Di ghiaccio son gli Dei

Una leggenda russa recita che in alcune regioni della Siberia ai bambini vengono allacciati i pattini ai piedi ed imparano a scivolare sul ghiaccio prima ancora di saper camminare. Una favola racconta invece di due bambini, Ekaterina e Sergei, che si conoscono sulla pista di pattinaggio del CSKA Mosca quando hanno appena cinque e nove anni e, sempre sui pattini, diventano una coppia imbattibile al punto da sembrare “una cosa sola”, così come sono destinate ad esserlo le loro anime. Una favola, la loro, che sarebbe diventata di tutti, perché mai era accaduto che uno sport così tecnico, così di nicchia, avvicinasse orde di profani, perché loro ammaliavano chiunque li guardasse, non solo i giudici, anche gli avversari, perché solo loro erano così leggeri da rendere ancora più profonde le note di Bethoveen, perché quando danzavano il tempo sembrava fermarsi. Fosse stata per davvero una favola e non una storia vera, l’epopea di Ekaterina Gordeeva e Sergei Grinkov, avrebbe limitato i risvolti drammatici ai brani che sceglievano per accompagnare le loro imprese, mentre invece la fiaba degli dei del ghiaccio, si è tinta di tragedia, trasformando le grandiose gesta della coppia russa in epica, in versi destinati a tramandarsi per l’eternità.

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Alex Schwazer, il Mercurio della marcia

In un’America dove vige un regime dittatoriale di stampo militare viene organizzata una gara annuale denominata “La lunga marcia”. I cento partecipanti devono attenersi a una sola regola: mantenere un’andatura di almeno 6 km/h. Se un concorrente rallenta il passo, riceve un’ammonizione che potrà essere cancellata marciando per un’ora senza ricevere altri richiami ma, al terzo avvertimento, il partecipante viene fucilato sul posto da dei soldati. Non vi è un traguardo: la marcia si conclude quando sarà rimasto un solo partecipante al quale verrà assegnato tutto ciò che desidera per il resto della vita. Il plot di uno dei capolavori più sofisticati concepiti da Stephen King, “La lunga marcia” per l’appunto, vede protagonista Ray Garraty – un sedicenne lui stesso ignaro del perché abbia deciso di iscriversi a quella folle corsa in quanto lo aspettano a casa una madre e una fidanzata che lo adorano – che ha il proprio alter ego nel personaggio di Stebbins – un tipo taciturno, solitario, dotato di una tempra formidabile, disposto a tutto pur di vincere che si scoprirà figlio illegittimo della figura a capo del sistema, “Il Maggiore”.

Alex  Schwazer nasce il 26 dicembre del 1984 a Vipiteno, un comune di soli 6.853 abitanti considerato uno dei borghi più belli d’Italia. Anche la famiglia di Alex è racchiusa in una splendida cornice:  primogenito di mamma Marie Louise, che di lavoro fa la bidella, e di papà Josef, un tecnico della manutenzione stradale, ha un fratello, Oliver, più piccino di sette anni. Alex Schwazer si è sempre descritto come un ragazzo legato alle cose semplici. Le sue passioni sembrano confermarlo: le passeggiate in montagna, ascoltare musica, concedersi ogni tanto una birra con gli amici, e lo sport. Tanto, tantissimo sport. Per un breve periodo pratica l’hockey sul ghiaccio, poi si dedica al ciclismo e alla mountain bike su strada. La sua vera passione però si rivela essere l’atletica. Inizia a quindici anni con il mezzofondo ma, posati i piedi nella categoria allievi, quando giunge il momento di fare sul serio, quando comprende che se praticato con assiduità lo sport abbandona i contorni della passione ma diventa lavoro, Alex Schwazer decide che il proprio destino sarà legato ad una disciplina primordiale, quella più logorante, probabilmente quella più estraniante, che assume nella storia dimensioni bibliche: la marciaContinue reading “Alex Schwazer, il Mercurio della marcia”

Ana Ivanovic, sogno evanescente

«Si tratta di una decisione molto difficile, ma c’è molto da festeggiare perché in tredici anni di professionismo ho raggiunto vette che mai avrei pensato. Qualsiasi sport professionistico richiede il top della forma e io non riesco più a raggiungere gli standard che tante persone si aspettavano da me. Quindi è ora di dire basta». È con un videomessaggio scarno, distaccato, che Ana Ivanovic comunica al mondo il suo ritiro dal tennis ad appena ventinove anni, con 15 tornei WTA riposti in bacheca, tra cui un titolo del Grande Slam e nove settimane come n.1 del mondo.

La biografia di Ana Ivanovic narra che «c’era una volta una bambina nata a Belgrado il 6 novembre del 1987 il cui primo  grande amore della sua vita è stato il tennis» . Tra leggenda e realtà, pare proprio che galeotto fu un match trasmesso in tv in cui vide giocare Monica Seles, tanto che papà Miloslav e mamma Dragana, sfiniti dall’insistenza della figlia, il giorno del suo quinto compleanno le regalano la tanto desiderata racchetta e, una volta scesa in campo, appare evidente sin da subito come l’infatuazione che Ana nutre per il tennis sia ricambiata anche da parte di quello sport che pare letteralmente scorrerle nelle vene.

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Tennis, il tormento e l’estasi

Che a tennis si utilizzi una racchetta e che lo scopo del gioco sia mandare la pallina nella metà campo opposta ormai lo sanno tutti, appassionati e non. Così come è di pubblico dominio che il campo è delimitato da righe in base al tipo di incontro, singolo o doppio, e che il punto viene conquistato quando l’avversario o non rimanda la pallina prima del secondo rimbalzo, o non riesce a farla passare sopra alla rete. Più ostico è semmai il frasario. Tante espressioni britanniche sono entrate nel linguaggio comune, ma una serie di termini quali ‘tie-break’, ‘top spin’, ‘demi volée’, ‘smash’, ‘ace’, ‘net’; può mandare nel panico un neofita. Per non parlare dei numeri utilizzati per stabilire il punteggio e i conseguenti, ‘game’, ‘set’, ‘match’.

Non è tutto, anzi, siamo solo all’inizio. Perché il tennis è probabilmente lo sport più complesso del mondo. A partire dalla tecnica da applicare a un notevole numero di colpi, che prevedono a loro volta una tattica. E che essa sia la più intelligente possibile. Colpi che interagiscono costantemente con la componente atletica, la quale comprende in sé forza, resistenza alla fatica, agilità, coordinazione, prontezza di riflessi. Dote, quest’ultima, che si trova al confine con il fattore mentale. E qui siamo al dulcis in fundo: la testa, la determinazione, la capacità di concentrazione, lo spirito di abnegazione. Il tennis è tutto questo. E altro ancora.

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Bjorn Borg, l’innovatore venuto dal ghiaccio

Fu prima di tutto un innovatore, Bjorn Borg. Impose standard tecnico-atletici all’epoca sconosciuti, impensabili. Fu il primo a colpire la palla dal basso verso l’alto, conferendole il cosiddetto effetto in top-spin, mediante una rotazione del polso. Prima di lui nessuno aveva dedicato tanto tempo allo studio della preparazione fisica, aveva riconosciuto nel binomio velocità-resistenza un aspetto basilare nella costruzione del campione che sarebbe diventato. Senza volerlo, aprì la strada a una serie di “regolaristi” o “contro-attaccanti” destinati nel tempo a invadere il circuito affidando alla tenuta fisica e alla costanza nel palleggio insidie ancor più incisive dal tentare una conclusione vincente. Ad ogni modo, la sua apoteosi avrebbe trovato una spiegazione plausibile nella solidità mentale che giunse a delinearne ogni sua scelta di gioco, forse persino i tratti. Non solo. Lo svedese è stato il primo divo a essersi affacciato sui campi da tennis. Particolarmente attento al proprio aspetto ha lanciato il look sciamanico caratterizzato da capelli lunghi, lisci e apparentemente incolti, uniti a barba e baffi appena pronunciati. Divenuto un Dio, si scoprì mortale all’improvviso. A perderne fu il tennis, l’uomo e la storia stessa.

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Mats Wilander, tra predestinazione e fato

Il 21 dicembre 1988 il volo Pan Am 103, decollato dall’aeroporto di Heathrow, a Londra, e diretto all’aeroporto JFK di New York, precipitò un’ora dopo il decollo a Lockerbie in seguito ad una detonazione causata da un ordigno esplosivo nascosto in una valigia nella stiva del velivolo. L’esplosione uccise 259 persone tra passeggeri e membri dell’equipaggio, fra cui 189 cittadini statunitensi e 11 residenti della cittadina di Lockerbie in Scozia.Quel giorno, due prenotazioni non arrivarono in tempo al chek-in. I loro nomi sono Mats Wilander e Sonja Moholland, sua moglie.

Poco più di tre mesi prima, precisamente l’11 settembre, Mats Wilander strinse in pugno la terza prova del Grande Slam stagionale sconfiggendo Ivan Lendl nella finale dell’US Open con il punteggio di 6–4 4–6 6–3 5–7 6–4. In perfetta linea con il suo tennis solido, basico ma allo stesso tempo versatile, dove tattica e resistenza erano un tutt’uno teso a sfibrare l’avversario sotto ogni punto di vista, le 4 ore e 55 minuti di battaglia che scandirono l’ultimo atto newyorkese scrivendo un entusiasmante pagina di storia sportiva, permisero allo svedese di sfilare il primo posto del ranking al ceco.

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Monica Seles, la belva di Novi Sad

«Quello che la rendeva speciale era l’impegno che ci metteva. Aveva dodici anni eppure sembrava non conoscere la fatica, era capace di provare lo stesso colpo per ore, sempre con la stessa concentrazione. E questo non per un giorno, non per una settimana, ma per un mese, per mesi se ce n’era bisogno». Parola di Nick Bollettieri. Quella dodicenne due volte bimane, mancina di nascita, che aggrediva ogni pallina con uno stile tutto suo, avulso da qualsiasi canone, che con ferocia urlava, quasi grugnendo, a ogni impatto. È Monica Seles.

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La Russia a Rio, tra ingiustizie, lacrime e orgoglio

Le Olimpiadi della Russia hanno visto la luce molto prima della cerimonia di apertura avvenuta a Rio il 5 agosto. La freccia scoccata in perfetta sincronia e complicità da WADA e IAAF ha colpito il cuore della Russia nel novembre del 2015 quando il colosso dell’est è stato sospeso a tempo indeterminato con l’accusa di aver impartitodoping di Stato”. Il fazioso Rapporto McLaren avrebbe infatti evidenziato «l’abuso di potere più deliberato e sconvolgente mai visto nella storia dello sport. Il ricorso al doping in trenta sport significa che non può esistere più la presunzione di innocenza». La sentenza IAAF è stata infine ribadita, nel giugno 2016, dal CIO il quale ha confermato l’esclusione della Russia nelle discipline di atletica a Rio 2016, per quindi bisbigliare una sorta di apertura nei confronti degli atleti che si sono sempre dimostrati puliti. Presupposti magnanimi che si sono contraddetti all’istante nel caso più clamoroso e vergognoso, ossia quello di Yelena Isinbayeva, mai trovata positiva ma a cui è stato vietato di prendere parte ai Giochi.  Tra le pieghe di uno scandalo destinato a “sforare” i confini dell’atletica in quanto, in una dimensione parallela che risponde al nome di tennis era stata proclamata la positività dell’atleta russa più conosciuta al mondo, Maria Sharapova, e che stando all’accusa vedrebbe coinvolti persino i servizi segreti sovietici; la dichiarazione del presidente Vladimir Putin riassume il clima ostile nei confronti del paese di cui è al comando affermando che «la comunità internazionale è testimone di una pericolosa ricomparsa della politica che interferisce con lo sport».

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Ivan Lendl e l’insostenibile ricerca della perfezione

La leggenda vuole che Olga Lendlova, ex tennista professionista diventata maestra, andasse tutti i giorni in campo insieme al figlio di tre anni e che, per evitare un’eventuale smarrimento, fosse solita legarlo a un paletto della rete. «Ubbidienza» e «Disciplina», sono le prime parole che quel bambino, Ivan Lendl associa al tennis. Prigioniero del tennis e della sua predestinazione, Ivan ha intrapreso il suo cammino mantenendosi coerente con e nelle proprie ossessioni: vincere e diventare il migliore tennista del mondo. Non si è mai permesso di sognare, nella sua vita c’è sempre stato posto solo per il duro lavoro, unico complice capace di sostenerlo affinché potesse raggiungere una schiera di obiettivi, sempre più numerosi, sempre più elevati.

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Andre Agassi, tra zone d’ombra e di luce

«Ho sette anni e sto parlando da solo perché ho paura e perché sono l’unico che mi sta a sentire. Sussurro sottovoce: lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci da questo campo. Non sarebbe magnifico? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare a tennis mai più? Ma non posso». Quando rievoca questi pensieri, quel bambino nato a Las Vegas il 29 aprile del 1970, è ormai diventato un uomo e si sta raccontando a milioni di persone. La sua non è una storia, è un’epopea intrecciata con le sue radici, che parte dal padre, Emmanuel Agassian, un cittadino iraniano di origini armene e assire che, dopo aver gareggiato come pugile alle Olimpiadi del 1948 e del 1952 per il suo paese natale, decide di trasferirsi a Las Vegas, ed ottenuta la cittadinanza americana cambia il proprio nome in Mike Agassi, mette su famiglia con una certa Elizabeth Dudley ed inizia a lavorare in un megaresort di proprietà del miliardario Kirk Kerkoiran, con cui stringerà una amicizia tale da dare all’ultimo dei suoi quattro figli proprio “Kirk” come secondo nome. Il primo nome era Andre. E sarebbe diventato Andre Agassi.

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