Lui, Marat: ex n.1 del mondo, vincitore di 15 titoli ATP tra cui due prove del Grande Slam, un Caligola moderno, talento e sregolatezza fuse insieme, la faccia da mascalzone, uno che «paga le donne per farle andare via dal suo letto». Lei, Dinara, ex capobanda del ranking, 12 titoli WTA nonché tre finali slam, tutte perse, oltre a un argento alle Olimpiadi di Pechino, il braccio messo a servizio di un tennis monocorde, il volto sempre un po’ incupito, tanto carattere condito da un pizzico di timidezza. Marat, che da bravo e protettivo fratello maggiore, dall’alto del suo scranno profetizza: «tra pochi anni sarà Dinara quella con più trofei in famiglia». Presunzione e vanità pronte a mettersi da parte in funzione di lei sola, Dinara, per la quale nutre un affetto per certi versi affine a quello che Caligola provava per la sorella Drusilla, al punto che quando morì appena ventenne, l’imperatore ne decretò il culto, divinizzandola come Diva Giulia. Dinara, succube ed anche un po’ ammaliata dalla venerazione che in tanti riservano al fratello, una devozione tale da farla sentire «meno di lui» anche quando in vetta alle classifiche c’é lei, quando del grande Marat era rimasto poco o nulla. Perché mentre Marat Safin è stato adorato o disprezzato, ma in ogni caso il suo ricordo evoca tinte forte, sapori insopportabilmente amari o dolci, Dinara Safina è stata vissuta da tutti en passant, e per questo rimarrà incastrata per l’eternità tra l’essere la sorella di un personaggio che ha superato il tennista e l’essere stata una regina senza corona, una numero uno senza slam.
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