Sergej Esenin, l’usignolo russo

Leggenda vuole che in alcuni boschi della Russia, al tramonto, gli usignoli si concedano a un concerto talmente melodioso, malinconico e incantevole da riuscire ad accarezzare le corde più profonde degli esseri umani disposti ad aprire loro il cuore, per uscire da questa esperienza in completa simbiosi con la natura che li circonda, ma ancor più in armonia con la parte più tenera e istintiva di sé stessi. Fu così che anche sullo spegnersi del 3 ottobre 1895, tra gli arbusti delle campagne di Konstantinovo, gli usignoli cantarono per celebrare la nascita di Sergej Aleksándrovič Esénin. I suoi riccioli d’oro, la bocca carnosa, la pelle delicata e gli occhi chiari, esasperatamente espressivi, lo fecero sembrare fuori posto sin dal principio. Nulla lo riconduceva alla estrazione contadina da cui proveniva, tutto però lo riconciliava con gli elementi ad essa legati: la morbidezza dei prati, la metamorfosi degli alberi, la leggerezza delle foglie, la soave rigorosità dei fiumi, la dolcezza della rugiada, la durezza della neve che diviene ghiaccio, il vento che taglia l’aria – e al pari di una lama – la pelle, l’istintività degli animali. 

Solo, ma ancor più solitario, come un qualsiasi figlio unico cresciuto dai nonni, Sergej aveva nove anni quando quelle sensazioni, quelle emozioni, quei sapori, quegli odori, assunsero una forma poetica. Appena diciassettenne partì per Mosca. Correggere bozze al conto di una società editoriale, gli bastò per garantirsi un alloggio fatiscente, del cibo senza pretese e l’iscrizione, come studente esterno, all’Università Statale di Mosca. Nel 1913 ebbe una relazione con una collega, tale Anna Izrjadnova, dalla quale ebbe un figlio, Jurij, che sarebbe stato arrestato durante le grandi purghe staliniste per morire in un gulag nel 1937. Credeva di amarla, forse, in realtà Sergej amava l’idea dell’amore.

Nel 1915 prese un treno e raggiunse San Pietroburgo. Entrato in contatto con i poeti Andrej Belyj – il quale gli insegnò il lirismo – e Aleksandr Blok – basilare nel promuovere le fasi iniziali della carriera di Esenin -; tempo un anno e Sergej pubblicò il suo primo libro di poesie, intitolato “Radunica; a breve seguito da “Rito per il morto”. L’accattivante bellezza e le istrioniche doti di oratore, contribuirono a far uscire tutta la passione, tutta l’energia, di cui le sue righe erano intrise. 

Divenuto uno dei poeti più popolari della Russia, nel biennio 1916-1917, Sergej Esenin venne arruolato per il servizio militare. Erano gli anni della Rivoluzione d’Ottobre. Il suo insaziabile bisogno di misticismo lo spinse a credere che tutto quel sangue versato sarebbe stato giustificato da una missione liberatrice disposta a riscattare il mondo rurale, prendendosi cura dei bisogni di quel popolo divorato dalla fame e dal freddo. Da questa errata interpretazione, da queste ingenue illusioni, da questo contrasto tra il suo mondo incantato e la cruda realtà della Rivoluzione, da questa sua ostinata non accettazione della cattiveria umana; ebbero origine i suoi drammi esistenziali. Sentimenti di delusione, rabbia, frustrazione, tormento, resero ancora più contorto il suo animo, più aspre le sue contraddizioni. 

Nonostante una evidente propensione all’omosessualità, il 4 agosto 1918, in una chiesetta dalle parti di Vologda, sposò la segretaria della rivista  “Delo Naroda”, Zinaida Rajch. Insieme ebbero una figlia, Tatjana, che avrà un futuro da giornalista; e un figlio, Konstantin, che sarebbe diventato un famoso statistico del calcio. Nel settembre dello stesso anno fondò poi una casa editrice chiamata “Trudovaja Artel’ Chudožnikov Slova”, ossia ”Compagnia lavorativa moscovita degli artisti della parola”. Sergej Esenin trascorreva le sue giornate scrivendo, leggendo, passeggiando e frequentando osterie, dove immancabilmente si ubriacava. Alcune poesie di quel periodo – come “Confessioni di un teppista”, “Sono l’ultimo poeta del paese” e “Preghiera per i primi quaranta giorni della morte” – lasciarono un segno nella storia della poesia; ma non nella sua vita personale, protesa com’era sempre verso un qualcosa di più ancestrale, di sconosciuto.

Nell’autunno del 1921 fu invitato dal pittore Aleksej Jakovlev nel suo studio e lì vi conobbe la celebre ballerina statunitense Isadora Duncan. Aveva diciotto anni più di lui, per quanto dotata di un certo fascino non era certo bella e sapeva una dozzina di parole di russo – mentre Esenin nemmeno una d’inglese -. Nella loro mente però, comunicare a parole non era poi così importante. Divenuti inseparabili, il 2 maggio del 1922 si sposarono e Sergej accompagnò la moglie-celebrità in un viaggio-turné prima in Europa, poi negli Stati Uniti. Ispirata dal nuovo status di cittadina sovietica, Isadora Duncan ballava ammantata di drappi rossi ed esibiva l’esotico marito russo, per di più poeta, alla stampa mondiale, attirando di conseguenza su di sé l’attenzione di tutti in un momento in cui la sua fama aveva iniziato ormai a declinare. Lo sbarco a New York però, si rivelò troppo per lui. Isolato dalla barriera della lingua, rilegato al ruolo di accompagnatore, divorato dalla nostalgia e dalla solitudine, ormai persino incapace di comporre un solo verso, Sergej Esenin divenne sempre più dipendente dall’alcol. Tra scenate di gelosie – sempre da parte di Esenin -, litigi – innescati dai modi di lui rozzi e spesso inadeguati -; i due arrivarono fino al maggio del 1923. Al che, Isadora se ne andò da sola a Parigi, e a Sergej non rimase che fare ritorno in Russia.

Sergej Esenin e Isadora Duncan

Sergej Esenin rimise piede sul suolo natio accompagnato dalla speranza di veder risorgere dalle proprie ceneri quella patria bucolica, ascetica, carica di tradizioni, di leggende, le cui atmosfere magiche avevano soffiato con tanto vigoroso trasporto tra le righe delle proprie poesie. Quella Russia però, riposava ormai in una dimensione perduta; e quando Esenin se ne rese conto, quando in un raro momento di lucidità fu consapevole che insieme ad essa pure la sua fanciullezza aveva assunto l’aspetto di uno scheletro, fu l’ennesimo fallimento di una storia che pareva essere già scritta.

Gli ultimi due anni di vita di Sergej Esenin furono bui, densi di angoscia. Completamente in balia dell’alcol, divenne vittima di allucinazioni visive terrorizzanti al punto da iniziare a parlare con un «uomo oscuro» e «un demone» che vivevano nella sua immaginazione. Tuttavia questo periodo di disperazione infinita fu uno dei più fecondi a livello creativo e risalgono a quei gironi inquieti alcune delle sue opere più intense e drammatiche quali “Luce di luna desolata e pallida”, “Il tuo sorriso nevica sul mio cuore” e “L’uomo nero”.

Dopo aver approfittato della devozione di Galina Benislavskaja, con cui ebbe una relazione puramente opportunistica, ebbe un figlio di nome Aleksandr – che tentò di seguire le orme del padre, che mai lo riconobbe, finché, osteggiato dalla dittatura stalinista, si trasferì negli Stati Uniti e sfondò come matematico – con la poetessa Nadezda Vol’pin, per quindi sposarsi nella primavera del 1925 con Sofija Andreevna Tolstaja, una nipote di Lev Tolstoj. Nonostante conoscesse il poeta solo da pochi mesi era certa che la sua vicinanza e il suo affetto potevano renderlo un uomo felice. Così non fu. Non solo il matrimonio era illegale, dato che Sergej non aveva mai divorziato dalla Duncan, «quella vecchia», come era solito definirla, quella straniera con cui non riusciva a comunicare, fu forse la sola da cui si sentì almeno in parte compreso.

Un ultimo ricovero in un ospedale psichiatrico – che una corrente di saggisti sostiene sia avvenuto per tenerlo provvisoriamente al riparo dalla GPU a cui mai erano piaciute le ricorrenti critiche al regime sovietico – precedette di poco la fine di tutto. I fatti raccontano che Sergej Esenin lasciò la clinica il 21 dicembre del 1925 deciso a lasciare Mosca per salire definitivamente a Leningrado. Così avvenne. Il 23 lasciò la città e il giorno seguente prese una stanza, la numero 5, all’albergo Angleterre. Non ne sarebbe più uscito. La notte del 27 dicembre scrisse col proprio sangue una poesia, gli ultimi versi d’amore e d’addio, probabilmente dedicati al poeta Anatoli Marienhof.

«Arrivederci, amico mio, arrivederci.

Mio caro, sei nel mio cuore.

Questa partenza predestinata

Promette che ci incontreremo ancora.

Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola

Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.

In questa vita, morire non è una novità,

ma, di certo, non lo è nemmeno vivere».

Il suo corpo venne ritrovato la mattina del 28 dicembre, impiccato con la cinghia di una valigia ai tubi del riscaldamento centrale della sua camera. Il corpo presentava alcuni graffi sul braccio sinistro, un profondo taglio sul braccio destro al di sopra del gomito e un livido sotto l’occhio sinistro. All’ipotesi del suicidio si affianca l’opinione, credibilissima, che Esenin sarebbe stato in realtà ucciso da due agenti della GPU, all’epoca la frangia più crudele della polizia segreta sovietica. Dopo essere stato seppellito al cimitero Vagan’kovskoe di Mosca, sebbene fosse uno dei poeti più famosi della Russia, la maggior parte dei suoi scritti furono messi all’indice dal Cremlino durante la dittatura di Josif Stalin e il governo di Nikita Chrusvev. Solo nel 1966 la maggior parte delle sue opere fu ripubblicata. 

Triste fu il destino di chi lo amò. Zinaida Rajch, che aveva sposato in seconde nozze il regista Vsevolod Mejerchol’, venne trovata uccisa in casa nel 1939, ufficialmente per mano di due rapinatori. Galina Benislavskaja si suicidò sulla tomba del poeta un anno dopo la sua morte, con un colpo di pistola al cuore. Isadora Duncan morì a Nizza, il 14 settembre 1927, strangolata dalla sciarpa che indossava le cui le frange si erano impigliate nei raggi delle ruote della sua Bugatt Type 35; sulla quale era appena salita, dopo aver salutato un gruppo di amici con una frase rimasta famosa: «Adieu, mes amis. Je vais à la gloire!»; ovvero «Addio, amici, vado verso la gloria!». Sofija Andreevna Tolstaja soffrì di depressione e problemi cardiaci tali da impedirle, non ancora trentenne, di alzarsi dal letto fino al resto dei suoi giorni. Anatoly Marienhof, visse da perseguitato in patria, e morì da esule in Germania.

Sergej Esenin morì lasciandosi alle spalle il suo dolore sconfinato e al tempo stesso un disperato, insaziabile amore per la sua terra, per la vita. Ossessionato da uno struggente patriottismo, non si sentiva figlio di quella Rivoluzione, non era pronto per un mondo diverso rispetto a quello che aveva conosciuto durante la fanciullezza. Sapeva essere tagliente, violento, ma allo stesso tempo era dolce, indifeso. La concretezza del mondo lo ha fatto traballare, lo ha ferito. La fortezza del misticismo a cui ha chiesto rifugio ha scavato dentro alle sue fragilità, lo ha spezzato. La verità è che Sergej Esenin si sentiva un estraneo, ovunque andasse, ovunque fosse. Anche per questo ha abbandonato la vita in punta di piedi, senza sbattere la porta, senza alcun grido di rancore.