Il Grande Miao, una storia di conquista

Risale al 1964 la prima pubblicazione di Il Grande Miao, romanzo di cui Paul Gallico si assume l’onere e l’onore di firmare solo la prefazione e la postfazione, mentre il blocco centrale proviene tutto dalla zampetta di una gatta, tale Micina. Per intenderci, lo scrittore racconta di essersi visto consegnare un manoscritto che un vicino si era trovato davanti alla porta di casa. Lavorando in una casa editrice ed essendo scritto seguendo un apparente codice cifrato, il tizio chiede a Paul di venire a capo del rebus. Colto da un’illuminazione, Paul Gallico capisce ben presto che l’autrice questa gatta che, raccontando la propria storia ed esperienza personale, intende fornire preziosi consigli ai suoi simili affinché possano spingersi verso la totale conquista felina della razza umana.

Orfana di mamma e ritrovatasi sola al mondo a sole sei settimane di vita, Micina individua la casa giusta da conquistare: una gradevole abitazione indipendente, sita su due piani, circondata da un terreno, occupata da marito e moglie, senza figli e servitù. Una volta ufficializzata la sua presenza in zona, Micina dà inizio alla sua opera di sottomissione, non tanto della donna, inderogabilmente più affine al pianeta felino in quanto più acuta del suo consorte, quanto dell’uomo, una creatura descritta che «si crede di essere Dio in terra», ma è oltremodo «non indipendente, che difetta di una profonda insicurezza di base e ha la costante necessità di sentirsi amato, ammirato, vezzeggiato, adulato».

Micina la sa lunga. È ad esempio a conoscenza del significato di un termine: antropomorfismo, il quale indica come le persone tendano ad attribuire caratteristiche umane alle cose o agli animali. Ciò perché «sono talmente presuntuosi da credere che il mondo giri tutto intorno a loro». Accattivarsi le attenzione degli esseri umani partendo da questo principio, ma ancor più calcando la zampa sulla propria irresistibilità, nonché sull’infinita lista di mancanze caratteriali ed emotive da parte degli umani si basa buona parte dell’addestramento che Micina intende lasciare ai posteri.

Fermamente intenzionata a non lasciare nulla al caso, Micina si sofferma sui diritti di proprietà del letto o di una poltrona in soggiorno – pretesa sacrosanta nel caso di quest’ultima ancor più se un ospite ha la malaugurata idea di occuparla approfittando della momentanea assenza dell’autrice con conseguenti tattiche per riappropriarsene -, sui mille e più prodigi che un gatto è in grado di compiere e che deve compiere, in quanto possono trasfigurarsi in aneddoti unici e esilaranti da raccontare agli amici degli schiavi che si credono padroni, su come comportarsi in viaggio, su come accettare che piacciano oppure no le visite dal veterinario, sul valore delle fusa, sulle tecniche di ammaestramento per ottenere bocconcini prelibati,  sull’eventuale necessità di ricorrere al doppio gioco e farsi eventualmente adottare da una famiglia del vicinato seppure a patto che i due nuclei non vengano mai a conoscenza gli uni degli altri, sulle pose da assumere per destare attenzione, ammirazione, fascinazione.

C’è poi un esauriente capitolo inerente al linguaggio. È proprio in queste righe che Micina spiega con dovizia di particolari i motivi che impongono a un gatto di ricorrere al cosiddetto Grande Miao. Stando a quanto dice: «Il Grande Miao per le persone deve esprimere un carico gigantesco di infelicità e miseria. Esso corrisponde alla faccia che i bipedi fanno quando sono, innamorati, angosciati, affranti. Per questo ne saranno scossi e vi concederanno tutto».

Ad ogni modo, per quanto dalle parole di Micina possa trasparire come i gatti tendano a considerarsi migliori degli esseri umani, la zampa è calcata su un concetto basilare, ammirevole e commuovente oltre ogni ragionevole dubbio: nonostante la nostra stupidità, le nostre ipocrisie, il nostro immotivato egocentrismo, i gatti ci amano. E qui il consiglio primario: «Vi raccomando prudenza perché questo tipo di amore può fare più male di una bastonata. Spesso gli esseri umani smettono di amare e ti abbandonano. Noi non lo facciamo mai».