Marlene Dietrich, l’angelo nero

Marlene Dietrich. La cantante dalla voce seducente. L’attrice dotata di una fisicità conturbante, la cui presenza scenica era ingigantita dall’incomparabile magnetismo che emanava, dal fascino ambiguo che bucava lo schermo. La femme fatale dalla patina androgina. La diva che riuscì a mettere il mondo ai suoi piedi creando un’icona densa di quelle contraddizioni che fecero di lei quello che era, o forse che tutti vollero che fosse; perché dietro al talento c’era una dedizione al limite del disumano, perché la sua immagine era sorretta da una ricerca meticolosa, perché dietro alla donna si celava un enigma irrisolvibile.

Nata  il 27 dicembre del 1901 a Schoeneberg, paese vicino a Berlino, Marie Magdalene Dietrich è la secondogenita di Louis Erich Otto Dietrich, ufficiale della polizia militare che aveva prestato servizio durante la guerra franco-prussiana, e di Josephine Felsing, figlia di un gioielliere. Cresciuta secondo i canoni di una disciplina rigidissima ad appena quattro anni studia con precettori privati il francese, l’inglese, il pianoforte e il violino, seppure di quest’ultimo strumento dovrà interrompere le lezioni quando, undicenne, si procura una slogatura al legamento dell’anulare sinistro; età tra l’altro in cui muore il padre con conseguente matrimonio lampo della madre con tale Edvard von Losch, un tempo migliore amico dell’ex consorte.

Diplomatasi come cantante all’Accademia di Berlino, nel 1922 va a vivere a casa di una scrittrice di cui non confiderà mai il nome e inizia a calcare i palcoscenici del teatri di Berlino per quindi ottenere piccole parti in film muti. Sono anni in cui Marlene tutto si sente tranne che bella e desiderabile eppure durante un provino un aiuto regista rimane abbagliato dal suo carisma, così come lei apprezza il tweed da lui indossato. Dopo nemmeno un anno Marlene Dietrich e Rudolf Sieber si sposano e a dicembre del 1923 nasce la loro prima e unica figlia; Maria.

Seppure gli anni ’20 si srotolano tra piccoli ruoli e pellicole minori, l’ottima  interpretazione in “Enigma”, film datato 1929, spinge Josef von Sternberg a scritturarla per il suo nuovo progetto tratto dal romanzo di Heinrich Mann, fratello del più celebre Thomas: “Il professor Unrat”, poi rielaborato in “L’angelo azzurro”. Il regista austriaco, che aveva aggiunto il “von” per darsi un tono nel mercato americano, consiglia a Marlene di farsi estrarre i molari per accentuare il contrasto tra gli zigomi e la bocca e assumere di conseguenza un aspetto più drammatico. Conscia che “L’angelo azzurro” poteva rappresentare un’occasione irripetibile affinché si spalancassero le porte di Hollywood, prende il giorno stesso appuntamento da un dentista per portare a termine l’operazione.

L’abnegazione di Marlene Dietrich è evidente anche durante il durissimo periodo di lavorazione del film, iniziato il 4 novembre 1929 e terminato il 22 gennaio 1930, per consentire la registrazione del sonoro sia nella versione tedesca che inglese. Ricevuto il visto per la censura, il 1 aprile “L’angelo azzurro” viene proiettato in anteprima al Gloria-Palast di Berlino. La prova recitativa della Dietrich  finisce con l’oscurare persino il premio Oscar Emil Jennings, ma ironia della sorte vuole che la diva non sia nella capitale tedesca a godersi il trionfo bensì sul transatlantico Bremen, in compagnia di Sternberg. La meta è ovviamente Los Angeles.

Durante il viaggio conosce anche colui che sarà il suo costumista per tutta la vita, quel Travis Barton che da lì a pochi mesi le avrebbe “cucito addosso” l’abito da yachtman per uno scatto poi diffuso dalla Paramount con la frase di lancio: La donna che perfino le donne possono adorare”. La forza visiva di quell’immagine dal retrogusto sovversivo, spazzò via tutte le remore della Paramount che invano aveva tentato di proibirle di mostrarsi in pantaloni dopo aver firmato un contratto per sei anni con uno stipendio iniziale di 500 dollari a settimana e aumenti fino a 3.500 al settimo anno; con tanto di clausola mossa dalla nuova star di essere lei a decidere il regista dei suoi film.

Una mossa per tenersi stretta il suo regista e amante Josef von Sternberg, seppure forse non tanto legata a ragioni sentimentali quanto per garantirsi una sorta di continuità, di graduale adattamento al metodo americano. Mentre compariva nelle principali riviste patinate in cui pretese di essere fotografata esclusivamente da Rudolph Maté, il quale le creò un’immagine misteriosa ma di raffinata sensualità, Marlene Dietrich realizzò in una serie di film memorabili: da “Marocco” con Gary Cooper – in cui cantava due canzoni e le valse la nomination agli Oscar come migliore attrice – a “Disonorata”, da “Shanghai Express” a “Venere bionda”. Se nel 1933 il suo Sternberg le consiglia di farsi dirigere da Rouben Mamoulian in “Il cantico dei cantici”, nei due anni seguenti l’austriaco la fa risaltare tanto in “L’imperatrice Caterina” quanto in “Capriccio spagnolo”.

Le sue performance le consegnarono una fama mondiale, ma allo stesso tempo nell’ambiente era stimata per la straordinaria professionalità. Marlene era instancabile e anche quando il regista era soddisfatto della scena era lei a insistere per ripeterla un’altra volta ancora. Non lasciava niente al caso e la sua indole testarda si riassume in un episodio avvenuto sul set di ”Capriccio spagnolo“ dove Sternberg aveva ideato una scena con il primo piano di un palloncino che scoppia e mostra il volto della diva che doveva rimanere impassibile evitando il riflesso naturale di sbattere le palpebre. Ebbene, dopo una notte di prove estenuanti la mattina seguente Marlene fu imperturbabile di fronte al fragoroso scoppio.

Per quanto avesse le idee chiare sul lavoro, la vita privata di Marlene è invece quanto mai confusa al punto che dopo aver messo da parte il marito – da cui non si separerà mai e morirà nel 1976 – nel 1936 abbandona pure il suo creatore Joseph von Sternberg per dividersi tra il politico Adlai Stevenson, lo scrittore Erick Maria Remarque e le attrici Clodette Colert, Lili Damita e persino Greta Garbo a cuistrappòvia prima Minna Wallis poi Dolores del Rio; che in occasione di un party tra amiche si presentò vestita da sposa accanto a Marlene in smocking, provocando una scenata isterica alla divina quando le giunse voce della trovata.

Il distacco dal suo Pigmalione la catapulta sul set di Frank Borzage con Gary Cooper di nuovo a fianco in “Desiderio”; la vede protagonista in “Il Giardino di Allah” di Richard Boleslawski, in “L’angelo” di Ernest Lubitsch, in “L’ammaliatrice” di René Clair, per quindi dividere la scena con James Stewart in “Partita d’azzardo” e con John Wayne in “La taverna dei sette peccati”, “I cacciatori dell’oro” e “La febbre dell’oro nero”.

C’è però una macchia, un tarlo che perseguita la diva: profondamente legata alla sua identità tedesca non riesce a perdonare alla Germania il regime nazista che, nonostante il suo sdegno, continua a corteggiarla. Fu così che nel 1944, ormai cittadina americana, da il via una tournée in Nord Africa e sul suolo europeo per accompagnare le truppe statunitensi e la sua “Lili Marleen” si trasfigura in simbolo universale del conflitto per gli Alleati al punto da farli sentire in guerra non contro le Potenze dell’Asse ma per portare la democrazia e la libertà. Il suo carattere indomabile non la fece indietreggiare al cospetto di alcun sacrificio, compreso a volte dormire per terra se non addirittura nel fango; ma la sua divisa presenta i gradi di colonnello, una salvaguardia nell’eventualità fosse stata catturata. La sua esperienza al fronte la rende la prima donna della storia a ricevere la Medal of Freedom, massima onorificenza civile concessa negli Stati Uniti d’America, mentre nel 1950 il governo francese le attribuisce la Legion d’onore.

Su consiglio del commediografo Noel Coward portò in giro per il mondo un recital in cui cantava le canzoni dei suoi film e intratteneva il pubblico con monologhi estemporanei. Uno show diluito nel tempo che le consente di coltivare il suo flirt con Jean Gabin, di ricevere un rifiuto da Richard Burton, troppo preso da Liz Taylor, di finanziare Il club lesbo parigino “La Silhouette” appartenente alla sua amante Frede Baule; ma soprattuto di continuare la sua attività cinematografica che la vede protagonista in “Scandalo Internazionale” di Billy Wilder, in “Paura in palcoscenico” di Alfred Hitchcook, in “Rancho Notorious” di Fritz Lang, oltre a una serie di apparizioni indimenticabili in “No Highway” a fianco a James Stewart, in “Testimone d’accusa” nuovamente diretta da Billy Wilder insieme a Tyrone Power e Charles Laughton, in “L’infernale Quinlan” di Orson Wells con Charlton Heston e Jason Leigh e nel pluripremiato “Vincitori e Vinti”, di Stanley Kramer con Spencer Tracy e Burt Lancaster, fino all’ultimo ruolo interpretato in “Gigolò” accanto a David Bowie.

Alla soglia degli ottant’anni, si trasferì a Parigi con la figlia e la tendenza ad abusare di alcolici e psicofarmaci. Nel 1984 Maximilian Schell, con cui aveva lavorato in “Vincitori e Vinti”, così come aveva fatto con la sorella Maria dedicò pure alla grande diva un film-documentario: “Marlene”. Una frattura al femore provocata da una caduta in bagno la costrinse a presentarsi all’intervista su una sedia a rotelle dichiarando però di essersi semplicemente procurata una slogatura alla caviglia. Pretese e ottenne dal regista di non apparire, se non in materiale di repertorio, e di far solamente udire la propria voce.

Dopo questa collaborazione le sue condizioni fisiche peggiorarono ulteriormente e si rinchiuse letteralmente in casa dove, ad eccezione della figlia Maria e di Norma, la sua devota segretaria, non volle mai più farsi vedere da nessuno. Morì il 6 maggio del 1992 ufficialmente per un infarto che la colpì nel sonno, seppure nel tempo sarebbe emersa la voce che nonostante la depressione possedesse ancora una lucidità tale da ingerire una dose di sonnifero troppo forte per il suo debole cuore.

Efficiente fino all’ultimo, Marlene aveva già predisposto che la camera ardente fosse aperta sin dal giorno della sua morte nella chiesa della Madeleine. Nelle sue ultime volontà espresse tassativamente di essere sepolta nel cimitero di Friedenau a Berlino, accanto alla madre perché «quando si è vicini alla mamma non può accadere nulla».

Pare che negli ultimi anni di vita Marlene Dietrich fosse ossessionata dal proprio passato. Gli screzi con la Garbo – forse innescati dall’ossessione della svedese che Hollywood scoprisse la sua omosessualità – rese Marlene particolarmente vendicativa nei suoi confronti «Possedeva una bellezza e un’eleganza disarmanti. Ma aveva un grosso limite: si prendeva troppo sul serio. Piantò tutto per viltà. Lei si sentiva una dea, mentre io il mestiere dell’attrice l’ho vissuto da comune mortale»; raccontò durante un’intervista. Marlene, che contrariamente a Greta Garbo negò il suo volto al mondo quando era ormai un’anziana signora, tentò di modificare la visione di femme fatale che le era stata cucita addosso «Le parti sentimentali non s’addicevano al mio registro. Dovetti quindi adottare uno stile diverso, insinuarmi faticosamente nella pelle di un altro tipo di donna. Non era una donna che mi piacesse. Ma imparai tutte le sue detestabili battute».

Ci provò Marlene, lei che si dice fosse irremovibile nelle sue posizioni, tentò di far cambiare idea al mondo sul proprio conto, di ridimensionare la sua figura. Eppure nessuno indietreggiò di un passo. La sua segretaria disse che pure a novant’anni emanava un fascino da far innamorare. La domanda che nessuno si pose fino alla sua morte è se lei sia stata mai realmente innamorata di chi l’amava. La figlia Maria, che si era sentita un’esclusa finché la diva non divenne semi paralizzata si è limitata a spiegare: «mi amava come poteva lei, male». Di certo non poté mai seppellire sua madre nel vero senso del termine. Nessuno lo fece mai. Quello di Marlene Dietrich è un fantasma che si presta a una resurrezione incessante, a un’immortalità destinata perpetuarsi anche quando sarà scomparso l’ultimo testimone, l’ultima traccia di un passaggio sulla terra che, sin dal principio si rivelò più attinente al cielo, non donna, forse nemmeno diva, bensì un angelo le cui ali, più che azzurre erano nere.