Salvador Dalì, l’inventore dei sogni

Era inaccettabile il mondo per Salvador Dalì e la realtà lo oppresse, lo inorridì al punto da indurlo a cercare rifugio in una dimensione dove lo scorrere di un tempo inesistente, piegatosi alla memoria, poteva assumere la duplice valenza di liberazione e trappola inconscia, seppure capace di sfuggire ai perversi meccanismi della morte, esorcizzata tramite visioni oniriche a volte cupe, altre luminose, incessantemente contorte, inquietanti, eppure inclini a rendere legittima l’evenienza di una via di fuga. Corpi simili a marionette infestate dalle tarme e bisognosi di un appoggio, fiori in procinto di appassire, cibo destinato a degradarsi, uova elette a simbolo di universo intrauterino, orologi afflosciati, insetti, elefanti dalle zampe sottilissime, cavalli, felini, ma soprattuto, a invadere l’immaginario dell’artista fu Gala, la moglie onnipresente, adorata, invocata, santificata al punto da raffigurare la Madonna con il suo volto, di donare il lineamenti a Gesù.

Salvador Domènec Felip Jacint Dalí i Domènech nasce l’11 maggio 1904 a Figueres, una cittadina della Catalogna, nove mesi dopo la morte, a causa di una meningite, del fratello maggiore tre anni, con cui condivideva una somiglianza fisica al limite dell’inquietante oltre che il nome; e a sua volta così registrato all’anagrafe per via del padre, Salvador Dalí i Cusí, un avvocato e notaio piuttosto rinomato dal carattere altero e intransigente, a differenza della madre, Felipa Domènech i Ferrés, donna dal temperamento artistico e iperprotettivo, considerata dal figlio una sorta di divinità. Nel 1908 quella coppia kafkiana ebbe un altro figlio, Ana Maria, ma dal loro punto di vista a essere la reincarnazione del primogenito scomparso era Salvador, il quale maturò uno straziante senso di colpa per la prematura scomparsa del fratello al punto da convincersi che «probabilmente egli era una prima versione di me, ma concepito in termini assoluti». Il fantasma del fratello divenne un’ossessione che lo accompagnò per tutta la vita e l’idea che in quella piccola bara riposasse una parafrasi di sé stesso gli innescò una vera e propria fobia verso l’invecchiamento e la putrefazione dei corpi. Spesso sopraffatto da un senso di soffocante angoscia Salvador arrivava a vedersi sdoppiato ed era incapace di capire se a respirare fosse lui oppure se nel suo corpo avesse preso dimora un frammento dell’anima del fratello.

Fu la madre a indirizzare Salvador presso una scuola d’arte, così come al padre spettò il compito di organizzare nella residenza di famiglia una mostra dei suoi primi disegni a carboncino, nel 1919 sfociata in un’ esposizione pubblica presso il Teatro Municipale di Figueres. La spensieratezza dell’infanzia, il trasporto romantico che nei primi anni dell’adolescenza proiettò Salvador verso una serie di fantasticherie che egli stesso arriverà a definire «radiose quanti ingannevoli», sfumeranno nell’inverno del 1920, quando alla madre viene diagnosticato un tumore. La donna si spense nel febbraio dell’anno dopo e un Dalì sedicenne descrisse la scomparsa dell’adorata madre come: «la disgrazia più grande che mi sia capitata nella vita. Non potevo rassegnarmi alla perdita dell’unica persona che aveva saputo rendere invisibili le imperfezioni della mia anima».

Questa perdita lo cambiò nel profondo e, seppure non si indignò per la scelta del padre di convolare a nozze con la sorella della moglie da poco mancata, il suo temperamento sentimentale lasciò spazio a quella parte focosa e anticonformista che lo indusse a organizzare una protesta contro la Scuola d’Arte di San Fernando, rea a suo giudizio di essersi fossilizzata in concetti preistorici. L’intervento della polizia e il conseguente arresto, furono ritenuti dei motivi validi per bandire Salvador Dalì dall’Istituto. Un po’ per spirito di polemica, un po’ perché mosso da un ingenuo idealismo, egli visse questa decisione come un’ingiustizia e, a testimonianza del suo disappunto, realizzò un olio e tempera su cartone ribattezzato “Bambino malato”.

Trasferitosi a Madrid per studiare all’Accademia di Belle Arti; ben presto il suo nome inizia a circolare: se il suo look eccentrico –  caratterizzato da capelli e basette lunghe, pantaloni alla zuava e giacche dai colori sgargianti – non poteva passare inosservato, la mano egregia e l’impronta avanguardista dei suoi dipinti – estremamente affini al movimento cubista – fecero scalpore. In quegli anni Salvador Dalì divenne amico dello scrittore Pepín Bello e del regista Luis Buñuel, mentre l’affinità elettiva instaurata con il poeta Federico Garcia Lorca fu quanto mai simile ad un autentico trasporto amoroso. Furono anni intensi in cui l’accostamento al movimento dadaista fu seguito da un’illimitata ammirazione per Pablo Picasso e Joan Miró, conosciuti entrambi nel 1926 a Parigi, quando ormai la sua avventura all’Accademia era terminata con un’espulsione poco prima di sostenere gli esami finali, poiché aveva affermato che nessun insegnante era sufficientemente competente da esaminare uno come lui.

Dopo aver illustrato un libro di un compagno di studi, Salvador Dalì si concentrò sulla pittura dando vita ai suoi primi capolavori: da “Ragazza alla finestra” – opera che raffigura la sorella affacciata a una finestra di una loro casa a Cadaqués – a “Donna sdraiata” – pure esso ritraente Aña María. La sola “distrazione” che si concesse fu il cinema, tanto che nel 1929 firmò come coautore il cortometraggio surrealista per la regia di Luis Buñuel “Un chien andalou”, della durata di 17 minuti e divenuto un cult per la scena d’apertura in cui si vede un occhio umano lacerato da un rosaio. Datato 1930 è invece “L’âge d’or”, pellicola di 62 minuti che narra i tentativi di una coppia di amanti di “consumare” la loro relazione, ostacolati dai valori borghesi insiti nel loro “io” e dai tabù sessuali imposti da istituzioni quali la famiglia, la chiesa, e la società.

Salvador Dalì e Elena Dmitrievna D’jakonova, passata alla storia semplicemente come Gala.

Ad ogni modo, nell’agosto del 1929 Salvador Dalì incontrò la propria musa e futura moglie: Gala, un’espatriata russa di undici anni più adulta – seppure probabilmente erano una ventina gli anni in più – il cui vero nome era Elena Ivanovna Diakonova. All’epoca moglie del poeta Paul Eduard e madre della piccola Cécile, era amante di Max Ernst e aveva fama di essere una donna possessiva e manipolatrice. L’amore travolgente che si innescò tra Gala e Dalì fu fatale: non solo cancellò tutto quello che era venuto prima, tracciò il destino di quell’uomo geniale, che la posò al centro del proprio universo passionale, spirituale e creativo; nel nome di un’ossessione, di una dipendenza e una devozione inverosimile. Fu lei a ispirarlo, a stabilire i prezzi delle opere, a firmare i contratti. Si occupava di ogni aspetto della vita di Salvador; cosa mangiare, cosa indossare, quante volte al giorno lavarsi e quando si stancò di posare sistematicamente per il marito, fu lei a scegliere le modelle da utilizzare. In seguito venne scritto di una relazione tra Dalì e Amanda Lear; ma i pochi conoscenti ammessi a corte dei coniugi durante quegli anni dubitarono della veridicità della cosa in quanto Dalì era pienamente sottomesso alla moglie che, al contrario non fece mai mistero di averlo tradito sia con uomini che con donne.

Se la relazione con Gala rese tesi i rapporti tra Salvador e il padre, la goccia che fece traboccare il vaso si versò il giorno in cui quest’ultimo lesse su un quotidiano di Barcellona di un disegno del figlio, il “Sacro Cuore di Gesù Cristo”, esposto a Parigi e accompagnato da una scritta provocatoria. Il genitore pretese che Salvador smentisse pubblicamente la notizia, ma egli, conscio di come la sua adesione al gruppo dei surrealisti di Montparnasse rappresentasse una garanzia per la sua carriera, forse temendo di essere allontanato, si rifiutò di assecondare la volontà paterna e il 28 dicembre 1929 fu cacciato a forza dalla casa di famiglia.

L’estate successiva Dalí e Gala affittarono un piccolo capanno di pescatori in una baia nei pressi di Port Lligat, per quindi acquistarlo e trasformarlo, poco a poco, in una villa sul mare. Per quanto Gala suscitasse nel pittore emozioni imponderabili, insieme a lei riuscì a raggiungere un personalissimo equilibrio emotivo per incanalare il proprio estro. Risale al 1931 una delle sue opere più celebri ed evocative, “La persistenza della memoria”, in cui compone la surreale immagine di alcuni orologi da taschino ormai flosci e sul punto di liquefarsi. La metafora della memoria che invecchiando perde forza e resistenza è sostenuta anche da altri dipinti come un ampio paesaggio dai confini indefiniti e un altro orologio divorato dagli insetti “La fusione del tempo”.

Salvador Dalì – Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet

Correva poi l’anno 1932 quando Dalì rimase inoltre impressionato dal gesto di un folle che deturpò “L’angelus” di Jean-Francois Millet – dipinto che raffigura due contadini assorti nella recita del Angelus Domini convinto che una voce fuoriuscisse da esso. L’iberico – che amava “L’Angelus” perché lo riportava all’infanzia in quanto una copia si trovava appesa a una parete della scuola elementare da lui frequentata – non solo ripropose diverse versione surrealiste del quadro, nella sua mente si fece largo la convinzione che il reale tema del dipinto fosse una veglia funebre sulla bara di un bambino. Effettivamente, nel 1963, ottenuto il permesso di effettuare una radiografia della tela per conto del Louvre essa mostrò la presenza di un parallelepipedo, probabilmente una bara successivamente sostituita dalla cesta di patate che effettivamente si trova ai piedi dei due agricoltori.

Freschi di matrimonio, avvenuto tramite rito civile, nell’estate del 1934 il mercante d’arte Julian Levy presentò Salvador Dalì e Gala all’alta società newyorkese che, in parallelo a una grande mostra che destò entusiasmo e scalpore, li accolse allestendo un speciale “Ballo in onore di Dalí”. Anche l’ereditiera Caresse Crosby organizzò una festa in maschera in onore del genio spagnolo ma in quella circostanza marito e moglie esagerarono presentandosi vestiti come il figlioletto di Charles Lindbergh e il suo rapitore. Siccome la reazione scandalizzata della stampa rischiava di compromettere i rapporti con i tanti acquirenti fattisi avanti, Gala consigliò a Salvador di scusarsi ma, questa azione coscienziosa disturbò al contrario il gruppo di surrealisti i quali, una volta tornato a Parigi, lo rimproverarono di scusato di un legittimo gesto surrealista. Un altro aspetto che irritò i compagni fu l’ambigua posizione mantenuta da Salvador Dalì sul rapporto tra arte e politica. Essendo tendenzialmente un movimento di sinistra, uno dei capofila surrealisti, André Breton, accusò lo spagnolo di difendere Hitler in quanto restio a schierarsi apertamente contro il regime nazista. Sottoposto a un “processo interno” Dalì reagì all’espulsione dal gruppo dichiarando: «Il surrealismo sono io».

La guerra civile in Spagna suggerisce all’artista di dar vita all’opera “Giraffa in fiamme” ma, più che la spettrale carne bruciata dell’artiodattilo sullo sfondo, a colpire è la figura femminile, sorretta da delle stampelle, che occupa l’intero spazio centrale del dipinto: al posto della testa presenta una massa informe, forse un teschio o un grumo di sangue, ha mani scheletriche insanguinate, mentre dei cassetti si aprono lungo la gamba sinistra e sotto il seno. Una figura ambigua, seppure non altrettanto inquietante, è al centro del dilemma di “Donna con testa di rose” dove per l’appunto i fiori sostituiscono il capo di quello che pare essere un manichino privo di una personalità, di un’identità. La composizione lascia però spazio ad altri dettagli: un omino bianco, solo, in lontananza, una donna china su un documento e una sedia, spingendo così il surrealismo tra le braccia della psicoanalisi ed immergersi in astrazioni che apriranno altrettanti interrogativi negli enigmatici “Donna con testa di fiori” – dove in uno spazio indefinito un  uomo dai tratti evanescenti è inginocchiato alle spalle di una conturbante silhouette femminile – e “L’enigma senza fine” – in cui mescola elementi diversi, confusi insieme in un incubo che a volte appare nuvoloso, altre volte luminoso, altre ancora pervaso da  ombre fosche e luci accecanti.

Salvador Dalì – La persistenza della memoria

La versatilità di Salvador Dalì si espresse in tutta la sua potenza tramite due oggetti da lui realizzati tra il 1936 e il 1937: il “Telefono aragosta” e il “Divano – labbra di Mae West”. Commissionati da Edward James; i quattro telefoni creati dall’iberico erano perfettamente funzionanti e andarono a sostituire gli apparecchi della villa del mecenate, così come il divano in legno di raso che riprende la forma delle labbra della celebre attrice venne piazzato in uno dei grandi saloni. La partecipazione di Dalì all’Esposizione internazionale surrealista di Londra – dove tenne una conferenza presentandosi vestito con tuta e casco da palombaro, tenendo in mano una stecca da biliardo e con due levrieri russi al guinzaglio – incrementò la commercializzazione delle opere dell’artista che, sapientemente gestito dalla moglie, raggiunsero quotazioni da capogiro, autorizzando Breton a coniargli il denigratorio soprannome di “Avida Dollars”, anagramma di “Salvador Dalí” traducibile come “bramoso di dollari”.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale spinsero Salvador e Gala a emigrare negli Stati Uniti dove l’artista si inventò creatore di gioielli – tra il 1941 e il 1970 darà alla luce 39 modelli con il più famosi di essi, “Il cuore reale” in in oro, con 36 rubini, 42 diamanti e 4 smeraldi incastonati e concepito in modo che il centro batta come fosse un vero cuore -; per poi pubblicare la sua prima autobiografia: “La vita segreta di Salvador Dalí”; redigere cataloghi delle sue esposizioni; pubblicare un romanzo che parla di un salto di moda per automobili; impostare un canovaccio di un film per Jean Gabin intitolato “Ondata d’amore”; collaborare con Walt Disney nel cortometraggio, “Destino”, di 6 minuti e 32 seciondi, con protagonista un personaggio disneyano che interagisce con scene e individui surreali tipici dell’immaginario di Dalí – pellicola che non fu completata a causa della crisi economica ma che venne ugualmente montata e presentata in diversi festival riscuotendo un enorme successo venendo anche candidato ai premi Oscar, per infine essere ultimata nel 2003 – e realizzare la sequenza onirica di “Io ti salverò”, per la regia di Alfred Hitchcock.

Nel mezzo dipinse due tra le su opere più riuscite e suggestive: “Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio” e “Ragno della sera”. Nel primo pone al centro della scena Gala, distesa, nuda su una lastra di marmo sospesa in aria e, mentre la sua musa dorme un fucile con una baionetta – presumibilmente il pungiglione dell’ape – le tocca il braccio. Dietro all’arma spiccano due tigri, una di esse balzata fuori dalla bocca di un pesce a sua volta uscito da un melograno. Sullo fondo, vi è poi un elefante con le zampe sottili che cammina sull’acqua e trasporta un obelisco. Nel secondo rielabora l’orrore della guerra tramite l’icona del cannone che vomita un composto informe; l’ideologia che avvolge e travolge il simbolo della vittoria, la Nike di Samotracia, deturpata e mutilata dal terrore che genera la violenza.

Salvador Dalì – Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio

Reduce, nel lontano 1927, da un’esperienza come scenografo della “Mariana Pineda” di Garcia Lorca; negli anni ’40 tornò a occuparsi di teatro curando la messa in scena di “Baccanale” – un balletto realizzato sulle note dell’opera Tannhäuser di Richard Wagner – “Labirinto” e “Il cappello a tre punte”. Risale invece al 1951 la scelta di tornare a vivere in Catalogna nonostante fosse ancora governata da Franco. Questa decisione gli procurò diverse critiche da parte dei progressisti, tra l’altro perplessi dal morboso riavvicinamento di Dalì verso le pratiche legate al cristianesimo che, nel 1958, lo convinceranno a risposarsi con rito cattolico. Si parlerà anche di un esorcismo praticato da un frate italiano; nella cui proprietà, decenni dopo, venne rinvenuta una scultura di Cristo crocifisso che, stando a indiscrezioni, l’artista avrebbe regalato al religioso in segno di gratitudine.

Di certo, questa spinta mistica lo incentivò a creare quattro tra le sue opere principali: “La tentazione di San Antonio” – in cui Sant’Antonio tiene in mano un crocefisso, formato da due legni uniti da una corda, alzandolo verso un cavallo bianco imbizzarrito dietro cui ci sono quattro elefanti che hanno le zampe allungate -; Madonna di Port Lligat”- la cui prima versione venne sottoposta a Pio XII per l’approvazione -; “Corpus Hypercubus” – il cui titolo si riferisce al fatto che Cristo non è inchiodato all’usuale croce, la quale è magicamente sospesa nell’aria -; e “L’ultima cena” – in cui si lascia trasportare dalla provocazione, al limite del blasfemo, di dare a Gesù il volto della moglie -.

A partire dal 1960, Salvador Dalì non si limitò a esprimersi con la pittura, ma sperimentò anche nuove tecniche di comunicazione mediatica: realizzò opere sviluppando macchie d’inchiostro casuali lanciate sulla tele e fu tra i primi artisti a servirsi di olografie. Oltre a collaborare con il Teatro-Museo Dalì nella sua cittadina natale di Figueres, realizzò un filmato pubblicitario per la televisione per la cioccolata Lanvin, disegnò il logo dei celebri lecca lecca Chups“, fu responsabile della campagna pubblicitaria dell’Eurofestival e creò una grande scultura metallica che venne posta sul palco del Teatro Real di Madrid dove si svolse la manifestazione.

All’alba degli anni ’70 generò la cartella “Les Chevaux de Dalì”; serie nella quale si concentrò sulla figura del cavallo tanto nella storia, quanto nel mito. Opera principale delle litografie è il Cavaliere della Morte, ossia uno dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse che, stando agli scritti dell’evangelista Giovanni, sarebbero arrivati in seguito all’apertura dei sette sigilli da parte dell’Agnello. La morte proposta da Dalì fa leva su stereotipi tradizionali: il volto scavato, con in mano una grande falce, seduta su un cavallo dal colore verdastro, che ricorda quello dei cadaveri in putrefazione.

Salvador DalÌ – L’ultima cena

Continuò a lavorare come un forsennato e a venerare Gala pure nei decenni successivi. Per lei arrivò persino ad acquistare un castello a Púbol dove nel 1980 la donna iniziò a soffrire di una lieve forma di demenze senile che la accompagnò alla morte, avvenuta il 10 giugno del 1982. Per Salvador Dalì fu un colpo impossibile da superare: divorato dalla depressione, dopo aver sistemato la mummia di Gala in una teca di vetro nella cripta del castello, fece di quel luogo la propria prigione dove poter contemplare, per ore e ore, tutti i giorni, i resti della moglie. Persa la voglia di vivere prima cercò di lasciarsi morire per disidratazione, poi, probabilmente, appiccò un incendio nella camera da letto. Nell’arco di pochi mesi la sua mano destra iniziò a tremare in preda a sintomi simili a quelli della malattia di Parkinson e il suo sistema nervoso fu compromesso al punto da provocare la fine delle sue capacità artistiche.

A 76 anni Salvador Dalì era un uomo finito. Assegnatogli un tutore, questi ritenne opportuno tenerlo lontano dal castello di Púbol. Tornato a Figueres, trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita senza proferire parola. Nel novembre del 1988, fu ricoverato in ospedale per un attacco di cuore e il 5 dicembre ricevette la visita di re Juan Carlos – il quale anni prima gli aveva concesso il titolo di Marchese di Púbol – per essere ripagato con un disegno, che fu anche l’ultimo dell’artista. Il 23 gennaio 1989, Salvador Dalì stava ascoltando la sua opera prediletta, “Tristano e Isotta” di Wagner, quando morì per un infarto. Aveva 84 anni e venne sepolto all’interno del suo Teatro-Museo di Figueres. Il funerale venne svolto nella chiesa dove era stato battezzato, dall’altro lato della strada, a soli tre isolati dalla casa in cui era nato.

Dopo aver sfidato, sconvolto, incantato il mondo reale, dopo essere stato considerato uno degli artisti più geniali di tutti i tempi, dopo aver vissuto morto tra i vivi; Salvador Dalì si risvegliò, conscio di essere rimasto ancorato a una dimensione che non gli apparteneva, che non era mai stata sua: per questo decise di estraniarsi, definitivamente, di seguire il fantasma di Gala, eterna incarnazione delle sue visioni oniriche, fino al giorno in cui si lasciò sprofondare in uno di quei sogni da cui non è possibile fare ritorno.

«Amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e perfino più del denaro» – Salvador Dalì