Roman Polanski, l’uomo braccato dalla morte

«La morte raggiunge anche l’uomo che fugge»; scrisse Orazio. Eppure, la fuga, sia essa per scelta o imposizione, è uno tra gli espedienti narrativi più inflazionati, più abusati; e questo perché è essa stessa metafora; in quanto una fuga chiude un ciclo, prefigura nuovi orizzonti, delinea un punto interrogativo, spesso destinato a rimanere irrisolto. Ryszard Liebling, scultore e pittore polacco di origine ebraica, e la moglie Bula Katz-Przedborska, una casalinga russa anch’ella di famiglia ebraica seppur convertitasi al cristianesimo quando aveva dieci anni; fuggirono dalla Polonia all’alba degli anni ’30 per cercare fortuna in Francia. Si lasciarono la miseria alle spalle e il 18 agosto del 1933 Bula diede alla luce Rajmund Roman Liebling. Non fecero in tempo a farsi accettare in una Parigi tutto sommato ostile che, tempo tre anni, il crescente antisemitismo diffusosi, persuase i coniugi a fare ritorno a Cracovia. Non bastò. L’invasione nazista determinò l’internamento della famiglia Liebling nel ghetto della città a cui seguì la deportazione di Bula nel campo di sterminio di Auschwitz e quella di Ryszard a Mauthausen; seppure non prima di organizzare il salvataggio del figlio versando una consistente somma di denaro a una famiglia cattolica che avrebbe dovuto dargli rifugio. Quel bambino, presentato come Roman Polanski, venne poi ceduto a dei contadini cattolici presso i quali rimase fino alla liberazione della Polonia. Era il 1 agosto del 1944. Sua madre non c’era più, mentre suo padre sarebbe tornato, seppur irrimediabilmente cambiato, come d’altronde, cambiato lo era Roman, non più bambino da tempo, eppure non ancora uomo, bensì un’ombra braccata dalla morte.

A guerra finita Roman si iscrisse alla Scuola di Cinema di Lodz dove studiò recitazione e regia per quindi uscirne diplomato nel 1959. Nell’arco di quegli anni recitò in diciassette progetti, tra cui cinque lungometraggi diretti da Andrzej Wajda, e diresse dieci cortometraggi. Il primo dei suoi short film, “Rower” è datato 1955 e venne ispirato da una vicenda semi-autobiografica: narra infatti di un appassionato di ciclismo che segue un presunto venditore di biciclette in un luogo isolato, per essere da questi malmenato e derubato. È esattamente ciò che avvenne a Roman Polanski, seppure il criminale – che aveva lasciato il futuro regista in un vicolo privo di sensi e con il cranio fratturato – fu arrestato dalla polizia per quindi essere giustiziato per tre precedenti omicidi. 

Nel 1959 trova anche il tempo di sposare l’attrice connazionale Barbara Las, dalla quale divorzierà tre anni dopo, nel 1962, poco prima di iniziare le riprese del suo esordio alla regia con “Il coltello nell’acqua”; la cui trama è incentrata sulla rivalità verbale, psicologica, ma anche fisica che si innesca tra un giornalista sportivo e un giovane autostoppista allo scopo di dimostrare alla moglie del professionista la propria virilità e superiorità: il tutto nel spazio ristretto e sospeso di una barca. Quest’opera – la prima di marchio polacco a non avere come tema la guerra – contiene molte delle tematiche claustrofobiche che avrebbero segnato la carriera di Roman Polanski e, nonostante il mancato apprezzato in Patria a causa dell’assenza di redenzione sociale, godette di un certo successo in Occidente, sino ad ottenere la candidatura al premio Oscar come miglior film straniero; poi vinto da Federico Fellini con “8½”.

Roman Polanski e Catherine Deneuve sul set di “Repulsion”

Emigrato in Francia, nel 1964 venne contattato per realizzare un segmento dal titolo “La collana di diamanti; al film collettivo “Le più belle truffe del mondo”. Seppur nato sul suolo francese, Roman intuì ben presto la scarsa propensione a supportare un autore straniero, così decise di spostarsi in Gran Bretagna dove iniziò la sua collaborazione con Gerard Brach con cui sceneggiò “Repulsione” – thriller psicologico che si regge sulle nevrosi di una splendida estetista interpretata da Chaterine Denevue -; “Cul-de-sac” – commedia tragicomica basata sul rapporto surreale che si instaura tra una coppia annoiata ed un criminale in fuga-; e “Per favore non mordermi sul collo” – parodia del film di vampire che vede protagonista Sharon Tate che nel 1968 sarebbe diventata la seconda moglie del regista.

La buona accoglienza riservata a queste pellicole, aprì a Roman Polanski le porte degli Stati Uniti dove nel 1968 girò uno dei suoi film più celebri e, con il senno di poi, maledetti: “Rosemary’s Baby”. Basato sull’omonimo romanzo di Ira Levin e con protagonisti Mia Farrow e John Cassavetes, “Rosemary’s Baby” è un incubo a occhi aperti che racconta la storia di una giovane donna offerta al diavolo dallo stesso marito affinché possa dargli un erede, l’anticristo, in cambio del successo. Nominato agli Oscar come miglior sceneggiatura non originale, sarà invece Ruth Gordon – che si immedesima nell’oscura vicina d’appartamento – a vincere l’ambita statuetta e il Golden Globe come miglior attrice non protagonista. A Polanski e a Mia Farrow andrà invece un David di Donatello, l’uno come miglior regista straniero, l’altra come miglior attrice straniera.

La morte tornò ad abbattersi nella vita di Roman Polanski nel 1969. Se a gennaio il suo compositore Krzysztof Komeda perse la vita in un banale incidente sciistico; il 9 agosto, la setta guidata da Charles Manson fece irruzione nella villa al 10050 Drive, sita sulle colline di Bel Air, a Los Angeles, e affittata da febbraio dal regista e dalla moglie. In quei giorni Polanski era a Londra; mentre nella casa si trovavano Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza, l’attore polacco Wojciech Frykowski, l’attivista Abigail Folger, il parrucchiere Jay Sebring e un venditore porta a porta, amico di tutti loro, Steven Parent. Furono tutti brutalmente assassinati. Devastato da quanto avvenuto, Polanski cadde in depressione e nell’arco dei successivi due anni, si limitò ad accettare un piccolo ruolo in una commedia satirica, “The Magic Christian”, ed a scrivere con e per la regia di Gérard Brach un film passato inosservato, “La barca sull’erba”.

Tornato dietro alla macchina da presa con l’adattamento della tragedia Shakespeariana “Macbeth”, impersonato da Jon Finch, la cui caratteristica preponderante può essere individuata nel gran numero di scene macabre ed i toni estremamente cupi. L’anno successivo tornò ad occuparsi di una commedia grottesca, di nuovo scritta a quattro mani con Brach e girata ad Amalfi, nella villa di Carlo Ponti e con protagonisti Marcello Mastroianni e Sydne Rom, per adattamento molto libero del “Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, dal titolo “Che?”. Come aveva già fatto in “Repulsion” e in “Per favore non mordermi sul collo”, anche in “Che?”, Roman si dedica un piccolo ruolo. Non solo, il desiderio di tenersi impegnato, in modo da evitare crisi perennemente in agguato, lo spingeranno poi ad aiutare l’amico Frank Simon a realizzare un documentario, “Weekend of a Champion”; sul pilota di Formula uno Jackie Stewart di cui vennero raccontate le sue giornate in occasione del Gran Premio di Monaco, tra pista, paddock e hotel.

Al 1974 risale un suo altro enorme successo: “Chinatown“. Un detective story con atmosfere fumose, magistralmente interpretato da Jack Nicholson, John Huston e Faye Dunaway – oltre a lui stesso nella parte di “l’uomo col coltello”; che ottenne ben undici nomination ai Premi Oscar, compresa miglior regia, vincendo però solo come miglior sceneggiatura originale. A una brillante carriera Hollywoodiana, Roman Polanski preferì però la quiete francese in quanto scelse Parigi per girare “L’inquilino del terzo piano” dove egli stesso veste i panni un uomo che va a vivere in un appartamento dove l’inquilina precedente si era tolta la vita buttandosi dalla finestra per quindi immergersi in un tunnel di follia. A completare il cast sono Isabelle Adjani, Melvyn Douglas e Jo Van Fleet e che rappresenta la chiusura ideale della cosiddetta “Trilogia dell’appartamento,” iniziata undici anni prima con “Repulsione e proseguita con “Rosemary’s baby.

Mia Farrow, John Cassavetes e Roman Polanski sul set di “Rosemary’s Baby”

Tornato negli Stati Uniti ed invitato da Jack Nicholson ad una festa nella sua villa di Los Angeles, venne in seguito accusato di “violenza sessuale con l’ausilio di sostanze stupefacenti” ai danni di una modella tredicenne, Samantha Geimer. L’avvocato della ragazzina propose un patteggiamento, in modo che la minorenne non dovesse deporre davanti al tribunale e, siccome tanto il Pubblico Ministero, quanto l’avvocato difensore di Polański, si dissero d’accordo; l’accusa venne ridotta al solo capo di “rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne”, del quale il regista si dichiarò colpevole. A causa dell’età della vittima, Roman Polański fu punito con novanta giorni da scontare nella prigione californiana di Chino. Rilasciato dopo quarantadue con una valutazione che consigliava una pena detentiva con la condizionale; quando emerse che il giudice non avrebbe seguito la proposta, il regista fuggì prima a Londra e poi a Parigi. Ad ogni modo, quel “rapporto borderline” costituisce una macchia che grava sul regista; il quale tuttora evita l’ingresso negli Stati Uniti nonché negli stati dai quali può temere l’estradizione.

Queste vicissitudini rallentarono la realizzazione di “Tess”, uscito nel 1979 e tratto da “Tess dei D’Urbevilles”, romanzo che Sharon Tate stava leggendo prima di morire e sulla cui terza di copertina aveva annotato che vi sarebbe potuto ricavare un ottimo film. Nonostante la dispendiosa produzione e la lunga durata, la pellicola ebbe una buona risposta sia da parte del pubblico che della critica e non solo Polanski si aggiudicò il Premio César come miglior film e miglior regia – categorie per cui ottenne anche le candidature agli Oscar – durante le riprese iniziò a frequentare la giovane protagonista, Nastassja Kinski, dando inizio a una relazione che gli permise di ritrovare una parvenza di tranquillità e di allontanamento dal mondo del cinema.

Il ritorno alla regia risale al 1986; ma il desiderio di omaggiare i film di “cappa e spada” con Erroll Flynn, tramite “Pirati”, con Walter Matthau, si risolse in un flop madornale. Polanski chiude la saracinesca sugli anni ’80 con “Frantic”, angosciante thriller parigino con Harrison Ford e la sua terza moglie, Emmanuelle Seigner; la quale sarà protagonista anche dell’opera seguente, portata a termine nel 1992: l’erotico “Luna di fiele”. Tempo una manciata d’anni e si lascia dirigere da Giuseppe Tornatore nel raffinatissimo “Una pura formalità”, dove duetta con Gerard Depardieu in un appassionante confronto tra un ispettore di polizia e un presunto omicida; per quindi firmare la regia di “La morte e la fanciulla”, con Sigourney Weaver e Ben Kingsley impegnati in un complesso rapporto fra un aguzzino di un non identificato regime militare sudamericano e la sua vittima. Tra il 1996 e il 1997 è autore di un videoclip perfetto per un brano di Vasco Rossi, ossia “Gli angeli”, e torna a occuparsi di teatro dirigendo a Vienna “Tanz der Vampire”, adattamento sul palcoscenico del suo “Per favore, non mordermi sul collo!”. Si tratta di una parentesi presto archiviata, dato che nel 1999 torna sulla cresta dell’onda con “La nona porta”, thriller in cui torna a chiamare in causa il Diavolo enfatizzando le doti di Johnny Depp, di Lena Olin e della “solita” Emmanuelle Seigner.

Roman Polanski e la sua terza moglie, Emmanuelle Seigner – (AP Photo/AJB)

Il culmine della carriera di Roman Polanski si compie forse con “Il pianista”; capolavoro basato sull’autobiografia del pianista ebreo/polacco Wladyslaw Szpilman, che ha diversi punti in comune con la storia personale del regista: pure lui infatti sopravvisse a un ghetto polacco e ai campi di concentramento dove la sua famiglia perse la vita. Nella parte di Władysław Szpilman spicca Adrien Brody, vincitore agli Oscar come miglior attore protagonista, come Ronald Harwood vincerà come miglior sceneggiatura non originale e, finalmente, dopo aver ottenuto la Palma dopo al Festival di Cannes, Roman Polanski stringerà in pugno la statuetta come miglior regista – che sarà ritirata da Harrison Ford a causa del mandato di cattura ancora pendente -.

Lasciatosi alle spalle un fresco adattamento di “Oliver Twist”; nel 2009 viene arrestato in Svizzera sempre per via del mandato di cattura internazionale finché, una volta rilasciato può battere il ciak sul set di “The Ghost Writer”, inquietante thriller con un ottimo Ewan McGregor circondato da colleghi del calibro di Pierce Brosnan, Olivia Williams, Kim Cattrall, Timothy Hutton, Eli Wallach e Tom Wilkinson. Nel 2011 Roman Polanski torna tra le mura di un appartamento con Carnage”, dove fa scontrare due coppie interpretate da Jodie Foster e John C. Reilly opposti Kate Winslet e Christoph Waltz, decisi a chiarirsi riguardo una lite avvenuta tra i loro figli. Roman Polanski torna quindi ad “orchestrare” la moglie nei suoi due ultimi film: in “Venere in pelliccia” in cui da vita a un riuscito dramma erotico che gli garantisce un altro César per la regia; e in “Quello che non so di lei” dove la Seigner da il volto a una scrittrice che dopo aver raggiunto il successo con il suo primo romanzo si ritrova colpita dal “blocco dello scrittore” e si tuffa in un’ambigua storia con la misteriosa Eva Green.

Viene da chiedersi se da bambino Roman Polanski si sia mai visto adulto, invecchiato; se avrebbe mai immagino che all’orrore di una madre vittima della follia nazista, si sarebbero aggiunti eventi altrettanto atroci, inspiegabili, con cui avrebbe dovuto convivere per il resto dei suoi giorni. Per quanto attirato dalle dinamiche più grottesche della comicità, i demoni avevano ormai preso dimora nella mente e nel cuore di Roman Polanski che, nel disperato tentativo di salvarsi, ha riversato nelle sue opere essenzialmente la propria natura, quella di un uomo cupo, tormentato, divorato da angosce inesprimibili da quanto sono profonde, radicate nella sua essenza. Finché quel passato che avrebbe distrutto qualsiasi rapporto lo ha saldato a una donna che è diventata la sua musa, la madre dei suoi figli, un’icona da lasciare ai posteri, al di là del giorno in cui quella morte, che da sempre lo insegue, lo prenderà, senza però mai riuscire a portarlo via fino in fondo.