Il Cristo morto e la perdita della fede

«Quel quadro! Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede».

“L’idiota” Di Fedor Dostoevskij 

Fedor Dostoevskij soffriva di una malattia un tempo definita piccole male. Più semplicemente, era epilettico. Presumibilmente il romanziere russo ebbe un primo attacco di convulsioni intorno ai diciotto anni, quando gli venne comunicata la morte del padre, il quale fu ucciso dai propri servitori in quanto esasperati dai suoi modi violenti e dispotici. La scomparsa della madre per tisi, l’arresto con l’accusa di sovversivismo, la condanna a morte evitata solo perché graziato pochi minuti prima dell’esecuzione, la deportazione in Siberia furono eventi che contribuirono a peggiorarne lo stato di salute, costellando quegli anni da svariate crisi epilettiche. «A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali. L’esito è l’indebolimento, la morte o la pazzia»; scriveva nel proprio diario Fedor Dostoevskij di ritorno da un viaggio in Svizzera insieme alla moglie. Era il 1867 e, recatosi a Basilea, in quanto appassionato d’arte si era recato al Kunstmuseum. Fu allora che, giunto in una stanza in cui era esposto un solo dipinto, il “Cristo nel sepolcro” di Hans Holbein, segnato da quella lacerante visione, Fedor Dostoevskij ebbe un attacco epilettico. Non solo, il volume di sofferenza che emanava quel corpo straziato, rimase impresso nella mente del genio di San Pietroburgo al punto da influenzare uno dei suoi più celebri capolavori: “L’idiota”.

“Il corpo di Cristo nella tomba” è un olio su tavola delle misure di 30,5×200 cm, dipinto nel 1521 da Hans Holbein. L’opera ritrae il cadavere del Cristo a grandezza d’uomo, affondato nella morte, e dalla morte annientato. Il corpo disteso di profilo è emaciato, macilento, e appare in più punti prossimo alla putrefazione. I capelli sono scompigliati, rattrappiti sul velo. Il volto è verdognolo, la bocca aperta, l’occhio rovesciato, vitreo. Sul petto è impressa la lesione provocata dalla lancia. La mano è livida, mostra le stigmate della crocifissione che irrigidiscono il medio disteso, contratto in uno spasmo dovuto alla morte. La sconvolgente ferita sul piede evidenzia un buco. Lo spettacolo nel suo insieme suona come un verdetto implacabile, privo di speranza. Non a caso, forse, Holbein utilizzò come modello il corpo di un ebreo morto affogato e ripescato nel Reno.

Era comune a molti artisti dei primi anni della riforma protestante essere affascinati dal macabro. Noto è che il padre di Hans Holbein, pure egli pittore, condusse il figlio ad osservare la Crocifissione dipinta da  Matthias Grunewald nella chiesa di Isenheim. L’intento degli artisti di quest’area e di questo periodo, era probabilmente quello di spingere lo spettatore a considerare più a fondo l’opera, riflettendo sul significato e scatenando un senso di realtà, di pietà, così come pure di colpa. 

A distanza di oltre trecento anni di storia; Fedor Dostoevskij inserisce questo dipinto all’interno di “L’Idiota” per rafforzarne levatura e concetti, approdando in una chiave di lettura non solo teologica, ma anche umanista. Appare chiaro sin dalle note preparatorie il fine di Dostoevskij per questo romanzo: dar vita a un essere assolutamente buono che si tuffa nel mondo e cerca di redimerlo con la sua sola bontà. E, stando agli appunti di Dostoevskij: «Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello: il Cristo». Addirittura, la figura di Cristo era talmente al di sopra di tutto che arrivò a scrivere in una pagina del suo diario: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

Il principe Miškin è il tentativo di rappresentare quest’ideale di assoluta bontà e bellezza morale. Miškin, l’idiota, secondo la tradizione russa “il folle di Dio”, è la purezza priva di macchia. Inevitabile era quindi rielaborare quanto aveva vissuto in prima persona a Basilea una volta trovatosi di fronte al Cristo nel Sepolcro di Hans Holbein.  Trovatosi a casa dell’alter-ego Rogozin, il principe Miškin nota, sopra la porta di una camera attigua un dipinto raffigurante il salvatore nella tomba. È allora che Dostoevskij gli fa affermare: «Quel quadro! Osservandolo a lungo, si può anche perdere la fede».

Scorrono le pagine del libro finché l’inquietudine addensata nel dipinto di Holbein riemerge, questa volta attraverso un malato terminale di tisi, Ippolit: «Quando guardi quel corpo straziato, ti viene una domanda curiosa e particolare: se era quello il corpo che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto? Viene spontaneo pensare che la morte è così terribile e se sono così potenti le leggi della natura come è possibile sconfiggerle? Come fare a sconfiggerle se non ci è riuscito nemmeno Colui che aveva superato le leggi della natura durante la sua vita?».

Lo scrittore russo era solito ripetere che «L’umanità è stata capace di una sola grande idea e questa è la Resurrezione dai morti». La visione nella fredda e cupa Basilea, suggerì a Dostoevskij la figura di un Principe-Cristo, che aspirava a vivere nella sua Russia da uomo proteso verso i propri simili, mosso dall’ingenua convinzione che l’umanità potesse essere salvata, ignaro di come il suo eccesso di spiritualità e purezza non fosse possibile in un mondo mosso dall’odio, dal desiderio. Di conseguenza il principe Miškin è destinato a fallire; seppure, come lo definisce Rogožin; «quelli come te Dio li ama». A essere implacabile, sorda, cieca e priva di scrupoli è infatti la Natura, che stritola ogni essere vivente, come accade all’Essere Perfetto e Prediletto nel dipinto di Hans Holbein.