connubio braccio-racchetta di Jana Novotna pare compiersi nei 45 minuti successivi, quando l’ottava testa di serie dei Championships si trasforma in valchiria azzannando la ripresa per 6-1 e involandosi con disarmante facilità sul 4-1 40-30 nel terzo set, con servizio a disposizione. Poi, il crollo. Tra doppi falli, volée accartocciate e Steffi Graf abile nell’accorgersi che Jana stava iniziando a sudare freddo, finisce che il tabellino della ceca non si smuove più da 4, mentre quello della tedesca arriva a 6.

Riavvolgendo il nastro, a mente fredda, le lacrime versate da un’affranta Jana Novotna sul bianco cappotto della duchessa di Kent potrebbero essere considerate inevitabili, ma ancor più irrinunciabili, almeno per gli annali del tennis. Perché in quel momento, mentre Katharine Worsley cerca di rincuorarla, il mondo assiste ad una scena inedita, con il senno di poi impensabile, e come d’incanto diventa inevitabile simpatizzare con quella ragazza ceca che fino a quel momento delle sue vere emozioni aveva lasciato trasparire ben poco e veniva apprezzata nel circuito giusto per il suo tennis gradevole ma che, oggettivamente, non era mai stata veramente capita.

Non che fosse così facile comprenderla, vuoi per la riservatezza, vuoi perché nella sua psiche, è innegabile, vi era annidato qualcosa di misterioso, di indecifrabile persino per se’ stessa. Clamoroso rimarrà il black out che la assale al terzo turno del Roland Garros ’95 quando opposta a Chanda Rubin, sul 5-0 0-40, tutto in suo favore, riesce a perdere 8-6 dopo aver sperperato nove match point. Ad ogni modo, una cifra Jana sembra trovarla e nell’arco di tre annate vince bellissimi tornei come Brighton, Essen, Philadelphia, Linz e Mosca, si spinge in semifinale all’US Open, torna a uno step dalla finale a Parigi nel ‘96, saluta le Olimpiadi di Atlanta con un bronzo al collo, mentre a Wimbledon si fa spazio fino ai quarti nel ’94 e nel ’96 più lo smacco di una semifinale conclusasi male nel ’95, puntualmente fermata in una circostanza da una ormai stanca Navratlova e nelle altre due dalla solita Graf. Sembra un copione già scritto pure la finale che la ceca perde nel 1997, questa volta contro l’enfant prodige Martina Hingis. Questa volta non ci saranno lacrime, ma solo tanta rassegnazione oltre a un siparietto evitabile con la ceca che durante la premiazione cerca di sfilare il piatto tanto agognato a quella terribile sedicenne.

Dopo aver stretto in pugno un’edizione sgangherata del Master nel ’97, liberatorio si rivelerà il trionfo a Wimbledon l’anno seguente quando la ceca supera con sorprendente lucidità una lanciatissima Venus Williams 7-5 7-6(2), regola con un doppio 6-4 la reginetta Martina Hingis e ha ragione in finale su Natalie Tauziat – artefice del depennamento di Lindsay Davenport e di Natasha Zvereva, a sua volta giustiziera di Graf e Seles. Insomma, il 4 luglio del 1998 il miracolo si compie fino in fondo, un po’ perché la differenza tra le due era abissale – e nonostante questo lo score fu 6-4 7-6(2) – un po’ perché sui campi dell’All England Club i lieto fine sono i benvenuti. Il crollo, stavolta, avviene tra le braccia della mamma e di Hana Mandlikova, a quei tempi sua coach, per far spazio a infinite lacrime di gioia, impossibili da asciugare.

Nonostante il ritiro sarebbe arrivato a fine ’99, in quel pomeriggio londinese si chiuse l’avventura di Jana Novotna. Un best ranking come n.2 del mondo, 24 titoli WTA, un Master e soprattutto Wimbledon l’avevano resa una persona appagata, probabilmente in pace con se’ stessa. Ai successi in singolare ne erano piovuti molti di più in doppio, addirittura 74, tra cui 3 slam nel misto, sempre in tandem con Jim Pugh e ben 12 grandi prove nel femminile. Un proprio prestigio lo ha riscosso pure aver spinto la propria nazione alla conquista di una Hopman Cup e una Fed Cup. Senza dubbio, il capitolo doppio ha avuto un’importanza basilare per la crescita non solo tennistica, bensì anche umana, di Jana. È stato nel doppio, insieme alla carissima amica Helena Sukova che Jana ha raccolto i primi risultati ad altissimo livello: dall’argento alle Olimpiadi di Seul – dove furono sconfitte 6-4 2-6 8-10 dal duo yankee Shriver&Garrison – alla prima affermazione in uno slam, a Wimbledon 1989, per arrivare al Grande Slam di specialità sfiorato per un soffio nel 1990 quando nella finale dell’US Open vennero fermate da Navratilova e Gigi Fernandez. Finché tra le due qualcosa si ruppe e Jana iniziò a far coppia con la protoricana, insieme a cui vinse solo il Roland Garros nel 1991. Erano entrambe doppiste eccezionali ma la complicità in campo non decollò mai e per tornare a imporsi in uno slam dovette arrivare in soccorso Arantxa Sanchez: acchiapparono l’US Open nel ’94 più l’Australian Open e il Master nel ’95. La parentesi proficua con Lindsay Davenport nel ’97, portatrice di un US Open e un Master ’97, sarebbe stata rincalzata dalla strepitosa collaborazione con Martina Hingis, culminata con ben 3 slam, Roland Garros, Wimbledon e US Open; con l’elvetica che già si era presa Melbourne insieme a Mirjana Lucic. Il tempo avrebbe aggiustato tante cose pure con Helena Sukova e nel ’96 tentarono nuovamente l’assalto all’oro alle Olimpiadi di Atlanta, ma ancora dovettero accontentarsi della seconda piazza e nuovamente a batterle furono due americane, Gigi e Mary Jo Fernandez.

«Non penso di essere stata una perdente, ma ho sempre avuto questa etichetta appiccicata alla schiena. La verità è che quando vieni additato in un determinato modo, non puoi far nulla, così rimani». Rispolverandone i risultati va riconosciuto come ingiusti e spicciativi siano stati tanti giudizi. Perché è palese che Jana Novotna a volte si soffocasse con le sue stesse mani, ma solo in rarissime circostanze ha perso partite che non avrebbe dovuto categoricamente perdere, molto spesso a batterla, fosse pure al termine di una rimonta, sono state giocatrici forti quanto lei se non di più. Più verosimile sarebbe riconoscere che Jana e il suo tennis si sono trovati in una destabilizzante terra di nessuno: Jana non aveva la fisicità portentosa e l’indole aggressiva della Navratilova, non era in grado di improntare i match con la solidità difensiva della Sanchez, non produceva il pressing martellante di Monica Seles, le sue corde non sprigionavano la velocità di palla della Graf, il suo gioco era privo di quella pesantezza su cui potevano far leva Capriati, Pierce e infine Davenport, e per quanto dotata di una classe innata molto raramente le sue soluzioni toccavano le punte di assoluto accarezzate da Mandlikova e Hingis.

Quello di Jana Novotna era un tennis completo, variopinto, bellissimo da vedere, ma tra le ombre di quella totalità estetica si nascondeva il limite di un bacio divino troppo soffice, privo di quella brutalità, di quella cattiveria che rende anche il tennis più angelico provvisto di una dose di veleno mortale. A Jana quello scarto mancava e in quell’assenza ha pazientemente edificato la sua carriera, la sua personalità, forse persino la sua vita, dimostrando una consapevolezza ben superiore rispetto a chi l’ha considerata per anni una perdente cronica. Entrata nella storia di Wimbledon ancor prima di vincerlo, nel giorno del suo insediamento nella Hall of Fame, Jana Novotna concluse il suo toccante discorso ringraziando la madre, presenza costante nella sua crescita di atleta e di donna, la figura basilare che sempre l’ha supportata, rassicurata. Tutto ciò tra le lacrime, costante pure essa che l’ha accompagnata per tutta la vita; finché il 19 novembre 2017 quelle lacrime sono diventate di tutti, quasi a sottolineare quanto crudele sia il contrasto tra esse ed il sorriso che ha regalato al tennis.

Jana Novotna of the Czech Republic displays the winner’s trophy after victory over Nathalie Tauziat of France in the Women’s Singles final at the Wimbledon tennis championships July 4. Novotna won the match 6-4 7-6.
JB/FMS – RP1DRIGBQCAA