Elizabeth Taylor, la dea che scese sulla terra

«Tutto ciò che senti, che provi, è provvisorio. A restare è ciò che hai fatto. Solo ciò che hai fatto dimostra ciò che sei». Nel tentativo di spiegare come l’irraggiungibile quanto estemporanea Angela Vickers, da Elizabeth Taylor interpretata in “Un posto al sole”, non fosse una semplice chimera destinata a sconvolgere le certezze del personaggio maschile fino al crollo rovinoso dell’integrità e della vita, ma una metafora rapportabile alla vita stessa, un turbine perenne di contraddizioni, dove passioni, ambizioni, desideri e debolezze sono destinati ad attorcigliarsi fino a un epilogo che altro non è che la conseguenza di una catena di azioni; affiora l’essenza di Liz Taylor, sulla cui provvisorietà ha costruito una carriera e l’esistenza stessa: da bambina prodigio a stella lucente, ultimo baluardo di quello star system destinato a sgretolarsi, a cambiare senza però riuscire a fare a meno del suo ricordo, eternamente sedotto dal suo fascino, ammaliato dal suo magnetismo, confuso dall’innata capacità di spaziare dalla commedia al dramma, dall’inesauribile tonalità di sentimenti, di condizioni che riusciva a dar vita; dall’essere ingenua, viziata, raffinata, alienata, dissoluta, circuita, austera, disillusa; lasciando sempre una traccia profonda, inconfondibile, indimenticabile.

Elizabeth Taylor nasce il 27 febbraio del 1932 a Hampstead, un’area ricca e benestante situata a nord del centro storico di Londra. Figlia di due americani originari del Kansas trasferitesi nella capitale britannica nel 1929 – anno in cui nacque il fratello maggiore  Howard – il padre era il direttore di una galleria d’arte in Bond Street, mentre la madre Sara Viola Warmbrodt, era un ex-attrice divenuta celebre col nome d’arte di Sara Sothern. L’entrata in guerra del Regno Unito spinsero la famiglia a tornare in patria, precisamente a Los Angeles, dove vivevano i nonni materni. La bellezza particolarissima della piccola Liz, che allora si dedicava alla danza, catturò sin da subito l’attenzione di tanti conoscenti e amici che bazzicavano Hollywood; i quali cercarono in tutti i modi di convincere i coniugi Taylor affinché la figlia vestisse i panni di Diletta nel kolossal “Via col vento”. La madre di Elizabeth fu però irremovibile nel suo diniego in quanto la riteneva «ancora troppo bambina per sopportare le pressioni di un ruolo troppo estraneo alla sua formazione».

L’esordio al cinema sarebbe arrivato nel 1942, quando Liz aveva appena 9 anni e la Universal Studios le ritagliò una parte in “There’s one born every minute” per subito lasciarsela sfuggire appannaggio della Metro-Goldwyn-Mayer, che, tempo nemmeno un anno, la posa nel cast di “Torna a casa, Lassie!catapultandola all’attenzione del pubblico. Perché il suo nome diventi il primo nei titoli di testa deve attendere solamente un anno quando in “Gran Premio”, per la regia di Clarence Brown, interpreta Velvet, una dodicenne che nell’Inghilterra degli anni ‘20 si dimostra la sola in grado di domare un cavallo fino a trascinarlo alla vittoria dell’Aintree Grand National. Al pari dell’assoluta professionalità emerge sin da subito una testardaggine irremovibile; basti pensare che oppostasi all’uso di una controfigura nella maggior parte delle scene al galoppo, Liz cadde da cavallo procurandosi una lieve frattura spinale che non le impedì di terminare le riprese, così come neppure un improvviso peggioramento che l’avrebbe costretta a tre mesi di riposo assoluto la indusse a chiedere un qualsiasi risarcimento perché a suo dire: «se sono sufficientemente grande per girare dei film, devo anche essere consapevole che se mi prendo una responsabilità e qualcosa va storto, a pagarne le conseguenze devo essere solamente io».

Accompagnata dallo status di bambina-prodigio, Elizabeth Taylor continua a crescere come attrice recitando in film i successo come “Il coraggio di Lassie”; “Vita col padre” di Michael Curtiz; “Cynthia”; “Così sono le donne” e soprattutto “Piccole Donne” tratto dall’omonimo romanzo di Louisa May Alcott per la regia di Mervyn Le Roy, dove fa faville nel ruolo di Amy. Se le inclinazioni naturali possono averla facilitata nell’esprimere una recitazione priva di filtri da adolescente, così come la bellezza può aver contribuito a farne un simbolo ancor prima di affrontare prove recitative di peso; a Elizabeth Taylor va il merito di aver attraversato il ponte che l’ha condotta verso i ruoli di adulta grazie a una dedizione spaventosa. A sedici anni Elizabeth espresse infatti alla madre il desiderio di lasciare la recitazione, ma l’ex attrice la dissuase al punto da farla sentire in debito con il mondo per il talento che aveva avuto in dono. Fu così che, sotto alle direttive della madre, iniziò a esercitarsi per almeno tre ore al giorno nel tirar fuori i sentimenti più disparati come piangere o ridere a comando, atteggiarsi a femme fatale o essere vittima di crisi isteriche.

Se nell’ottobre del 1948 Elizabeth Taylor torna nella natia Inghilterra per iniziare le riprese di “Alto tradimento” dove impersona una diciottenne che si innamora di un ufficiale inglese – Robert Taylor – che si scoprirà essere una spia sovietica; l’anno seguente è di nuovo in prima linea in “La sbornia di David” a cui segue un successo economico di prim’ordine comeIl padre della sposa“, accanto a Spencer Tracy e Joan Bennett per la regia di Vincente Minelli, che dirigerà pure il sequel, “Papà diventa nonno”.

Il decollo definitivo avviene con “Un posto al sole”; film basato sul romanzo “Una tragedia americana” di Theodore Dreiser. In questo esplicito atto di accusa al “sogno americano” Elizabeth Taylor diviene Angela Vickers, una ricca ragazza viziata che si frappone tra George Eastman – interpretato da Montgomery Clift – e la sua fidanzata, una povera ragazza, lavoratrice di fabbrica e per giunta incinta che ha il volto di Shelley Winters. Il regista dell’opera, George Stevens, rimase talmente stravolto dalla bravura e dalla bellezza di Liz Taylor da arrivare a sostenere che il film era «riuscito per metà» perché «il pubblico avrebbe compreso i motivi per cui un uomo poteva arrivare ad uccidere per ambire a un posto al sole insieme a lei».

A conferma delle sue innegabili doti, lo sbarco negli anni ’50 le porta in dono una serie di film di spessore come “Marito per forza, “Ivanhoe”, “Vita inquieta”, “La pista degli elefanti”, “Rapsodia”, “Lord Brummell” e “L’ultima volta che vidi Parigi”. Su binari instabili sembra invece procedere la vita privata. Nel maggio del 1950 Liz Taylor sposa ConradNickyHilton Junior – che nel decennio precedente aveva sedotto la matrigna Zsa Zsa Gabor – ma i problemi di alcolismo in cui versa il rampollo fanno ben presto demordere Elizabeth che, nel 1952 si presenta all’altare insieme a Michael Wilding, attore britannico dai modi garbati, espatriato a Hollywood, più maturo di vent’anni e irrimediabilmente condannato a subire la troppa personalità e notorietà della straordinaria consorte. Fu così che dopo circa cinque anni di matrimonio e due figli, Michael Howard e Christopher Edward, l’unione naufraga, a differenza dell’amicizia che li legherà fino alla morte di Wilding. Cinque giorni dopo il divorzio, il 5 febbraio del 1957 la Taylor convola a nozze per la terza volta con Mike Todd; ex vetraio divenuto produttore con in mezzo una carriera da costruttore edile e qualche foschia. Neppure un anno dopo però, con Elizabeth divenuta madre per la terza volta, l’aereo privato di Todd – ribattezzato Lucky Liz – si schianta sulle montagne rocciose.

L’ennesimo scatto verso l’Olimpo del cinema avviene nel 1956 quando  ottiene il ruolo più interessante diIl gigante“, epica pellicola di George Stevens, dove si contende la scena con Rock Hudson e James Dean, la cui tragica scomparsa avviene a pochi giorni dall’ultimo ciak. Il calibrassimo mix di grazia e determinazione che trasmette il personaggio di Leslie Lynnton Benedict in “Il Gigante” convince Edward Dmytryk, Richard Brooks e Joseph L. Mankiewicz di scritturarla in tre film di enorme successo che le frutteranno altrettante nomination agli Oscar come migliore attrice protagonista.

Nel 1957, in “L’albero della vita”, diviene la meravigliosa Susan Drake, che dopo aver fatto innamorare Montgomery Clift ed esserne diventata moglie e madre di un bambino, inizia a soffrire di crisi depressive che ne intaccano l’equilibrio al punto da fuggire e morire in una palude. È il 12 maggio del 1957 quando in piena lavorazione del film, Liz Taylor e Wilding organizzano un party nella loro villa. Tra i partecipanti c’è anche Clift che, dopo aver bevuto appena un bicchiere di vino, ha una violenta lite con il suo intimo amico Kevin McCarth. Precipitatosi in auto si sarebbe allontanato ad alta velocità ma poco dopo aver varcato il cancello della villa si è schiantato contro un palo della linea telefonica. La prima ad accorre sul luogo dell’incidente fu proprio Liz Taylor la quale gli salvò la vita cavandogli letteralmente i denti dalla gola, che lo stavano soffocando.

Nei due anni successivi lavora invece in due opere tratte da celebri drammi di Tennessee Williams: “La gatta sul tetto che scotta“, nel ruolo della bella ma infelice Maggie, moglie di uno sportivo – interpretato da Paul Newman – in crisi con sé stesso a causa della morte del suo migliore amico; e “Improvvisamente l’estate scorsa” dove si immerge nel complicatissimo ruolo di Catherine Holly, giovane paziente del dottor Cukrowicz – Montgomery Clift – la quale soffre di disturbi emotivi e che la potente zia Violet – Katharine Hepburn – vorrebbe far sottoporre a lobotomia per mettere a tacere uno scandalo familiare.

L’ambita statuetta finisce tra le mani di Elizabeth Taylor nel 1960 per la sua Gloria Wandrous, una prostituta che tenta di riconquistare il suo primo amore ormai sposato, in “Venere in visone” di Daniel Mann. L’alba degli anni ’60 si dimostra comunque turbolenta per via del quarto matrimonio con Eddie Fischer – letteralmente “rubato” alla migliore amica Debbie Reynolds – a sua volta scaricato nel marzo del 1964 mentre era in corso l’adozione di una bambina, Maria, poi divenuta figlia del nuovo compagno della Taylor, quel Richard Burton che nell’arco di vent’anni sposerà due volte.

La loro folle passione, spesso animata dal whiskey e liti furibonde, sbocciò sul set di “Cleopatra”, film in cui Liz Taylor diviene l’attrice più pagata di Hollywood firmando un contratto da un milione di dollari, lievitati a sette al termine di una lavorazione particolarmente complicata in quanto, dopo poche settimane, le riprese subirono una brusca interruzione a causa di una polmonite che portò la diva vicina alla morte. Siccome il rigido clima inglese non avrebbe permesso a Liz di guarire, l’intero set venne smantellato e ricostruito a Roma con Joseph L. Mankiewicz – e non più Rouben Mamoulian – dietro alla macchina da presa. Nato come un progetto da 2 milioni di dollari, “Cleopatra” raggiunse l’esorbitante cifra di 44 milioni, che, rapportati all’inflazione, corrispondono agli attuali 325 milioni di dollari che ne fanno tuttora il film più costoso della storia del cinema.

Nel 1967 la Taylor ottiene il suo secondo Oscar come migliore attrice protagonista per “Chi ha paura di Virginia Woolf?” dove interpreta una donna alcolizzata e isterica, che affronta una grave crisi coniugale col marito George, ossia Richard Burton. Quando venne scelta da Mike Nichols per il ruolo di Martha, Elizabeth guardò al film come a una possibilità di cambiare sé stessa ed emulare la sua attrice preferita, Vivien Leigh. Temendo di non apparire abbastanza vecchia – il personaggio aveva vent’anni in più rispetto a lei -, Elizabeth Taylor non esitò a sottoporsi a una sfida fisica e a mortificare la sua prodigiosa bellezza per essere più credibile: ingrassò di 14 kg, si tinse i capelli di grigio e adottò un trucco che appesantisse i lineamenti fini del suo volto.

Nel corso degli anni ’60 la Taylor e Burton apparvero insieme in altre sei pellicole di tutto rispetto: “International Hotel”, “Castelli di sabbia”, “La bisbetica domata”, “Il dottor Faustus”, “I commedianti” e “La scogliera dei desideri”. Senza il marito, apparve invece in “Riflessi in un occhio d’oro” di John Huston accanto a Marlon Brando – che sostituì Montgomery Clift, morto prima che incominciassero le riprese – e in “Cerimonia segreta” con a fianco Mia Farrow.

Pur non riuscendo a mantenere il potere di attrazione ai box office di un tempo, nonostante il flop di “L’ultimo gioco in città” e una voce che le si stava affievolendo sempre più – Liz continuò a recitare in film di valore come “X Y e Zi” con Michael Caine; “Mercoledì delle ceneri” con Henry Fonda ed Helmut Berger e “Il giardino della felicità” di George Cukor insieme a Jane Fonda e Ava Gardner, per arrivare al musical “Gigi”, fino ad altre due opere con Burton; “Hammersmith Is Out” e “Under Milk Wood”. Ormai prossima alla sessantina, nel 1980 fa poi parte del super cast di “Assassinio allo specchio” dove compare insieme a Angela Lansbury, Geraldine Chaplin, Rock Hudson, Tony Curtis e Kim Novak; per quindi attendere otto anni prima di tornare di fronte alla macchina da presa nel sofisticato “Il giovane Toscanini” dove a dirigerla sarà, a distanza di quasi due decadi, Franco Zeffirelli.

In mezzo a tutto questo trambusto finisce in un divorzio anche il settimo matrimonio con il senatore repubblicano John Warner, così come non conosce il lieto fine nemmeno l’ottavo scambio di anelli con l’operaio edile Larry Fortensky, la cui cerimonia venne celebrata a Neverland, il giunonico ranch del suo grande amico Michael Jackson.

Se la carriera cinematografica di Liz Taylor si chiude vestendo gli abiti di Wilma Slaghoople in I Flintstones”; l’ultima apparizione televisiva avviene in occasione di “These old broads” con la ritrovata amica Debbie Reynolds dove i personaggi da loro interpretati, ripercorrono una sorta di déjà-vu della vita reale mettendo in ridicolo l’ex-marito che avevano condiviso. Ritagliatasi la soddisfazione di un debutto teatrale a Broadway e nel West End col dramma “Piccole volpi”, Liz Taylor dimostra di accettare il tempo implacabile che avanza senza prendersi troppo sul serio, bensì accettando piccoli cameo in alcune soap opera tra cui “General Hospital” e “La valle dei pini; ma in modo particolare facendo una parodia di sé stessa e ironizzando sulle sue abitudini, nella fortunata sitcomLa tata”. Non a caso Nichols la definì «una stella senza arie».

Una grave forma di insufficienza cardiaca non le impedisce di buttarsi anima e corpo in vere e proprie battaglie per la ricerca sull’AIDS, in difesa degli animali e di occuparsi delle sue linee di profumi e gioielli. Sempre in compagnia dell’adorato cucciolo di maltese di nome Sugar poi al barboncino Daisy, l’ultima diva affronta la rimozione di un tumore benigno al cervello, un cancro alla pelle e due gravi polmoniti finché, il 23 marzo del 2011 si spegne all’età di 79 anni al Cedars-Sinai Medical Center di West Hollywood. Accanto a lei ci sono i primi due figli avuti dal matrimonio con Michael Wilding e Debbie Reynolds che ha confidato: «Abbiamo parlato di che inferno è invecchiare, della paura che aveva di morire, di lasciare questo mondo per andare in un altro. Fino all’ultimo ha sperato di fregare la morte per l’ennesima volta».

Consapevole di appartenere a una generazione ben precisa Elizabeth Taylor non si è mai intromessa sul fronte delle “prime grandi dive” popolato da Katherine Hepburn, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Bette Davis, Joan Crawford, Vivien Leigh e Ingrid Bergman; conscia del proprio ruolo non è mai entrata in conflitto con le uniche rivali dei suoi giorni Audrey Hepburn e Ava Gardner; in silenzio si è lasciata alle spalle il fantasma di Marilyn Monroe, ha sorvolato aspirazioni regali di Grace Kelly, per quindi assistere al precoce declino di Kim Novak, Lana Turner e Tippi Hedren ed accogliere con il sorriso le nuove celebrità. Nonostante i contratti stratosferici, lo sfoggio dei gioielli e la burrascosa vita sentimentale; della Taylor avrebbe finito per rimanere maggiormente impressa l’ironia, l’umiltà con cui parlava di sé, la generosità verso chi era stato meno fortunato, la capacità di prendersi a cuore una serie di figure smarrite, da Montgomery Clift a James Dean per arrivare a Michael Jackson; e forse i mariti stessi.

«Elizabeth possiede un talento terrificante che spesso viene oscurato dalla sua bellezza, e possiede anche la più rara delle virtù: la gentilezza»; così la descrisse Daniel Mann, il regista che la spinse verso il primo Oscar. Un premio che afferrò non ancora trentenne, con già alle spalle almeno altre otto performance indimenticabili, ma che ugualmente suscitò alcune polemiche perché venne ritenuto una conseguenza della tracheotomia che le era stata praticata d’urgenza pochi giorni prima e delle voci di corridoio che la volevano in pericolo di vita. Metterla in dubbio per subito dopo osannarla, faticare a comprenderla per quindi pretendere di conoscerne ogni sfumatura, è stato il leitmotiv della sua esistenza; perché Elizabeth Taylor aveva destabilizzato il patinato mondo di Hollywood diventando la prima bambina prodigio capace di diventare adulta, di reinventarsi, di sopravvivere all’immagine di sé stessa, di tenere in pugno le produzioni, dimostrando di essere disposta a imbruttirsi, a invecchiarsi, pur di vincere un secondo Oscar, per quindi ammettere che a lei il nomignolo “Liz” non era mai piaciuto, lo ha semplicemente accettato per accondiscendenza nei confronti di quello star system di cui faceva parte, pur mantenendo le distanze. Lei, Elizabeth Taylor è diventata un mito con disinvoltura, senza mai far pesare la consapevolezza di esserlo, senza mai imporre la sua essenza di ultima diva mantenendosi fino alla fine in equilibrio nella perfetta illusione tra essere e apparire, tra la sua indole di dea e la sua natura, infine mortale.

2 comments

  1. Giampaolo Romanello

    Bellezza e abilità ineguagliabili

  2. Giampaolo Romanello

    Elisabeth Taylor, bellezza, fascino, abilità artistica impareggiaboli

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