Martina Hingis, l’eletta che non invecchierà mai

Quando Martina Hingis scese sul pianeta terra e si concesse agli sguardi curiosi degli umani aveva undici anni e otto mesi. Correva l’anno 1992 ed era il mese di maggio. Non l’aveva vista quasi nessuno, eppure tutti ne facevano un gran dire. In realtà non è che ci fosse molto da dire. L’undicenne Martina Hingis non si limitò a vincere il Trofeo Bonfiglio, lo dominò, lasciando le sue avversarie invase da quell’indescrivibile disagio che può assalire chi non ha nemmeno avuto il tempo di rendersi conto di quanto sia accaduto, perché dopo trenta, quaranta minuti se la ritrovavano già vicino alla rete, pronta a stringer loro la mano. Semplicemente, Martina Hingis non era di questo mondo.

Melanie Molitorová, ex tennista professionista, ha sempre saputo che la sua prima figlia l’avrebbe chiamata Martina, in onore di Martina Navratilova, così come già aveva deciso che sarebbe diventata una giocatrice di tennis, o meglio una campionessa. Il padre invece, Karol Hingis, pure lui un ex tennista diventato maestro, non era altrettanto risoluto nel predisporre la strada di quella bambina che a due anni si è vista trascinata su un campo da tennis del circolo di Košice, una splendida città dell’allora Cecoslovacchia. È probabile che la prima crepa nel matrimonio tra Melanie e Karol si sia insinuata proprio per via di questa inconciliabilità nel pianificare il futuro di Martina, sulla cui fronte viene impresso il marchio della predestinazione ad appena quattro anni, quando vince il primo torneo under 12 a cui partecipa.

Martina Hingis è nata il 30 settembre del 1980. Ha sei anni quando i genitori divorziano e, un anno dopo, si trasferisce insieme alla madre e al suo nuovo compagno, un commerciante di computer elvetico, a Trübbach, un paesino di circa diecimila abitanti del Cantone San Gallo. È nella quiete della sua nuova casa di campagna, provvista di una stalla per i cavalli, che Melanie fa costruire un campo da tennis in rebound ace, la superficie in cui si disputava l’Australian Open all’inizio degli anni 90’. È’ qui che Melanie coltiva il talento fuori quotazione di Martina che a dodici anni e otto mesi diventa la più giovane vincitrice di un torneo del Grande Slam Juniores: il Roland Garros. Successo che riconferma nel 1994 e a cui aggiunge la vittoria a Wimbledon.

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Martina Hingis debutta nel circuito professionistico a Zurigo il 14 ottobre del 1994, due settimane dopo il suo quattordicesimo compleanno. All’Australian Open del 1995 avanza al secondo turno diventando la più giovane giocatore a vincere un match in uno slam. Qualche mese dopo raggiunge la finale sulla terra rossa di Amburgo. A nemmeno quindici anni è la n.16 del mondo e, nel luglio del 1996 in coppia con Helena Sukova, entra nella storia come la più giovane tennista a vincere un titolo a Wimbledon. Dopo i quarti di finale all’Australian Open, il terzo turno al Roland Garros e gli ottavi a Wimbledon, all’US Open Martina supera Arantxa Sanchez-Vicario e Jana Novotna prima di uscire sconfitta in semifinale da Steffi Graf. Un mese dopo conquista il suo primo titolo WTA a Filderstadt e, svalicato il muro delle top ten, al Master disputa una finale memorabile contro la Graf.

Con la stessa maestria con cui Thomas Mann nel suo “L’eletto” ha rielaborato la leggenda medioevale sulla vita di Gregorio Magno; anche l’ascesa di Martina Hingis sembra affondare le proprie radici nelle profondità del mito. Nell’arco della stagione ’97 l’elvetica si aggiudica 12 titoli su 13 finali disputate. Eppure in quell’unica caduta si cela un tratto che rende la sua vita quanto mai simile a un poema epico.

Quando si presenta al Roland Garros, Martina Hingis è forte del trionfo all’Australian Open. Ancora non sa che solamente un mese dopo, il 5 luglio del 1997 diventerà la più giovane campionessa di Wimbledon dell’era Open, da quando nel preistorico 1887 Lottie Dod conquistò il titolo, così come non può sapere che due mesi più tardi dominerà l’US Open.

È il fato forse a spingere Martina giù dalla sella del suo amato cavallo Montana, impedendole così di preparare al meglio la stagione sulla terra rossa; eppure a Parigi l’elvetica ottiene il meglio dal suo tennis preciso, architettonico, finché, proprio come un personaggio mitologico, giunta all’ultimo atto, si piega al cospetto della sua antitesi; una tennista normale, l’amica croata condannata a rimanere nell’ombra, quella Iva Majoli che sarà destinata a passare alla storia non come colei che il 7 giungo del 1997 vinse il Roland Garros, bensì come la ragazza che impedì a Martina Hingis di realizzare il Grande Slam.

Martina Hingis dà inizio al proprio regno il 31 marzo del 1997, deponendo Steffi Graf e lapidandola come «il passato di questo sport». Che il futuro sia lei, Martina, era implicito. Dopo un 1998 scandito dalla vittoria all’Australian Open e al Master, una finale persa all’US Open e de semifinali raggiunte sia ai French Open che a Wimbledon; nel gennaio del 1999 Martina non nasconde di mirare al Grande Slam.

Quando il 5 giugno si appresta ad affrontare nella finale del Roland Garros Steffi Graf, il «passato del tennis», lei, «il futuro», è lanciata verso quel traguardo mancato per un soffio due anni prima. Questa volta non c’è stata nessuna caduta da cavallo, questa volta non c’è stato nessun set perso lungo il cammino e sul 6-4 2-0 in favore di Martina, niente e nessuno sembra essere capace di arrestare il suo incedere trionfale. Nessuno, tranne il fato, quella Nemesi che quando Martina svolta a Parigi proprio non ne vuole sapere di lasciarla in pace.

Una risposta nettamente in campo della svizzera chiamata out da una giudice di linea. La giudice di sedia, Anne Lassère, che scende dal seggiolone per indicare un punto distante due spanne da dove ha rimbalzato la pallina. Martina che non ci sta e, con tutta l’impertinenza che cela in sé il futuro, va incontro al passato, decisa a calpestarlo, a schiacciarlo definitivamente, e sbatte la sua racchetta sul segno, quello giusto. Lo fa con una certa aria di supponenza: è irritata, infastidita. Perché il futuro è illuminato, vigoroso, infallibile. Ma ecco che dal passato sembrano riesumarsi Georgina Clark e Gilbert Yserne, i due supervisor, figure che bazzicano l’ambiente da decine d’anni prima che Martina nascesse. Non solo attribuiscono il punto alla Graf, a quel passato che fa prudere i pollici della Hingis anche solo a sentirlo nominare; come accade in ogni evento della vita il passato quando riemerge lo fa per batter cassa e spezzare le gambe e le ambizioni del futuro. Sotto allo sguardo altezzoso di Martina Hingis, mentre la Graf si fa i fatti suoi, Lassére, Clark e Yserne confabulano tra loro e penalizzano la n.1 del mondo di un 15. E così, mentre l’obsoleto pubblico parigino va a ripescare dai tempi andati tutta la sua grandeur e inizia a parteggiare spudoratamente per la tedesca, Martina Hingis piange lasciandosi inghiottire dalle sabbie mobili del Philippe Chatrier; insieme al suo futuro che non la vedrà mai più trionfare in uno slam.

Destino vuole che da quell’infernale pomeriggio francese la fiamma che anima Martina Hingis si affievolisca, che quel congegno infallibile, preciso, capace di scandire con regolarità impressionante il suo gioco si inceppiquei nervi saldissimi iniziano a tremare nei momenti importanti, quella mente capace di irradiare soluzione tattiche prodigiose si annebbia.  Nonostante la sconfitta subita al primo turno di Wimbledon 1999 per mano di Jelena Dokic, l’elvetica torna a vincere tornei su tornei, ma durante la finale dell’US Open appare insicura e si accartoccia contro Serena Williams. Perde due grandi finali anche contro Lindsay Davenport, prima al Master 1999 poi all’Australian Open 2000; e seppure nella stagione che apre il nuovo millennio trionfa in otto eventi, delude nelle grandi occasioni ed è solo nell’albo d’oro del Master che riesce a incidere il proprio nome.

Finché non solo non riesce più a far suoi gli Slam, ma fatica pure ad imporsi nei tornei che era abituata a vincere a man bassa. Dopo altre due finali perse nella sua Melbourne nel 2001 e nel 2002,  quest’ultima non concretizzando quattro match point, entrambe “per colpa” di Jennifer Capriati, un altro fantasma proveniente dal passato; Martina Hingis è ormai l’ex n.1, l’ex bambina prodigio, l’ex futuro del tennis e forse, a soli ventidue anni, inizia a sentirsi vecchia. A causa di ripetuti infortuni alle caviglie, Martina Hingis esce dalla top ten e, nel febbraio 2003, annuncia: «Il mio fisico non mi permette più di mantenere un livello di gioco per poter essere competitiva ai vertici e siccome non potrei sopportare il dolore di competere a un livello inferiore, non mi resta che ritirarmi».

Passano due anni. Il Belgio si gongola con Henin e Clijsters, la Russia devasta il circuito con Myskina, Sharapova, Kuznetsova, Dementieva e chi più ne ha più ne metta, tra alti e bassi le sorelle Williams continuano a spaventare tutto e tutti. Il nome di Martina Hingis a volte riemerge dal limbo, accarezzando l’aria con una punta di malinconia, di rimpianto. A sorpresa il 31 gennaio 2005 Martina si presenta a Pattaya: perde al primo turno contro Marlene Weingartner, ma afferma che è stata una «semplice esibizione». Tuttavia, a novembre annuncia il suo rientro nel circuito e all’Australian Open  2006 dimostra di essere in buona forma arrivando ai quarti e conquistando il titolo nel doppio misto insieme a Mahesh Bhupathi. Dopo la finale persa a Tokyo contro Elena Dementieva, l’elvetica conquista Roma battendo Dinara Safina. A gennaio 2007 la svizzera è la n.7 del mondo e, confermati i quarti a Melbourne, svetta per la quinta volta in carriera a Tokyo. Un infortunio all’anca però la costringe a saltare sia Roma che il Roland Garros e al rientro i cronici problemi fisici le impediscono di essere al meglio a Wimbledon.

Ed è proprio sui sacri campi dell’All England Lawn Tennis Club, nel torneo che l’aveva consegnata alla storia bollandola per sempre come un simbolo di precocità, che si compie l’ennesimo dramma ella carriera di Martina Hingis: in seguito a un test antidoping viene trovata positiva alla cocaina. Lei nega ogni responsabilità, ma risulta positiva nelle contro analisi e, nonostante il suo avvocato dimostri la negatività al test effettuato sui suoi bulbi capilliferi; in un clima classico di caccia alle streghe il 4 gennaio 2008 l’ITF la squalifica per due anni e la condanna alla restituzione dei premi vinti dallo slam londinese fino al settembre 2007 quando, al secondo turno di Pechino, contro Shuai Peng, Martina Hingis ha perso l’ultimo incontro ufficiale della sua sfolgorante carriera.

Tra le tante domande destinate a restare irrisolte spiccano 5 titoli del Grande Slam in singolare, tutti tra il 1997 ed il 1999, 10 in doppio tra cui il Grande Slam realizzato nel 1998, 2 Master in singolare, altrettanti in doppio, 43 titoli WTA, oltre a 209 settimane in vetta al ranking tra il 1997 ed il 2001. Martina Hingis, il Mozart della racchetta, un gioco che può essere considerato l’evoluzione delle geometrie che disegnava Chris Evert, seppure tracciate da una mente dotata di una cattiveria, di una ferocia agonistica seconda solo a Monica Seles; una persona contorta, a tratti indecifrabile che ha sempre celato in sé la grandezza e la vulnerabilità degli eroi.

Una fine che Martina Hingis continua a respingere al punto che, subito dopo essere stata introdotta nella International Hall Of Fame, il Santuario del tennis, nel luglio 2013 ha annunciato il suo ritorno alle competizioni, seppure solamente in doppio, in coppia con Daniela Hantuchova. «Sono cinque anni che penso di rientrare, ma non ho mai avuto il coraggio»; ha ammesso. O forse, più che il coraggio, quella sicurezza, quella padronanza che a poco, a poco, si era frantumata insieme alla finale persa al Roland Garros nel 1999. Una ferita che l’ha scavata dentro facendo sì che quel trionfo mancato in una Parigi in cui mai sarebbe stata regina, rappresentasse la parabola discendente della sua epopea. Uno smacco che l’ha derubata di una serenità che non ha più trovato nella vita privata, un dolore che forse l’ha un po’ inaridita tanto che, diventata coach di Anastasia Pavlychenkova, ha probabilmente considerato la russa prima ancora che una ragazza da allenare, l’ennesima sfida da affrontare.

Tornata in campo in prima persona, più ancora che in coppia con Daniela Hantuchova, da Carlsbad a Toronto, da Cincinnati a New Haven, per arrivare New York, inizialmente Martina non è riuscita a convertire l’alone magico che l’aveva circondata in passato. A inizio 2014 l’elvetica si va a cercare un nuovo “assillo”: allenare Sabine Lisicki. In singolare le cose per la tedesca precipitano eppure in doppio, la magia prende forma: nella finale di Miami, Martina e Sabine superano Elena Vesnina ed Ekaterina Makarova. E così, sette anni dopo il suo ultimo successo, la svizzera torna ad alzare al cielo un trofeo, il 38esimo come doppista. A recitare il ruolo di spalla  spetta poi a Flavia Pennetta, con cui perde la finale nella Big Apple ma tocca quota 40 titoli. A maggio 2016 saranno 55 i tornei vinti in doppio, gli ultimi quindici dei quali tutti insieme a Sania Mirza. Additate come potenziali realizzatrici del Grande Slam, Martina e l’indiana non riusciranno nell’impresa stringendo in pugno solo tre Grandi Prove e un Master. Fino alla separazione.  Non divorzia da Leander Paes, fido scudiero per altri 4 slam per il quinto misto assoluto. Ad agosto 2016, nella bacheca dell’eletta trova posto pure una medaglia olimpica, non d’oro, con Timea Bacsinszly – che finisce al collo delle guastafeste Makarova e Vesnina – ma d’argento.

Martina avrebbe attraversato da primadonna pure il 2017 con nove zampate nel doppio femminile compreso l’US Open insieme a colei che si rivelerà essere l’ultima compagna scelta, Chan Yung-jan. Nel misto, stavolta insieme a Jamie Murray, si aprono addirittura i cancelli di due slam: Wimbledon e l’US Open. Fino all’annuncio definitivo, durante il Master – dopo 43 titoli WTA in singolare, 64 in doppio, compresi 25 tornei del Grande Slam; 5 in singolare, 13 in doppio e 7 in doppio misto – quando, mentre una lacrima le riga il volto, il sipario si è chiuso su quella ex tennista-bambina che anche quando un giorno invecchierà e avrà i capelli bianchi negli albo d’oro dei tornei di tutto il mondo resterà giovane per l’eternità.

Quando aveva sedici anni tutti pensavamo avrebbe devastato il circuito. Così non è stato. Eppure Martina Hingis ha scritto la storia. O meglio. La sua storia è diventata di tutti. Perché per evocarla basta un nome: Martina. L’eletta. Lei che ci ha incantati, sfidati, illusi, estasiati, traditi, rapiti, feriti. Fino all’inverosimile. Perché la cruda e sottilmente inquietante verità è che non ci rassegneremo mai. Non vogliamo tapparci le orecchie con la cera, non vogliamo proteggerci con nessun contro-incantesimo. Tutti vorremmo essere attirati e stretti nell’abbraccio mortale del “canto di Martina in questi giorni più che mai sirena, volto privo di pace, spirito respinto dall’aldilà del tennis che fu, della gloria che fu, Come in una poesia di Cesare Pavese, al cospetto di Martina Hingis non solo i tuoi occhi, tutto in te diviene una vana parola, un grido taciuto, un indomito silenzio, mentre s’insinua la consapevolezza che pur di vederla ancora, saresti disposto a stringere qualsiasi patto, fosse pure quello di non ammettere che su quel campo non ci sarebbe più Martina Hingis, bensì il suo fantasma.

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