Coco Chanel, la donna che si impose sul destino

Quando nacque la sua seconda figlia, Albert stava girovagando, di mercato in mercato, tra i paesini incastonati sui monti dell’Alvernia, dove la natura domina tutto, tra picchi montuosi, foreste, laghi e persino qualche massiccio vulcanico i cui crateri profondi sono testimoni delle violente collere di un tempo. Schiacciato non solo dalla potenza di quei paesaggi, Albert era un uomo sconfitto dalla vita: già padre di una bambina; si era venduto a Eugénie Devolle, detta Jeanne, quale commerciante anziché ambulante di biancheria intima e quella menzogna più o meno innocente si trasfigurò in avidità quando i genitori della ragazza gli offrirono una somma di denaro affinché la sposasse per evitare lo scandalo di due figlie “senza padre”. La realtà prese forma attraverso la perenne assenza dell’uomo e la necessità della donna di lavorare, nonostante la salute cagionevole, come lavandaia presso l’ospedale di beneficenza gestito dalle Sorelle della Provvidenza a Saumur. E fu lì, in una misera abitazione adiacente all’ospizio dei poveri che il 19 agosto del 1883 Jeanne diede alla luce Gabrielle. Troppo debole per presenziare alla registrazione della bambina, all’anagrafe storpiarono il cognome di Gabrielle in “Chasnel”. Un errore a cui nessuno pensò di rimediare, almeno finché Gabrielle non divenne Coco; al che, quel “Chasnel”, venne corretto in Chanel.

Alla morte di Jeanne i figli erano diventati cinque e il solo pensiero che attraversò Albert fu quello di scaricarli a Vichy, presso la casa di campagna in cui viveva la madre, quasi ottantenne. Tempo una decina di giorni e la nonna smistò i due maschietti presso un’azienda agricola che offriva persino un fienile come giaciglio per la notte; mentre affidò le tre sorelline alle suore della congregazione del Sacro Cuore, presso l’orfanotrofio di Aubazine. Superato il limite di età per restare in quella struttura di cui Gabrielle avrebbe sempre ricordato «la solennità, la rigidità e il freddo che entrava nelle ossa»; vennero tutte mandate preso una scuola di apprendimento delle mansioni domestiche, principalmente il cucito, indicata per le ragazze provenienti da situazioni familiari disastrate e nel cui futuro non c’era posto per ambizioni di nessun tipo. Da prassi, al compimento dei diciotto anni, Gabrielle venne assunta come commessa da un’attività collegata alla scuola, precisamente a Moulins, nel negozio di biancheria e maglieria Maison Grampayre.

Quel taglia e cuci però andava stretto a Gabrielle che intraprese una breve carriera come cantante presso un caffè-concerto locale dove, non solo leggenda vuole si guadagnò il soprannome di Coco – pare per via della canzone da lei portata in scena “Qui qu’a vu Coco?”, ma catturò il cuore di Étienne de Balsan; ex ufficiale di cavalleria divenuto allevatore di cavalli e giocatore di polo, nonché figlio di un imprenditore tessile specializzato nella produzione di panni per divise militari. Correva l’anno 1904 quando Étienne , di appena cinque anni più adulto, le propose di trasferirsi presso il suo castello, con annesso maneggio, a Royallieu, nel pittoresco bosco ci Compiègne. Incurante del contesto al limite del promiscuo – nel castello alloggiava infatti anche un’altra amante di Étienne, tale Emilienne D’Alençon – Coco Chanel cercò di assorbire quanto possibile da quell’esperienza che alla luce dell’infanzia poverissima le dovette apparire come un sogno ad occhi aperti e così, come in futuro si sarebbe percepita l’influenza degli annimonacali” – i quali le ispirarono «l’amore per il bianco e il nero» e «l’austerità» – altrettanto forte fu l’influsso della vita equestre che le suggerì un personalissimo utilizzo dei pantaloni da cavallerizza e di particolari cravattine lavorate a maglia. 

Ad ogni modo, nonostante Balsan non comprendesse il desiderio creativo di Gabrielle e la sua voglia di lavorare, ugualmente la assecondò mettendola nelle condizioni di iniziare l’attività di modista come creatrici di cappelli in un appartamento parigino, in Boulevard Malesherbes. In un’epoca in cui vigevano cappelli sontuosi, ricoperti di piume e impossibili da indossare senza un’elaborata struttura di sostegno, i cappellini di paglia di Coco Chanel, ornati da semplici fiori in raso o singole piume, scioccarono. La sua prima cliente fu proprio Emilienne D’Alençon, che sfoggiò la creazione di Gabrielle all’ippodromo di Longchamps. Al resto pensò Balsan, presentandola al giro dei propri amici, tutti estremamente influenti e appartenenti alla buona società francese; tra cui Arthur Capel, un giovane industriale di Newcastle impegnato nell’esportazione del carbone e apprezzabile giocatore di polo, destinato a diventare l’amore della vita di Coco.

Gabrielle Chanel e l’amore della sua vita Arthur “Boy” Capel

A differenza di Balsan, quel ragazzo «di giusto due anni in più, il cui spiccato senso per gli affari andava di pari passo con un cuore ingenuo» incoraggiò, consigliò e finanziò economicamente l’apertura della prima boutique di Chanel al 21 Rue Cambon di Parigi. Nonostante il divario sociale e l’opposizione da parte della dinastia Capel alla loro frequentazione, Coco e Boy si amavano sinceramente e venne persino il giorno in cui si palesò la possibilità di ufficializzare il tutto con un matrimonio ma, la sola possibilità affinché la famiglia di lui cedesse era rappresentata dalla rinuncia di Gabrielle di svolgere una qualsiasi occupazione e «per quanto straziante, il mio lavoro era l’unica scelta possibile».

Nel 1912, quando il negozio era già ormai avviato da due anni, Coco Chanel iniziò a vendere oltre agli ormai celebri cappellini anche capi di vestiario come maglioni, gonne e qualche abito. Ad avere l’onore di indossare il primo vestito firmato Chanel, fu Suzanne Orlandi. Si trattò di un abito in velluto nero ornato da un semplice colletto bianco, proprio perché Coco sosteneva che «il nero conteneva tutto. Nero e bianco sono d’una bellezza assoluta. È l’accordo perfetto». Il successo fu immediato, ma venne smorzato dalla morte improvvisa, avvenuta in circostanze ignote, della sorella maggiore, Julie. Un dolore a cui fece seguito la delusione di vedersi rifiutare l’affidamento del nipotino André perché a quei tempi la legge non permetteva a una donna non sposata di potersi prendere cura di un bambino che non fosse suo. Al 1913 risale invece l’apertura di un nuovo negozio, grazie sempre al supporto di Capel, nella località balneare di Deauville, sito tra il Gran Casinò e l’albergo più lussuoso del luogo, l’Hotel Normandie. Decisa di rifarsi alla vita delle persone comuni che la circondavano, per dare all’abbigliamento quella praticità che la Belle Époque aveva sostituito con bustini e corsetti; Coco Chanel si lasciò suggestionare dai marinai al lavoro, reinterpretando il loro abbigliamento, partendo dei maglioni col medesimo scollo.

L’ennesima svolta avvenne allo scoppio della prima guerra mondiale. Le famiglie più facoltose della Francia erano solite trascorrere il periodo estivo nella località costiera di Deauville, ma i presagi che portava con sé il primo conflitto, spinse la potenziale clientela a migrare verso la capitale.  Cruciale fu come al solito Capel che grazie i suoi giacimenti carboniferi rifornì gli Alleati andando in contatto con personalità influenti al punto da far parte dello Stato Maggiore di Sir John French ed essere nominato consigliere del primo ministro Georges Clemenceau; venendo di conseguenza a conoscenza di informazioni top secret. L’imminente chiusura della Chanel Modes venne così prontamente bloccata da Capel che suggerì a Coco di non interrompere l’attività dato che mentre gli uomini francesi si arruolarono – con la Germania in procinto di invadere la capitale francese -, le mogli fecero ritorno a Deauville, dove si impegnarono in opere di volontariato per assistere i feriti. Essendo l’unico negozio di abbigliamento rimasto aperto; Chanel offriva capi di vestiario che in quella situazione si presentavano pratici e adatti alle esigenze. Sull’onda del successo di Deauville, il 15 luglio 1915 Chanel Modes aprì anche sulla costa atlantica della Francia, a Biarritz, lontano dalle linee del fronte, al confine con la Spagna con cui iniziò un commercio a dir poco proficuo; basti pensare che uno dei cinque laboratori impegnava sessanta sarte impegnate esclusivamente a confezionare abiti per le ricche signore iberiche. L’ascesa proseguì nel 1916, quando Coco Chanel acquistò dall’industriale tessile Jean Rodier una partita di jersey lavorato a macchina, col quale iniziò a realizzare i suoi capi. Il desiderio di riscatto e l’irrefrenabile determinazione di Coco Chanel si cela tra le pieghe di un contratto sottoscritto per Rue Cambon, che prevedeva l’utilizzo del jersey solo se applicato come orpello per la vendita dei cappelli, abilmente aggirato dalla stilista che introdusse quel materiale pure nel settore dell’abbigliamento. 

Dati alla mano, a guerra terminata Chanel aveva ampliato il suo capitale a cinque laboratori capaci di offrire lavoro a 300 lavoratori. Fu in quegli anni che Gabrielle Chanel conobbe la moglie del magnate della stampa Alfred Edwards, la russa Misia Sert. L’incontro tra le due avvenne durante una serata organizzata dall’attrice Cècile Sorel e l’amicizia fu la conseguenza di un dono che non lasciò Misia indifferente: la giacca con cui Coco stava per lasciare la festa venne infatti elogiata dalla donna che un tempo era stata modella di Toulouse-Lautrec e Renoir, e Coco non perse l’occasione e gliela regalò, rendendosi protagonista di un gesto che l’avrebbe introdotta nel più importante salotto artistico-letterario di Parigi, dove poté conoscere Paul Morand, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Max Jacob e Igor Stravinsky.

Ormai acquisita una posizione di primo piano nel mondo della moda, nel 1918 Chanel rese a Capel la somma completa che le aveva prestato. Se le nozze dell’uomo con Diana Lister Wyndham non poterono sciogliere la stima, l’amicizia e l’amore che aveva continuato a unire Gabrielle a Boy; a spezzare tutto fu un incidente avvenuto in un tratto di strada tra Parigi e Cannes in cui perse la vita Capel, appena trentottenne. Era una donna inflessibile, assetata di gloria, ma non era un’ingrata Gabrielle Chanel che, appena ricevuta la notizia, nella notte tra il 22 e il 23 dicembre del 1919, partì verso il luogo della tragedia dove arrivò solo all’alba di tre giorni dopo. La carcassa dell’auto era ancora incastrata in un albero ai margini della strada e Gabrielle pare rimase ore a piangere seduta su una staccionata poco distante. Quando tornò a Parigi era irriconoscibile e una cosa è certa: quella perdita la indusse a buttarsi letteralmente a capofitto nel lavoro. Anche nel 1920 Coco soffrì per un altro lutto: partita col novello sposo argentino alla volta di Buenos Aires, la sorella minore, Antoinette, morì a causa di un’epidemia spagnola. Le rimasero quindi solo i due fratelli maschi: Alphonse e Lucien i quali però erano rudi nei modi da evocarle il padre in ogni loro espressione e dal momento del suo decollo finanziario Gabrielle non li volle mai più vedere, seppure mai rifiutò di aiutarli economicamente. 

I sentimenti che per un certo periodo legarono Coco al Granduca Dmitrij Pavlovic, cugino dello zar Nicola II, le garantirono un collegamento eccellente con Ernest Beaux, figlio del profumiere dello Zar, emigrato in Francia a causa della Rivoluzione russa, e insieme al quale mise a punto un profumo destinato a diventare leggenda: Chanel N°5. Correva l’anno 1921 e la fragranza era del tutto innovativa in quanto venne realizzato artificialmente, con molecole sintetiche, per dare vita a un profumo «che odora di donna, perché una donna deve odorare di donna e non di rosa». Quel numero 5, corrispondeva, si disse, alla quinta essenza scelta da Coco Chanel. In verità, era semplicemente il numero preferito di Gabrielle.

Per garantire al suo N°5 una distribuzione adeguata, nel 1924 Gabrielle entrò in società con i fratelli Paul e Pierre Wertheimer, proprietari della casa di profumi e cosmesi Les Parfumeries Bourjois, i quali acquistarono i diritti sulla produzione di profumi e prodotti di bellezza col marchio Chanel. In seguito alla fondazione della società e all’enorme successo dello Chanel Nº 5, Coco rivendicò i diritti sul suo profumo; senza però mai ottenere un incremento della sua percentuale iniziale, pari al 10%. Per quanto amareggiata, Gabrielle non mise mai in secondo piano il settore profumi ed al N°5 seguirono il N° 22 nel 1922; Gardénia nel 1925; Bois des îles nel 1926; Cuir de Russie nel 1927; Sycomore, Une idèe nel 1930; Jasmin nel 1932; Pour Monsieur nel 1955 ed il N19 nel 1970. Negli annali sarebbe rimasta la frase di Marylin Monroe: “What do I wear in bed? Chanel Nº 5, of course”.

La rivoluzione del concetto di femminilità messo in atto da parte di Coco Chanel fu studiato quanto frutto di svariati casi”. La moda del capello corto, ad esempio, fu lanciata dopo che Gabrielle si era bruciata accidentalmente i capelli su un fornello e non le rimase che adottare un taglio estremo; mentre l’interesse per il tweed scozzese invece fu innescato dalla frequentazione del duca di Westminster, Hugh Richard Arthur Grosvenor, noto come Bendor. Di fatto l’Exposition des Arts Décoraifs et Industriels Modernes tenutasi a Parigi nel 1925 segnò la disfatta dello stilista Paul Poiret, rivale di Coco: Chanel imponeva il nuovo stile la cui parola chiave era comodità, al contrario di Poiret che non seppe adeguarsi e il richiamo alla Belle Époque dei suoi capi segnò il tramonto della sua era. Ed a chi la accusò di aver attinto il proprio stile da quella povertà in cui era cresciuta replicò asciutta, di essersi solo «lasciata guidare dal genere umano».

Il 1926 sarebbe passato alla storia come l’anno del tubino nero, la petite robe noire, che la rivista statunitense Vogue dell’epoca elogiò. L’apertura di un negozio nel quartiere Mayfair di Londra, precedette di poco il trasferimento da Rue de Cambon 21, al numero 31, dove occupò ben tre piani. Il 29 ottobre 1929 l’America assistette al crollo di Wall Street e le ripercussioni europee si iniziarono a percepire all’alba degli anni ‘30. Chanel risentì della Depressione e su invito di Samuel Goldwyn partì alla volta di Hollywood, per un ingaggio come costumista. Già nel 1911 un suo cappello di paglia venne adagiato sul capo di Gabrielle Dorziat sulla scena di “Bel Ami” di Guy de Maupassant, così come nel 1922 aveva disegnato le tuniche di lana grezza decorate con motivi greci per l’”Antigone” di Cocteau e due anni dopo ancora avrebbe realizzato gli abiti per gli attori del balletto “Le train bleu”; ma il contratto sottoscritto con il produttore due volte premio Oscar prevedeva che Chanel creasse gli abiti per un altro mito vivente, Gloria Swanson, la quale tuttavia si rifiutò di legare il proprio nome esclusivamente alla stilista transalpina.

Rientrò a Parigi due anni dopo e fu allora, a partire dal 1934, che al posto dei pezzi di bigiotteria composta da pietre finte e collage di perle false che fino ad allora aveva abbinato ai suoi capi, propose alla sua clientela gioielli veri. Affiancata dai disegnatori Etienne de Beaumont e Fabio di Vedrura, Chanel espose le creazioni nella sua casa di Faubourg Saint-Honoré. La maison alla metà del decennio contava 20.000 dipendenti, 34 profumerie e realizzava 28.000 modelli l’anno. In mezzo a tutto questo trambusto trovò il tempo anche per dar vita a una relazione con Paul Iribe, un caricaturista basco, che morì nel 1935 mentre giocava a tennis sotto gli occhi di Chanel, che scioccata da quell’esperienza per combattere le sue insonnie, cominciò ad abusare di Sédol, un ipnotico a base di morfina del quale presto non si potrà più liberare e che avrebbe irrimediabilmente condizionato i suoi umori.

Con l’avvento della seconda guerra mondiale, Chanel chiuse il suo atelier adducendo al fatto che non fosse tempo per la moda. Il risultato fu che 4000 impiegate persero il loro lavoro e non è da escludere che Gabrielle ne approfittò per vendicarsi di quei lavoratori che, facendo pressioni per orari e stipendi più favorevoli, indissero uno sciopero generale nel 1936 in Francia, costringendola a chiudere temporaneamente il negozio. Nel chiudere il suo atelier, Chanel espresse un non troppo velato disprezzo per gli ebrei, acuito dalle sue affiliazioni con le elite sociali, persuasa che gli ebrei fossero una minaccia per l’Europa a causa del governo bolscevico dell’Unione Sovietica. Fuggita nel 1939 da una Parigi bombardata per farvi ritorno nell’agosto dell’anno seguente; il 5 maggio 1941 scrisse al governo d’occupazione nazista per farsi assegnare il controllo totale della Parfums Chanel, la cui amministrazione era tenuta da ebrei, e motivò la richiesta sulla base del fatto che l’azienda «è ancora proprietà di ebrei». Inoltre, in quegli  anni coltivò una relazione con una membro del controspionaggio nazista, il barone Hans Gunter von Dinklage, detto Spatz, per poi legarsi a uno dei giovani capi delle SS, Walter Schellenberg. Volevano servirsi degli agganci che lei aveva nell’ambiente inglese e in quello tedesco per mandare in porto una trattativa di armistizio con gli inglesi, escogitata insieme a Theodor Momm ed Heinrich Himmler. L’operazione, che prese il nome di Modellhut, prevedeva che la trattativa si dovesse svolgere in Spagna. Lì però l’accompagnatrice di Gabrielle, una certa Vera Bate Lombardi, la tradì denunciandola all’Intelligence come un’agente tedesca. In risposta le Forze Francesi dell’Interno arrestarono Chanel, proprio per le sue relazioni con spie nemiche; per essere infine rilasciata dopo un interrogatorio di tre ore. Fu uno smacco che la colpì nel profondo al punto da indurla ad esiliarsi in Svizzera per circa otto anni e dopo di che partire alla volta di New York.

 

Negli anni in cui Chanel si assentò dal panorama della moda, si affacciò con le sue stravaganti proposte Christian Dior, che nel 1946 aprì il suo salone a Parigi. La Francia esaltò quel “ritorno ai vecchi valori” contrariamente a Coco che quando vide Marie-Hélène de Rotschild, figlia di Edmond e Maggy van Zuylen, presentarsi ad un gala con un abito griffato Dior, sentenziò che il collega «addobba delle poltrone, non veste delle donne».Nel 1954, ormai quasi settantunenne, Chanel riaprì la sua maison e il 5 febbraio del 1954 si ripresentò al suo pubblico con una nuova collezione. La prima reazione dei critici francesi ai 30 modelli sfilati fu assolutamente negativa; ben presto però i consensi iniziarono ad arrivare dall’America e Chanel tornò ancora una volta di moda. La proposta di Chanel nell’anno della sua riapertura è il tailleur in tweed, con una gonna che riacquista un poco di lunghezza sotto il ginocchio, la giacca corta e i bottoni dorati. Nel 1955 Mademoiselle Coco ottenne un altro successo, dando vita ad un altro intramontabile accessorio firmato Chanel: la borsetta 2.55; caratterizzata da un innovativo design ispiratosi, nella pura tradizione Chanel, al guardaroba maschile e dove per dare volume alla sua pochette prese esempio dalle giacche che gli stallieri indossavano agli ippodromi. Seguì la borsa matelassé – ovvero trapuntata – che presentava l’aggiunta di una tracolla consistente in una catenella di metallo, intrecciata al cuoio.

Nel 1957 Christian Dior morì vittima di un collasso mentre si trovava a Montecatini. Qualche giorno dopo Coco Chanelsi recò a Dallas per ricevere il Neiman-Marcus Award, l’Oscar della moda. L’attesa di un discorso strappalacrime fu smentito da poche parole, al limite dello spiazzante per una icona glamour: «non merito tanta importanza, io sono una semplice sarta». già con lo sguardo rivolto verso gli anni ’60 e al debutto del sandalo bicolore, realizzato per lei dal calzolaio francese André Massaro; a differenza della sua contemporanea, Elsa Sciantarelli – che si fece influenzare dalla corrente surrealista e dallo stile di Poiret – Chanel rimase scollegata dalle tendenze e dalle mode del momento; imponendo la sua esclusività, il suo essere Coco Chanel. 

Gabrielle Chanel nella suca camera al Ritz di Parigi

Si spense nella notte del 10 gennaio del 1971, in una camera dell’Hotel Ritz di Parigi. A tenerle la mano, a udire quelle sue ultime parole «è così che si muore» ma forse era una domanda e non un’affermazione – fu la sua cameriera. Venne sepolta a Losanna, sotto cinque teste di leone, finalmente pronta a ricongiungersi con quei morti che avevano attraversato, influenzato, deviato, magnificato la sua vita. Lasciò il suo patrimonio alla fondazione Coga, creata nel 1965 a Vaduz; mentre la maison venne gestita dai suoi assistenti Gaston Berthelot, Jean Cazaubon e Yvonne Dudel; i quali nel 1978 passarono il testimone a Philippe Guibourgè, che venne sostituito da Ramone Esparza nel 1980; finché nel 1983 esattamente nel centenario della nascita della sua fondatrice venne affidata a Karl Lagerfeld.

L’intramontabilità dello stile Chanel si è fusa con la genialità dello stilista tedesco il quale ha attualizzato l’azienda introducendo importanti innovazioni e lanciando nuove linee, mentre la famiglia Wertheimer si è occupata di creare nuove società per differenziare la produzione Chanel, spaziando dalla cosmesi alla gioielleria. Se negli anni ’90 Lagerfeld eresse a simbolo di Chanel tre modelle diametralmente opposte quali Claudia Schiffer – a sostegno di una bellezza candida e rassicurante -, Kate Moss – affinché ne enfatizzasse le caratteristiche primitive e selvagge – e Linda Evangelista – portatrice di quella che definì «la bellezza assoluta»; negli anni avrebbe deciso di far evaporare il divismo «di quegli anni impossibili da riproporre» – che coinvolgeva nella campagne pure Catherine Deneuve e Nicole Kidman – per fare spazio a volti moderni – come quelli di Keira Knightley e Lily-Rose Deep -, o androgini come Cara Delevingne e soprattutto Kristen Stewart.

Karl Lagerfeld e Kristen Stewart

Affascinato dalla bellezza fuori dagli schemi di Kristen Stewart, nel dicembre del 2015, Lagerfeld la dirige in un cortometraggio dal titolo “Once and Forever dove l’attrice statunitense veste i panni di Coco Chanel, per quindi riutilizzarla nella primavera del 2016 in due film brevi, in bianco e nero, intitolati “Paris in Rome” per anticipare l’imminente collezione. «Decisi di essere chi volevo essere ed è quello che sono»; spiegò Coco Chanel poco prima di morire. Parole che si sposano con il carattere anticonformista e ribelle di Kristen Stewart, divenuta testimonial della nuova fragranza che prende il nome “Gabrielle”, ideato da Oliver Palge in collaborazione con il Laboratoire Parfums Chanel; per dar vita a un profumo solare, immaginato intorno a quattro fiori bianchi – il gelsomino, l’ylang-ylang, il fiore d’arancio e la tuberosa di Grasse – ispirato a Gabrielle, la donna che fu Coco Chanel ancora prima di fondare la sua Maison: una donna rivoluzionaria, carica di passione, libera. 

La grandezza del marchio Chanel è pure questo: essere sopravvissuto al tempo grazie a una serie di scelte, di coincidenze, di fatalità che sono state un tutt’uno con l’esistenza della sua creatrice. Gabrielle Chanel non diede solo una svolta al mondo della moda; sfidò il mondo rappresentando un nuovo modello femminile: quello di una donna dinamica, che lavorava e che non poteva più essere schiava dell’abbigliamento costrittivo della Belle Époque. Diede a quella nuova donna il vestito giusto. Portò la lunghezza delle gonne sotto il ginocchio e abbassò il punto vita, promosse l’utilizzo del jersey e dello stile alla marinara, e per finire introdusse l’utilizzo dei pantaloni femminili perché sosteneva che «la vera eleganza non può prescindere dalla piena possibilità del libero movimento». Coco Chanel creò la nuova donna del XX secolo, una donna che affermava la propria femminilità non per contrasto, bensì per paradosso, attraverso la rivisitazione di abiti maschili.  Coco, attraversò zone d’ombra e di dolore, scavando un fossato tra lei e il mondo. Ebbe ragione su tutto: sulla miseria, sulla guerra, sul destino, sulla società, sul tempo stesso, solitamente implacabile eppure incapace di scalfire il mito Chanel.