Marco Pantani, il Profeta

«Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia».

La pedalata fluida anche nei frangenti in cui era richiesto il massimo sforzo. Lo stile inconfondibile, plastico ma al tempo stesso carico di personalismi; mani nell’impugnatura bassa, quei fuori sella istintivi, feroci, mai frutto di un calcolo, eppure misteriosamente calibrati, un’alternanza di equilibri, di assoli esplosivi eseguiti con una dolcezza contraddittoria. La sensazione di essere implacabile, indomabile, irraggiungibile. L’impressione che quando decideva di scattare non ce ne fosse più per nessuno. Poi c’era quel volto senza filtri. Il tratti di un uomo costantemente in bilico tra fragilità e durezza, dove timidezza, ardore, coraggio, tormento, passione si mescolavano dando vita a un miscuglio capace di far vibrare il sangue, da spezzare il cuore e subito ricomporlo, fosse solo per assistere un’altra volta ancora allo spettacolo che esercitava Marco Pantani mentre conquistava una montagna, per vderlo fuggire tutto solo lassù, dove ogni cosa diventava crudele e poetico insieme.

Più che “Il Pirata”, Marco Pantani era “Il Profeta”. Un uomo disposto a dare tutto sé stesso pur di stracciare quella vittoria in più, un mistico pronto  a immolarsi nel nome di quel qualcosa di indefinibile, forse di incomprensibile, perché tale è la pasta che forgia gli eletti, coloro che dedicano la parte più bella, più pura e preziosa della loro esistenza per rendere possibile il compiersi di un miracolo, affinché quel traguardo irraggiungibile per i più divenga una sorta di trionfo collettivo, dove uomini, donne e bambini per un giorno, per un momento, diventano la stessa cosa, la stessa essenza. Perché i miracoli che Marco Pantani compiva sulle strade ne hanno reso possibile uno ancora più inconcepibile: hanno unito l’Italia come nessun singolo atleta era riuscito a fare, hanno spinto il ciclismo indietro nel tempo, laddove non c’erano corridori ma eroi, quando le montagne sembravano ancora più alte di quanto non fossero e i racconti dei presenti si tingevano di fiabesco.

Una favola la sua che paradossalmente è iniziata lontana dalle asprezze della montagna, bensì nel cuore della Romagna, precisamente a Cesena, nella tarda mattinata del 13 gennaio del 1970. Secondogenito di Ferdinando Pantani, la mamma, Tonina Belletti, lavorava in un chiosco di piadine sul lungomare di Cesenatico. Si racconta sia un mare pericoloso l’Adriatico, temibile per le sue sfuriate improvvise, perché il tempo può cambiare così, da un momento all’altro. Una costante, l’inaspettato, che accompagnerà tutta la vita di Marco Pantani. Come quando da bambino gli piaceva pescare e tirar calci al pallone, ma viene il giorno in cui nonno Sotero gli regala una bicicletta ed ecco che come d’incanto scocca la scintilla. Ancora Marco non lo sa, ma quella luce farà un dono prezioso al mondo, non arriverà a cambiarlo, ci mancherebbe il mondo non cambia, ma certi giorni lo renderà un posto migliore, in cui è ancora possibile sognare.

Va subito fortissimo, soprattutto in salita, ma quelle speranze sin da subito sembrano essere ostacolate da una forza oscura, impalpabile, da un qualcosa che sembra volerlo tener lontano dalla bicicletta: a sedici anni una distrazione durante un allenamento lo fa finire addosso a un camion fermo procurandogli un giorno di coma; poi sbatte in discesa contro una macchina e rimane in ospedale una settimana con varie fratture.

Scriveva Agatha Christie: «Un indizio può essere un caso, due indizi sono una coincidenza». Marco avrà pensato la stessa cosa, così come avrà dato la colpa alla sfortuna quando, diventato professionista, tra il ’92 e il ’93 spesso i tendini lo tradiscono, limitandolo. La svolta avviene al Giro d’Italia del 1994. Nella frazione dell’Aprica scatta sul Mortirolo, semina tanto Evgenij Berzin quanto Miguel Indurain e seppure lo spagnolo lo riprende, sul valico di Santa Cristina lui torna alla carica e impugna la tappa. Quell’anno vincerà pure a Merano chiudendo al secondo posto nella classifica generale alle spalle del russo Berzin e la conferma giunge al Tour de France dove chiude terzo e saluta Parigi con maglia bianca come miglior giovane.

Il terzo indizio, quello che conferma l’esistenza di un implacabile meccanismo che pare voglia ostacolare Pantani a tutti i costi arriva in piena preparazione per il Giro d’Italia del 1995 quando un banale incidente stradale lo costringe a puntare sul Tour. Nonostante un ginocchio malandato, ormai distaccato dai primi, il 12 luglio 1995 incanta il mondo quando sull’Alpe d’Huez, quando a 13 km dal traguardo va all’attacco e, uno alla volta, si lascia alle spalle gli avversari e taglia il traguardo per primo. Tempo due giorni e la tappa pirenaica di Guzet Neige si trasfigura in una fuga lunga 42 km. Concluderà la Grande Boucle al 13esimo posto, garantendosi nuovamente la maglia bianca.

La Medaglia di bronzo che si mette al collo al Campionato Mondiale su strada in Colombia precede di poco l’ennesimo dramma: investito da un fuoristrada si frattura tibia e perone. Più che indizi ormai, si dovrebbe parlare di segnali. Gli antichi forse li avrebbero colti, interpretati, chissà. Nel presente però Marco Pantani non guarda le stelle, si concentra sulla strada da macinare e affronta la stagione che ha davanti come uno studio in previsione del 1997.

Eppure non è mai finita. Al Giro d’Italia deve vedersela con un gatto nero che attraversa la strada nella discesa del valico di Chiunzi causandogli una caduta con tanto di la lacerazione di un centimetro delle fibre muscolari della coscia sinistra. Al di là delle Alpi però inizia un’altra storia, o meglio, continua quella che aveva iniziato a scrivere due anni prima e scala l’Alpe d’Huez in 37 minuti e 35 secondi. Un record. Marco si aggiudica pure la tappa di Morzine innestando un tarlo nella testa di Jan Ullrich: che sia stato il cronometro a salvarlo, che sia solo questione di tempo. Astri permettendo.

Al Giro d’Italia del 1998 il primo a respirare la polvere è Pavel Tonkov; un uomo che viene dalla steppa, perennemente assorto nella sua missione, ma incapace di guizzi. Marco Pantani invece è un uomo di magia e Al Pian di Montecampione impone al russo un ritmo infernale, irreale, non si limita a stroncargli le gambe, lo piega nel profondo, azzerandogli la volontà. Con il benestare delle stelle le sue aspirazioni sono chiare: vuole la doppietta Giro d’Italia-Tour De France.

Quando sbarca in Francia è però lacerato per la scomparsa del suo mentore, Luciano Pezzi. Perché Marco era così, un professionista certo, ma aveva un cuore, e quel muscolo capace di soli 33 battiti a riposo era una camera di combustione. Nelle prime sette tappe accumula un ritardo di quasi cinque minuti dalla maglia gialla Ulrich. Una voragine incolmabile. E invece no. Tra Pau-Luchon e Plateau de Beille riduce a 3 i minuti in difetto. Con il senno di poi viene da chiedersi se la notte prima della 15esima tappa, quella che andava da Grenoble a Les Deux Alpes, Marco Pantani abbia rivolto un’occhiata a quel cielo per ritrovarsi al cospetto di un manto nero, coperto di nuvole, imperscrutabile. E dire che il 27 luglio, in contrasto con le impossibili condizioni atmosferiche, tutto divenne limpido: sul colle del Galibier a quasi 50 chilometri dal traguardo Pantani umilia Ullrich per andare a prendersi la maglia gialla in solitaria, con 9‘ minuti di vantaggio sul rivale. Una maglia che indosserà fino a Parigi.

La parabola di successi prosegue l’anno successivo alla Vuelta della Murcia e anche il Giro è pronto a inchinarsi al suo cospetto. Ormai ha perso potere pure la sfortuna, o le stelle avverse: a Oropa infatti gli salta la catena a pochi chilometri dal traguardo, ma Marco si riprende e senza affanni vince la tappa. Guarda tutti dall’alto anche nelle frazioni dell’Alpe di Pampeago e di Madoglia di Campiglio. Lui, “Il Pirata” è sempre più “Profeta”. Non ha solo conquistato il mondo a colpi di pedale, ha preso dimora nel cuore della gente. Si è dimostrato il Messia capace di battere la noia, di riscrivere il tracciato delle stelle.

Di questo alcuni uomini, non proprio suoi simili, non lo hanno perdonato. La sua enormità era diventata scomoda, oltraggiosa. A Madonna di Campiglio i medici dell’UCI rendono pubblici i test effettuati sul corridore i quali avrebbero enunciato un ematocrito del 52% oltre il margine di tolleranza. Non significa proprio risultare positivo al controllo antidoping, ma gli costa una sospensione  «a scopo precauzionale».

Quel 5 giugno del 1999 si apre una ferita. Non si richiuderà più. Alle accuse di  Jesús Manzano, reo confesso, che lo definisce dedito all’uso di sostante dopanti si aggiunge il tradimento della fidanzata danese Christina Jonsson, che al periodico L’Hebdo conferma le parole del ciclista iberico. Non fu tanto la sospensione a farlo crollare, furono le pugnalate che i giornali iniziarono a sferrargli alle spalle, furono le insinuazioni, fu la cattiveria. Avrebbe potuto partecipare al Tour De France ma una crisi depressiva non glielo permise.

Nella primavera del 2000 la sua preparazione appare talmente inadeguata da mettere in discussione la sua partecipazione al Giro a cui partecipa senza brillare. Sprazzi di luce li irradia al Tour. Anche quell’anno c’era un consistente ritardo da recuperare e sulle Alpi Pantani ci riprova. Esattamente dodici anni prima sul Mont Ventoux spirava Tom Simpson. Il 13 luglio 1999 Marco batte in volata Lance Armstrong. Lo statunitense lo teme, per questo lo stuzzica dichiarando di avergli lasciato la vittoria. Scalfito nell’orgoglio nella tappa di Courcheval, a 5 km dal traguardo, pianta Armstrong per andare a prendere Jimenez e lasciare il vuoto dietro di sé. L’ultima spiaggia risponde al nome di Col de Joux Plane: tra i suoi compagni di fuga però nessuno è disposto a collaborare e il sogno si arena.

Gli ultimi anni in sella sono sbiaditi. Lo smacco per l’esclusione della sua squadra per una manciata d’anni al Tour De France fu rincarata da una serie di processi legati alla giustizia sportiva i quali innescarono sempre maggiori sospetti sulla sua integrità. Per l’ennesima volta Marco tentò di lasciarsi tutto e tutti alle sue spalle ma ormai aveva perso quella lucidità, quella freschezza, quel furore che lo avevano spinto in cima alla montagna da cui vi ridiscese non più con la bandana da irriverente Pirata, non più con le sembianze di osannato Profeta, bensì sotto le spoglie di martire. Il 14 febbraio del 2004 viene trovato morto nella stanza D5 del residence “Le Rose” di Rimini.

La fiaba di Marco Pantani finisce così, come era avvenuto per la nascita, distante dalle montagne, bensì sul mare. Su quelle vette sarebbero rimasti una serie di ricordi grandiosi, indelebili; mentre nel cuore, negli occhi di chi ha assorbito quelle emozioni ha preso forma l’immagine di un uomo che aveva accettato la sfida delle stelle: era una battaglia impari ma con talento e dignità alla fine quegli astri li sedusse. Ad annientarlo fu la viltà degli uomini.

16 Jul 2000: Marco Pantani of Italy and the Mercatone-Uno team climbs to the finish to win Stage 15 between Briancon-Courchevel during the 2000 Tour De France, France. Mandatory Credit: Tom Able-Green/ALLSPORT