L’arte degenerata dei sette vizi capitali tedeschi

Seppure il concetto di degenerazione dell’arte non sia una prerogativa del regime nazista – in quanto già agli albori del 1800 Friedrich Schlegel lo aveva utilizzato per etichettare l’involuzione poetica che a suo modo di vedere avvenne nella tarda antichità – l’esplicita intenzione di associare una presunta degenerazione a caratteristiche intrinseche delle razze umane meno sviluppate fa sì che il termine «arte degenerata» trovasse il suo habitat naturale principalmente nella Germania guidata da Adolf Hitler. Una spinta che, ironia della sorte, ebbe il proprio trampolino di lancio tramite l’opera di un critico ebreo, Max Nordau, il Entertung ossia degenerazione, il cui intento risiedeva nel ricondurre la degenerazione dell’arte alla degenerazione dell’artista partendo dagli studi di Cesare Lombroso – il quale sosteneva come i criminali presentassero dei tratti somatici peculiari classici di gruppi umani che avevano subito un processo involutivo – per quindi isolare una serie di poeti, pittori e letterati dei suoi tempi, per lo più appartenenti ai movimenti del simbolismo e dell’impressionismo, a suo dire predisposti a riversare sulle masse arte degenerata.

Le tesi di Nordau furono riutilizzate pressoché testualmente dagli esponenti del partito nazionalsocialista allo scopo di smorzare qualsiasi forma d’arte che riflettesse valori o estetiche contrarie alle concezioni naziste al punto che nel 1937 le autorità al potere epurarono i musei da 650 opere ritenute degenerate. Fu così che il 19 luglio del 1937, a Monaco di Baviera, Joseph Goebbels inaugurò la mostra dell’arte degenerata poi destinata a spostarsi in undici città della Germania e dell’Austria; ovunque senza richiedere il pagamento di alcun ticket d’ingresso.

Tra i dipinti scomodi, ripudiati, banditi, era presente anche I Sette Vizi Capitali di Otto Dix. Nato il 2 dicembre del 1891 a Gera e formatosi presso la Scuola d’ Arte Decorativa di Dresda, allo scoppio della prima guerra mondiale si dimostrò fedele alla propria ideologia di interventista arruolandosi volontario e vivendo in prima persona l’orrore del fronte occidentale. Sopravvissuto alla guerra ma non al trauma di dover assistere inerme a tanta crudeltà e morte, quasi trent’anni dopo Otto Dix non ebbe difficoltà a riconoscere il seme del male, l’aberrazione, che risiedeva nell’ideologia nazista.

Allontanato dall’insegnamento della sua Accademia, nel 1933 Otto Dix diede vita a un dipinto che voleva essere una inquietante allegoria della Germania, ormai da lui considerata una nazione snaturata che si stava avviando ciecamente e colpevolmente verso un baratro civico e morale.

L’analisi di I sette Vizi Capitali è piuttosto intuitiva. Partendo dall’alto si distingue la figura di un uomo goffo, incapace di sorreggersi sulle proprie gambe, il cui desiderio irrefrenabile di cibo ha fatto sì che la sua testa divenisse una sorta di estensione della pentola, dotata essa stessa di occhi e naso, che gli incastra il cranio. È la gola.

Il corpo del goloso è nascosto da una chioma rossa: un viso di donna che si accarezza le labbra con la propria lingua, famelica, gli occhi rapiti in un’estasi erotica priva di dignità, una mano che si palpa un seno allo scopo di sedurre, di darsi piacere, di idolatrare la più sfrenata lussuria.

Alla sua destra, un volto innaturale dal quanto è gonfio e arrossato. Ha gli occhi chiusi e da un orecchio spunta una mano che gli impedisce di ascoltare, di sentire qualsiasi altra voce che non siano le sue convinzioni. La superbia è talmente concentrata su sé stessa da essersi carbonizzata la punta del naso vicino a chissà quale fiamma senza accorgersene e la sua bocca è divenuta una sorta di sconcio orifizio  che emette solo escrementi.

Scendendo con lo sguardo la scena è catturata da un essere disgustoso. Una bestia feroce e al tempo stesso ridicola, dotata di corna, il corpo ricoperto di peluria, la cui mano destra brandisce un coltello. Se un essere umano assume i connotati di una creatura demoniaca significa che è preda dell’ira.

Al centro dell’opera recita il ruolo del padrone un personaggio vestito da scheletro che stringe in pugno una falce. Il ghigno che si delinea sotto alla bende che gli ricopre il volto trasuda di infelicità. Quella triste marionetta non ha occhi. Non solo. Lo squarcio che gli devasta il petto indica che gli è stato estratto persino il cuore. Chi non sa più vedere ne sentire è vittima dell’accidia e cerca vittime per condividere la sua inconsolabile disperazione.

Nell’estremità inferiore del quadro, una mano adunca, consumata dall’artrosi, stringe delle banconote. Appartiene a una strega i cui occhi sono sbarrati, rivolti verso un punto indefinito, al di fuori del dipinto, un miraggio effimero. L’avidità.

Sulla sua schiena ricurva è seduto un ometto raggrinzito che scruta con odio tutto ciò che lo circonda. Eppure, osservandolo con attenzione ci si rende conto che non si tratta di un volto: il pittore tedesco lascia distinguere i contorni di una maschera. L’invidioso si sente inferiore, inadeguato al mondo, per questo motivo si identifica con un uomo potente, rispettato. La sua brama di dominio parte da un atavico desiderio di vendetta. Una maschera che presenta un tratto inequivocabile: due baffetti destinati ad attribuire a Hitler i connotati dell’invidia. Un giudizio che Otto Dix si sarebbe assunto la responsabilità di esprimere solo nel 1945, quando della Germania nazista erano rimaste solo le ceneri.

One comment

  1. davinn67

    Triste e forse ancora poco ricordata, questa vicenda di regime.
    Curioso il fatto che quattrocento anni dopo Hieronymus Bosch (per non scomodare anche il Vecchio Bruegel), Dix riesca a dare un taglio molto Boschiano (mi si permetta il brutto neologismo) di questa allegoria, quando paradossalmente lo stesso Bosch la eseguì secondo canoni ben più tradizionali. Abbandonando per l’occasione le sue acri visioni incubo-oniriche in favore di una rappresentanza più di regime, ops, sacra-ortodossa intendevo dire….
    Le tavole di Guerra con quella loro greve ansia apocalittica, sono state un esempio per generazioni post-punk, ma quest’opera non la ricordavo ! Grazie per la reminiscenza

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