Rodolfo Valentino, un sogno ad occhi aperti

Alla fine del 1800 Castellaneta era un semplice paese in provincia di Taranto arroccato su una gravina vertiginosa da una parte e scivolante verso la piana e il mare dall’altra. Nel tempo sarebbe divenuta la città del mito e questo perché il 6 maggio del 1895 vi nacque Rodolfo Pietro Filiberto Raffaello Guglielmi, alias Rodolfo Valentino, l’uomo che in una Hollywood dove il cinema era ancora una questione di volti e movenze avvolte nel silenzio stravolse i canoni della bellezza classicamente intesa, con il suo fascino esotico, travolgente, lo sguardo intenso, magnetico, tenebroso.

Di famiglia benestante, Rodolfo era il terzo di quattro figli di Giovanni Guglielmi – un veterinario ex capitano di cavalleria originario di Martina Franca nonché studioso di araldica – le cui ricerche lo persuasero di essere imparentato con alcuni nobili papalini spingendolo ad aggiungere al cognome il titolo di Valentina D’Antonguella – e di Marie Gabrielle Bardin, una francese, dama di compagnia della marchesa del luogo. Frequentò le elementari nella città natale per poi proseguire gli studi a Taranto, dove si era trasferito con genitori e fratelli in un appartamento in via Massari 16, appartenente a un noto tappezziere della città che, essendo il migliore amico del padre, continuerà a offrire supporto alla famiglia anche dopo l’improvvisa morte di quest’ultimo. Ciò non impedirà a Rodolfo di vedersi dirottato in un collegio di Perugia, ossia l’ONAOSI, il quale si assumeva la responsabilità di offrire assistenza agli organi bisognosi. Deriso dai compagni per l’accentuata forma a punta delle sue orecchie, dopo tre anni Rodolfo venne radiato a causa della sua indisciplina. Respinta la sua domanda d’ingresso all’Istituto Nautico di Venezia a causa di problemi alla vista, ripiegò sulla scuola agraria Genova, dove si diplomò per infine tornare a Taranto.

Vi rimase poco. Convinta la madre, Rudy partì per Parigi dove studiò danza e, seppur per un breve periodo, entrò in contatto con quegli ambienti chic ed esclusivi di cui già aveva sentito parlare dalla sorella di Domenico Savino, un musicista tarantino che anni prima era partito per l’America in cerca di fortuna. Fu per via di questa conoscenza che, decisosi a seguire i propri sogni di gloria – seppur non ancora ben focalizzati – nell’inverno del 1913 Rodolfo si imbarcò sul mercantile Cleveland alla volta di New York, che raggiunse il 23 dicembre dello stesso anno. Con pochi soldi in mano ed ancor meno esperienza in qualsiasi ambito artistico si mantenne facendo prima il cameriere, poi il giardiniere, fino al giorno in cui Savino gli regalò un tight e gli procurò un appuntamento al Night-Club Maxim dove venne assunto come taxi dancer, ossia una sorta di partner a pagamento per balli di coppia.

Rodolfo Valentino e la sua seconda moglie, Natacha Rambova

Dimagrì e, consapevole di non possedere un lessico sufficientemente ampio, investì tutto sé stesso anziché sulle parole, sullo sguardo. La prima su cui fece colpo fu Bonnie Glass, una ballerina piuttosto in voga che si era da poco separata dall’attore Clifton Webb e che lo ingaggiò per far coppia con lei nei vari spettacoli della sua tournée alla cifra di 50 dollari a settimana. Fu poi compagno di Joan Sawyer, un’altra ballerina con cui lavorò sei mesi e che lo mise in contatto con l’impresario di una compagnia teatrale di operetta i cui show si svolgevano principalmente la zona di San Francisco. Consapevole che a New York non avrebbe potuto aspirare ad altro che essere il partner di qualche divetta – anche perché in tutti i film a cui partecipò come comparsa non fu nemmeno mai accreditato – si spostò sulla costa occidentale per lì essere ingaggiato in qualche pellicola senza troppe pretese nei cui titoli di coda a volte era presentato come Rudolph de Valentino, altre come Rudolph Valentino. Dopo un lungo periodo di depressione conseguente alla morte della madre, Rodolfo conobbe Jean Acker, un’attrice che viveva tra Los Angeles e San Francisco con cui si sposò il 5 novembre del 1919 per essere lasciato, dopo circa due settimane, in quanto la donna era l’amante di Alla Nazimova – alla quale in una lettera specificò che il matrimonio non era mai stato consumato.

Una cosa era certa: all’alba degli anni ’20 Rudy altro non era che uno scoraggiato, oltre che squattrinato, 25enne e considerò l’ipotesi di tornare in Italia; non fosse che Norman Kelly – che aveva conosciuto anni prima a New York – lo convinse a seguirlo ad Hollywood, dove quest’ultimo lavorava saltuariamente in qualche produzione. Presentatosi alla Metro Pictures Corporation come Rodolfo Valentino determinante per la sua carriera fu un  incontro casuale con June Mathias, un’esperta sceneggiatrice che stava curando la stesura di “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, tratto dal romanzo di Vicente Blasco Ibáñez. Dopo aver consigliato come regista Rex Ingram, impose letteralmente Rodolfo per il ruolo di Julio Desnoyers sostenendo che: «se caratterizzato, possiede un fascino che esce dallo schermo». Fu così che nel 1921 interpretò “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”. Il conturbante tango eseguito con Beatrice Dominguez gli garantì il successo che sognava da ormai otto anni. Gli oscuri meccanismi che scandiscono la feroce giungla Hollywoodiana fecero sì che dall’oggi al domani Rodolfo divenisse, oltre che il primo divo, un simbolo per la moda, in quanto presero forma gli “abiti alla Valentino” così come gli “stivali alla Valentino”; per il look grazie ai “capelli alla Valentino”, ma soprattutto spopolò lo “sguardo alla Valentino”.

Nello stesso anno Rodolfo Valentino recitò anche in “Uncharted Seas”, in “La commedia umana” e soprattutto, sempre in base agli ordini di June Mathias,  in “La signora delle camelie” dove a interpretare Marguerite Gautier fu Alla Nazimova, proprio colei che aveva catturato il cuore della sua prima moglie. Pare che Rudy soffrì molto la personalità della sua “rivale” che, considerata una sorta di entità incontestabile per la Metro, non perse occasione per umiliarlo. Il film riscosse comunque un grande successo e dietro alle quinte Rodolfo Valentino ebbe modo di conoscere Natacha Rambova, di origine russa al pari della Nazimova, apprezzata nell’ambiente per le sofisticate scenografie e i costumi sgargianti da lei disegnati, ma anche temuta per il carattere ambizioso e le tendenza manipolatrici. Mano nella mano, si spostarono sul set di “Lo sceicco” – che ne mitizzò l’icona di seduttore latino -; dopo di che convolarono a nozze in una chiesa di Los Angeles. Otto giorni dopo Rudy venne però arrestato con l’accusa di bigamia in quanto una legge californiana obbligava i divorzianti a non risposarsi prima di un anno dalla sentenza di divorzio.

Graziato per intercessione della Paramout, che lo aveva soffiato dalla Metro allettandolo con una cifra impossibile da rifiutare, venne scritturato per quattro pellicole: “Il mozzo dell’Arbatros”; “Il giovane Rajah”; “Sangue e arena” – tratto da un altro romanzo di Ibáñez per dar vita al torero Gallardo in un’opera intrisa di fatalità e morte -; “L’età di amare” – in cui divise la scena con Gloria Swanson; “Monsieur Beaucaire” e “Notte Nuziale”. All’apice della fama, nel 1925 Rodolfo Valentino venne quindi ingaggiato dalla United Artists tra le cui tante note, passate inosservate alla firma del contratto, vi era il tassativo divieto della Rambova di intervenire sulle scelte artistiche del marito. Non paga dall’aver ridotto in briciole il primo matrimonio, Alla Nazimova fu artefice anche della fine del secondo. Vuoi per quella mai digerita estromissione nella sfera lavorativa, vuoi perché Natacha era una spiritista dichiarata, oltre che lesbica inconfessata, sarebbe presto sorto il giorno in cui preferì continuare a compiere le sue ricerche come egittologa sponsorizzata dalla Nazimova anziché «fingere di essere la moglie di Valentino».

Non erano ancora terminate le riprese di “Cobra”, che non solo la loro unione si sciolse, ma tra i corridoi di quel sadico tritacarne in cui poteva trasformarsi in ogni momento Hollywood si sparse la voce di un’amicizia un po’ troppo intima tra il più presunto che vero latin lover e il suo truccatore personale Giorgio Rea. Si sarebbe parlato anche di relazioni omosessuali con il regista Rex Ingram e i colleghi Paul Ivano e Andé Daven al punto che, per coprire le chiacchiere, Rodolfo Valentino venne portato di peso in uno studio di registrazione per incidere un disco insieme a Pola Negri. Furono smerciati come la “coppia del momento”, ma nemmeno l’ottima performance di Rudy in “L’aquila nera” – dove per la prima volta venne diretto da un regista di peso quale Clarence Brown – distolse la stampa dall’accanirsi contro quel «modesto attore extracomunitario, corruttore dei costumi, dalla sessualità ambigua»; come scrisse un giornalista del Chicago Herald Examiner.

Appena 31enne, nel 1926, Rodolfo Valentino viveva segregato nella sua sfarzosa villa di Beverly Hills circondata da un parco di sei ettari e da lui ribattezzata il “Nido del falco”. ne uscì solo per girare “Il figlio dello sceicco”. Uscì nelle sale il 6 settembre del 1926, ma Rodolfo Valentino non riuscì mai a vederlo. Il 23 agosto, venne ricoverato al Polyclinic Hospital di New York per un malore, inizialmente attribuito a un’ulcera gastrica – di cui soffriva da anni – ma in seguito riconosciuto come dovuto a un’attacco di appendice sfociato in peritonite. Sottoposto a intervento chirurgico d’urgenza, tutto si rivelò inutile e alle 12:10 del 23 agosto 1926, Rodolfo Valentino morì.

Siccome ad Hollywood parve inaccettabile che un simbolo simile si fosse spento a causa di banalissima infiammazione delle viscere; venne diffusa la menzogna che morì avvelenato dal fosforo versato in una coppa di champagne da un rivale o una donna gelosa. Si trattò semplicemente di una delle ultime menzogne confezionate per rendere intramontabile un mito la cui scomparsa provocò scene d’isteria collettiva senza eguali nella storia del cinema. Seguirono infatti  le onoranze funebri più sensazionali mai viste; basti pensare che le vetrate della sala mortuaria vennero sfondate e solo l’intervento della polizia ristabilì una parvenza di ordine. Anche la stampa improvvisamente si addolcì e scrisse che il giorno del suo funerale vi furono una trentina di suicidi – probabilmente nessuno legato alla sua morte, ma questo aspetto era quanto mai un fattore secondario -. Il 30 agosto vennero organizzati due cortei funebri, uno appunto a New York, l’altro a Hollywood. Si disse che la Big Apple rimase congestionata per due giorni, così come si diffuse la notizia che una corona nera fosse stata inviata da Mussolini stesso – mentre fu una trovata dell’impresario delle pompe funebri e lo stesso valse per quindici giovanotti in camicia nera -.

Rodolfo Valentino non poté riposare in pace nemmeno quando le sue spoglie vennero tumulate nel Mausoleo della Cattedrale all’Hollywood Memorial Park di Los Angeles. Contrariamente alla prima moglie, Jean Acker – che trovò nella splendida attrice Chloe Carter la compagna della vita e rifiutò di rilasciare dichiarazioni su Rudy fino al 1978, quando scivolò nel sonno eterno-; Natasha Rambova speculò per più di quarant’anni sulla figura dell’ex pseudo compagno affermando di essere quotidianamente in contatto con il suo spirito. Vi fu poi una misteriosa donna, velata di nero, che continuò a depositare un mazzo di fiori sulla sua tomba ogni anniversario della morte, fino al 1974. Negli anni ’60 emerse dal nulla un diario, la cui scrittura pareva effettivamente essere quella del divo, in cui non vi si scorse traccia di amori femminili, mentre gli ingentissimi debiti resero necessaria la vendita all’asta del “Nido del falco” che, dopo essere passato da un proprietario all’altro, sarebbe infine stato demolito nel 2006.

Il cerchio però, non si sarebbe mai chiuso. Aspirava alla gloria, Rodolfo Valentino, allo tempo stesso però, non era un calcolatore e senza dubbio si ritrovò schiacciato sotto al peso di una celebrità feroce, ingombrante, che mai avrebbe pensato di ottenere. Non possedeva quella scaltrezza, quella superficialità, quell’arrivismo sfrenato da permettergli di sgomitare senza preoccuparsi di chi aveva intorno, di calpestare i propri simili, di lasciarsi alle spalle quelle amarezze che lo avevano segnato e al tempo stesso sospinto verso una fama che non riuscì mai a visualizzare, a capire con chiarezza. Piuttosto che presenziare alle feste preferiva trascorrere le serate nella sua biblioteca dove spiccavano volumi in latino, francese, spagnolo, inglese antico, greco, russo e naturalmente italiano e ancor più che diventare attore, avrebbe voluto essere ricordato come poeta. A renderlo immortale furono appena sei, per non dire cinque film, tutti girati tra il 1921 e il 1926. Dopo aver tanto tribolato nelle retrovie, entrò nell’immaginario collettivo a passo di tango e, come per incanto, iniziò a essere idolatrato.

Avvenne per caso, così come senza un perché Hollywood gli si rivoltò contro. Non fosse morto così tragicamente e tanto giovane, il suo ciclo si sarebbe probabilmente esaurito in breve tempo, senza troppo rumore. L’avvento del sonoro, l’impellente lancio di nuovi volti e l’inevitabile invecchiamento, che già ne stava minando la prorompente fisicità, avrebbero forse ridimensionato la sua figura e ora il nome di Rodolfo Valentino riposerebbe, sospeso, in una dimensione lontana. L’oblio l’avrebbe inghiottito, senza melodrammi, serenamente.

Tutto sarebbe finito semplicemente, come i versi di una sua poesia:

Sarei veramente felice 

se i miei sogni ad occhi aperti

ti dessero, leggendoli, le stesse emozioni

che ho avuto io scrivendoli