Dallo spazio e ritorno

Non si trattò di una libera scelta. Si ritrovò coinvolto in una missione dove sono gli altri a scegliere per te. Una lotteria dove milioni di  numerini svolazzano giù dal cielo, leggeri e indeclinabili. Si disse che era abituato alle missioni di un certo tipo, che era arrivato a un’età in cui non si sentiva di poter escludere categoricamente di ritrovarsi costretto ad affrontare anche le prove più complesse; perché la vita ti forma, ti cambia, ti rende consapevole di quanto minimale sia la tua esistenza al cospetto di un piano globale, assoluto. A nemmeno quarant’anni doveva partire per lo spazio ed era necessaria una certa preparazione. Lo aspettava una navicella e un corollario di elementi degni di quell’incarico. Lo spazio è un anagramma, un abbaglio, un punto interrogativo senza contorni. Lo spazio è un luogo nero, privo di ossigeno. E nel suo caso, la mancanza d’aria era il problema primario.

Gli dissero che la navicella era predisposta per rendere il viaggio meno complicato di quanto già non fosse. Non poté comprendere il tono, così come non riuscì a scorgere l’espressione che accompagnava quelle parole. L’astronauta era lui, eppure erano gli altri ad indossare tute spaziali, con casco annesso, rigorosamente allacciato. Nessuno si presentò, o almeno così gli parve. Da diversi giorni, alla mancanza d’aria si era aggiunta la febbre. Strano modo per iniziare un’avventura nello spazio, ma la febbre c’era, ed era alta. Si guardò intorno e vide un luogo spoglio, impersonale. La grande finestra che dava sulla città offriva un panorama commuovente, ma sbiadito. In un primo momento ipotizzò che i vetri fossero stati lavorati tramite qualche diavoleria degna di quel sofisticatissimo veicolo spaziale. Poi si disse che era la sua vista. Infine pensò che il mondo si stesse sciogliendo.

Poi venne la paura. Era qualcosa di diverso dalla fitta al cuore che si espande lungo le arterie quando ci si accorge all’ultimo momento di essere in pericolo e si tenta l’impossibile per evitare il peggio. E spesso l’operazione va pure a buon fine. Quella paura era sottile, subdola. Non erano contemplate soluzioni di fino o contromosse eroiche. L’antidoto era l’attesa. L’antidoto era la speranza. Guardò oltre la grande finestra e vide un ammasso di puntini luminosi. Sentì qualcosa che gli raschiava i polmoni. Forse le pastiglie che gli somministravano non stavano contando a niente. In fondo nessuno gli aveva garantito nulla. Gli era solo stato promesso di essere lanciato nello spazio. Non era da tutti andare. E a quanto pare, erano ancor meno quelli capaci di tornare.

Il suo capitano non poteva fargli visita. Si limitava ad affacciarsi al di là della finestrella ritagliata nella sagoma della porta. Poche parole. Comprese il contesto. Doveva temprarsi, conformarsi al protocollo. In genere, chi gli portava cibo e medicine sbrigava la pratica di fretta. Si chiese se quel distacco fosse un sentimento di avversione nei suoi confronti, o l’immedesimazione nel ruolo che gli era stato assegnato, oppure una sorta di perversa salvaguardia del sistema nervoso. A volte era sfiorato dal dubbio se in realtà, dentro a quei sofisticati rivestimenti non vi fossero creature aliene addomesticate. Bastava però una carezza di un guanto, una parola al di là di un casco, per convincersi che oltre a quella ruvidezza c’era una mano composta da pelle, tessuti, nervi e sangue che scorre dentro alle vene; che al di là delle parole ovattate c’era un cervello umano capace ancora di provare empatia.

Ci fu un giorno in cui credette di essersi perso nello spazio. Si vedeva galleggiare in assenza di gravità immerso in una notte senza fine dove il solo puntino luminoso erano i 21 grammi della sua anima. Non ricordava di essere uscito dalla navicella, ed ebbe l’impressione di aver dimenticato le bombole dell’ossigeno o più verosimilmente che fossero guaste perché l’aria arrivava sottile come il sibilo di un serpente. Pensò alla sua famiglia, ai suoi amici, poi finalmente si concentrò su sé stesso. Non tirò somme. Non si rimproverò nulla né rimproverò qualcosa a qualcuno. Non ebbe particolari rimpianti. Si concentrò sul cumulo di possibilità che era ancora la sua vita.

Fu quel giorno che vinse la sua battaglia. Fu quel giorno che portò a termine la missione Covid 19. Aveva attraversato in solitudine lo spazio. Si era aggrappato a quel mondo soffuso al di là del vetro. Non era un mondo sempre bello, o tanto meno giusto. Al contrario. Ma era il suo mondo. Ed era un mondo capace di sprigionare attimi di indicibile bellezza, di spargere particelle di struggente giustizia pronte ad essere raccolte, per quindi venire donate; e così via. Sorrise e fece il primo passo sulla terra.

Questo breve racconto è dedicato a Carmine Musella

2 comments

  1. Patrizia Danti

    Avrei voluto che il racconto non finisse è talmente bello, sei una stella luminosa ???? in questo grigio universo,cara Samantha.

  2. carmine musella

    Non ti ringrazierò mai abbastanza, mio faro astrale.

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